“Bestiario” di Julio Cortázar: la casa al di là delle cose che vediamo

Alcune letture cambiano il nostro modo di vedere la vita al primo timido sfogliare delle pagine, mentre scivolano le dita sulle macchie scure dell’inchiostro, prima rapide e poi lente, seguendo il vario ritmo di idee appena nate.

Bestiario di Julio Cortázar
Bestiario di Julio Cortázar

Scorrono le dita in quella fitta oscurità di segni ed ogni parola giunge vicina e dà un ordine a quel che di noi avevamo disseminato nel tempo e al presente in cui viviamo.

Ed è il nostro un presente fatto di saracinesche chiuse e strade deserte, in cui il silenzio s’insinua di notte tra le fessure delle persiane che filtrano la fioca luce dei lampioni e nulla più.

È un presente che ci sopraffà e che incessante invade ogni cosa, confinando la nostra vita entro il perimetro stretto delle nostre case. Tuttavia tentiamo di controllarlo, modulando il tempo con abitudini vecchie e nuove e ricercando la normalità in un ordine di cose differente. Così il ritmo della vita si ripete uguale in una casa che è per noi al contempo porto sicuro e prigione.

Come in “Bestiario” di Julio Cortázar (edito da Einaudi), prima raccolta di racconti pubblicata dall’autore argentino nel 1951. Al suo esordio letterario, Cortázar dà vita ad una piena formulazione della sua poetica, sviluppando la narrazione degli otto racconti che compongono la raccolta attorno al tema del fantastico. Come afferma lo stesso autore nell’appendice all’opera:

Quasi tutti i racconti che ho scritto appartengono al genere chiamato fantastico per mancanza di un termine migliore e si contrappongono a quel falso realismo che consiste nel credere che tutte le cose si possano descrivere e spiegare come dava per scontato l’ottimismo scientifico e filosofico del diciottesimo secolo, e cioè, nell’ambito di un mondo retto più o meno armoniosamente da un sistema di leggi, di principi, di rapporti di causa effetto, di psicologie definite, di geografie ben cartografate”.

Ma è quello di Cortázar un fantastico che non si concretizza e di cui non si trova reale manifestazione nell’opera, pur rappresentandone l’elemento strutturale: non si vede, ma si percepisce e con la sua presenza determina la tensione che sostiene la narrazione.

La dimensione in cui Cortázar introduce l’elemento fantastico è quella del quotidiano, il cui spazio simbolico è costituito dalla casa. In “Casa occupata”, racconto che apre la raccolta “Bestiario”, la casa rappresenta lo spazio all’interno del quale si realizza l’eventualità del fantastico, attraverso la narrazione della vicenda di due fratelli, uniti da un legame incestuoso, che vivono in un’antica casa che a poco a poco viene occupata da qualcuno o qualcosa che non viene mai descritto dall’autore, eppure esiste.

Così, attraverso ciò che non si vede, fa irruzione il fantastico nello spazio chiuso della casa e condiziona le esistenze dei protagonisti, i quali si adeguano al cambiamento, preservando la ritualità delle loro abitudini sempre uguali.

La ripetizione costante dei medesimi gesti genera un’estensione della normalità dall’effetto perturbante e ciò rappresenta il fondamentale punto di rottura tra l’opera di Cortázar e il genere fantastico: quel che turba il lettore e genera stupore non è l’elemento straordinario calato nel reale, bensì il reale stesso, esasperato attraverso una forte tensione narrativa che culmina con un finale aperto dall’apparente incompiutezza.

Questo è quel che avviene anche nel secondo racconto della raccolta, “Lettera a una signorina a Parigi”, in cui il protagonista si trova costretto, di tanto in tanto, inspiegabilmente a vomitare coniglietti.

Julio Cortázar
Julio Cortázar

Trasferitosi in una nuova casa, l’uomo vede aumentare i coniglietti e, allo stremo delle sue forze, se ne occupa, adattando così la sua vita. Il fantastico, rappresentato dai coniglietti, irrompe nella routine e ne diviene parte integrante, determinando un insieme di azioni che il protagonista ripete continuamente, abitudini che nel racconto vengono definite in questo modo:

Le abitudini, Andrée, sono forme concrete del ritmo, sono la quota di ritmo che ci aiuta a vivere”.

In “Bestiario” la casa risulta essere un luogo ricorrente in cui il fantastico trova spazio e ciò risulta evidente anche nel racconto che conclude l’opera e le dà il titolo. In tale racconto Cortázar riprende simmetricamente la struttura narrativa di “Casa occupata”, in quanto l’azione dei protagonisti è fortemente condizionata da una presenza che non si manifesta mai, ma che viene nominata: una tigre.

Una tigre si aggira per la casa e ad ogni suo spostamento i protagonisti la evitano spaventati. Tuttavia, quegli spostamenti, per il lettore inusuali, sono parte di una routine e per questo accettati senza titubanza. Vi è nell’agire di ogni personaggio dell’opera un’accettazione dell’elemento fantastico nonostante questo generi turbamento poiché alla base vi è la convinzione che questo sia qualcosa di possibile e non di straordinario.

E le abitudini dei protagonisti non sono che l’espressione più evidente di quest’accettazione, all’interno di un microcosmo letterario – quello di Cortázar – in cui ciò che appare non è la sola cosa esistente: vi è qualcos’altro al di là delle parole verso il quale la narrazione tende.

Del resto, come affermò lo stesso Cortázar in un’intervista nel 1977:

Personalmente continuo ad avvertire la presenza di qualcosa che si trova dall’altra parte delle cose e per questo non smetterò mai di cercare”.

Qualcosa che è al di là delle cose è ciò che possiamo ricercare noi oggi, tra le quattro mura delle nostre case, volgendo il nostro sguardo verso ciò che c’è ma che ancora non vediamo.

Leggendo Cortázar si ha l’occasione di cambiare il nostro modo di vedere la vita.

 

Written by Roberta Di Domenico

 

12 pensieri su ““Bestiario” di Julio Cortázar: la casa al di là delle cose che vediamo

  1. Una domanda intrigante per tutti i «cortazariani» (anche se si riferisce a un altro libro del grande scrittore argentino) : tenete per i Cronopios o per i Fama?

      1. Grazie per la risposta. Anch’io, per istinto, mi sentirei di dire che sto dalla parte dei Cronopios, ma quanti Fama vivono attorno a noi! La vita collettiva è governata dai Fama e allietata dai Cronopios, gli uni non possono sopravvivere senza gli altri e anche noi esseri umani non potremmo sopravvivere a lungo senza il loro continuo alternarsi in un difficile, precario equilibrio. Va detto poi che questi tempi grami, segnati dalla diffusione del virus COVID19, sembrano essere più propizi ai Fama che ai Cronopios. Senza il prezioso contributo (alla maniera dei Fama) di medici, personale infermieristico e tutori dell’ordine questo virus non potrebbe essere sconfitto. Eppure i canti dai balconi imbandierati, lo sbattere improvviso dei coperchi e delle pentole dalle finestre di mezza Italia, le innumerevoli freddure e barzellette che circolano attraverso i social contribuendo a tenere alto, nonostante tutto, il nostro morale sono altrettanti, sorprendenti doni dei Cronopios.

  2. Interessante. Un libro, che se mi capita tra le mani, leggerò. L’animismo che è in noi ci condiziona la vita. Quando scendo in una stanza che so io (sita in fondo alla casa, dove svolgo alcune azione non abituali), la prima cosa che faccio è salutare sei fotografie di quattro persone conosciute ed “evaporate”, poi 10 peluche. Ad ognuno dico “ciao!”; all’uscita dico un generico “ciao a tutti”. Sono pazzo? O forse religioso? O non è la stessa cosa?

  3. Nè pazzo, né religioso, ma direi piuttosto «cortazariano». Lo si può essere anche inconsapevolmente, senza aver letto nulla di questo autore, perché Cortazar ha saputo magistralmente interpretare quel senso di «irrealtà» che si cela in ciascuno di noi esseri umani e in certi casi, ma fortunatamente solo a tratti e in condizioni speciali, si manifesta.

  4. Ciao!

    Leggo il commento di Roberta Di Domenico al “Bestiario” di Julio Cortázar, un libro, che se mi capita tra le mani, divorerò, lo sento. E comincio a reagire…
    L’animismo che alberga in noi ci condiziona la vita.
    Quando scendo in una stanza che so io (sita nel luogo più profondo della casa, dove svolgo alcune azioni non usuali), la prima cosa che faccio è salutare sei fotografie di quattro persone evaporate, poi dieci animaletti di peluche. Ad ognuno dico “Ciao!”; all’uscita dico un generico “Ciao a tutti”.
    Sono pazzo? O forse religioso? O è la stessa cosa?
    Fin da bambino ero un tipo strano, anche ora lo sono, non un tipo, un bambino.
    Un bimbo strano? Non so. Ci vorrebbe un normale, per dirlo.
    Normale: che obbedisce a norme. Quindi anch’io? O per essere definito tale dovrei credere in esse? A tutte? O Solo ad alcune? Quale percentuale di trasgressione è consentita a ognuno di noi?
    Sono equamente distribuite, oppure ci sono alcune milioni di classi di reddito, come quelle su cui è calcolato l’erogazione degli assegni al nucleo familiare?
    Don’t worry! E tiremm’innanz!
    Quand’ero piccolo, e questo mi pare un bel distinguo rispetto a come sono ora, avevo una certa tendenza a toccare le cose con entrambi le mani. Se le toccavo con la destra, che era la prima che mi veniva di utilizzare, sentivo svilupparsi dentro di me un senso d’ingiustizia. La destra era la mia preferita, a scapito della sorella, quella più idiota, ma non meno mia, la sinistra.
    Ci sono storie peggiori di questa, ad esempio quella di una certa Maria, che mi pare sposai alcuni decenni fa, che nacque mancina. La sua maestra, e me la ricorda ancora piccina e vecchina, un po’ curva sotto il greve peso degli anni, mentre sale i gradini della cattedrale, in quella giornata piovosa di un pomeriggio di luglio, per salutare la sua ex alunna che quel giorno era sposa, questa bravissima insegnante, dicevo, le aveva legato, già in prima elementare, la mano sinistra dietro la schiena, per cui, obtorto collo, quella che sarebbe stata la mia consorte imparò ad usare la destra.
    C’è poi il meno drammatico caso di un amico di nome Silverio, che è mancino come Leonardo da Vinci quando scrive o gestisce gli oggetti, ma è destro quando gioca a football. Essendo lui un napoletano atipico, che tifa Lazio, può anche darsi che egli giocasse col piede che vedeva usare da Chinaglia, l’arto destro. Non so. Gliel’ho chiesto, ma nemmeno lui lo sa spiegarsi il fatto. Mi ha detto che anche a basket gioca con l’arto destro, mentre a ping pong e a tennis usa la mano sinistra. La mano abituale è più spesso la sinistra. Il suo piede preferito è il destro. Già questa è una forma di equità, sorta in qualche meandro del suo cervello parte-nopeo e parte destrorso.
    Un altro amico mio, L. G., definisce egoisti i figli unici: “Ecco, lo vedi quello, è uno che pensa solo a sé: è il classico figlio unico!”. Anche lui lo è, quindi sa quel che dice.
    Io sono un bi-figlio, nel senso che ho una sorella più grande di due anni.
    Quando i miei genitori versavano mezzo bicchiere di vino a lei e solo un quarto a me, mi facevo sentire, invocando una maggiore giustizia sociale. E non la piantavo fino a che non ricevo soddisfazione.
    Mia sorella ha un altro carattere rispetto al mio. È seria e onesta intellettualmente.
    Anche io lo sono ma, per arrivare ad esserlo, devo in genere attraversare un intricato sentiero zeppo di buche e di piccole menzogne.
    Lei non ha mai risposto male ai genitori, io sì.
    Dopo averle scorse un po’ tutte, trovai l’epiteto che tanto faceva imbestialire mia mamma: vigliacca!
    Anche mio padre subiva talvolta qualche uscita di testa dal sottoscritto.
    Eppure mia sorella dice che ero il preferito da entrambi. Lei era studiosissima, io no.
    Il fatto è che io sapevo essere molto affettuoso, lei no.
    Ero anche un ottimo ricercatore di fonti, poiché sapevo utilizzare con sagacia i suoi appunti, motivo per cui scelsi il suo medesimo iter scolastico.
    Una volta lessi le sue annotazioni su “I Promessi Sposi”, che trattavano l’insurrezione di Milano ed era evidenziata la bieca figura di un vecchio malvissuto. Mia sorella aveva sottolineato ‘sto fatto e aggiunto, tra parentesi, che si trattava di un personaggio non tanto importante quanto emblematico (termini probabilmente usati dalla sua prof).
    Il dì dopo il mio insegnante di lettere cominciò a discettare su quella sommossa. A un certo punto si mise la mano sulla fronte, perché non ricordava un particolare: “Manzoni utilizza un’espressione, porca l’oca!…, non ricordo quale!… per indicare un vecchio che nella folla si agita come un… ossesso… Non ricordo bene come lo chiamò… non è per caso che voi ve lo ricordate?!…, sì!…, capirai!…”
    Al che io alzo la manina e quando lui mi fa cenno di parlare, glielo dico io come l’ha chiamato quale matusalemme il buon vecchio Alessandro: “Un vecchio malvissuto!”.
    “Bravo!!! Non mi veniva!”
    Da quel giorno quel prof, di cui rammento ma non riporto nome e cognome, ma solo le iniziali, G. V., mi trattò sempre coi guanti. Solo recentemente ho avuto il coraggio di raccontare l’aneddoto a mia sorella. E solo pochi anni fa decisi di leggere in toto il capolavoro manzoniano.
    Da allora esso m’appartiene.
    Figli doppi: credo che questa condizione rafforzi il senso di giustizia. Oppure genera la tendenza a sopraffare il prossimo. O magari di sfuggirlo. Non so. Ma ad essa riferisco la probabile origine di quella mia antica abitudine a bi-toccare gli oggetti.
    Conosco tutti i titoli dei libri che ho letto. Anche questo non mi pare normale, ma forse dovrei dire comune.
    Li ho tutti con me, a parte una ventina, e sono alloggiati, in maniera confusa, sugli scaffali delle mie tre o quattro librerie. I libri si dividono in due grandi categorie: quelli letti e quelli da leggere.
    Non concepisco nemmeno l’idea di un libro lasciato a metà. Sarebbe come dire che riconosco solo in parte un figlio, che ne ho uno e mezzo. No! ne ho due interi!
    Dopo tanti anni, provo ancora, un sordo rancore nei confronti di una poco di buono di nome Lorena, a cui imprestai una volta un libro di Henry Miller, “Il sorriso ai piedi della scala”, uno dei suoi meno significativi e dei più corti, e che mai me lo rese. Lavorava insieme a me come trimestrale alle Farmacie Riunite. Ogni volta che glielo chiedevo, si picchiettava sulla capa e diceva “Ahimè me lo sono scordato!”
    Poi finì il suo mandato e non la vidi più per anni. Mi lussai il gomito sinistro facendo judo, e mi capitò d’incontrarla di nuovo. Era anche lei, come me, in terapia presso la piscina dell’ospedale. La salutai appena, in cuor mio godendo del suo handicap. Non le chiesi qual era, ma dentro di me, m’auguravo fosse grave e irrisolvibile.
    Ma si può?
    Sì!
    Un libro letto è per me come un avversario che dopo un match t’è diventato amico, e non so se questo capiti spesso. Dovrei chiedere a Joe Frazier che vinse per un pelo contro Muhammad Ali e perse malamente con George Foreman.
    Si tratta, per me, di un corpo a corpo con quel mostriciattolo di cellulosa che ricorderò per tutta la vita.
    Dovetti ricomprare il libretto di Henry, e rileggerlo.
    Solo un’altra volta mi capitò di leggere due volte lo stesso libro (in due edizioni diverse). Per tutto il tempo ebbi il dubbio di averlo già letto, ma non ricordavo bene, anche perché il tono e lo stile del suo autore è simile in tutte le sue opere. Quando sistemai i suoi dati nel database, mi accorsi che non più di un lustro prima l’avevo già letto e catalogato. Si trattava di “Il dubbio” di Luciano De Crescenzo.
    Mi rammento ora di un terzo caso di involontaria doppia lettura, con la differenza che stavolta la nuova mi meravigliò tantissimo, al punto che lo suggerii a mia sorella. Era “Pedro Paràmo” del messicano Juan Rulfo. Le due letture distavano fra loro quasi dieci anni. La prima che mi diede? Non ricordo. La seconda? Tantissimo. Anche in questo caso si tratta di due libri-individui diversi. Due anime differenti. Divergenti. Chissà cosa c’è sotto? Forse io?
    Forse.
    Questo per dire che dovrei ascoltare il consiglio dell’amico Riccardo, che insiste sulla necessità di rileggere quanto si è già letto, abitudine che aborro, mentre accetto quella di riprendere in mano di tanto in tanto quegli esserini e riascoltare il loro soave e truce cinguettio, in maniera occasionale e non daccapo.
    C’era una volta un uomo che si chiamava Primo. Suo fratello minore Secondo. Il terzo Terzo, e così via, fino a Settimio. L’ultimo fu chiamato Daccapo. Ecco, io un tal figlio farei fatica a riconoscerlo.
    Si tratta però di una battuta.
    C’era una volta un uomo che si chiamava Primo. Suo fratello minore Secondo. Il terzo Terzo, e così fino a Settimio. L’ultimo fu chiamato Finimolo.
    Lo conobbi, questo C……..i Finimolo. E non si tratta d’una gag!
    Io gli parlo, ai libri. E loro mi rispondono solo allorché mi degno di leggerli.
    Inutile dire che da piccolo collezionavo soldatini, figurine, pupazzetti, i famosi plasteco della Mio, gli ologrammi della stessa etc.
    Ora colleziono piccoli, medi e grandi horcrux di me medesimo.
    Ci sono infatti due tipi di uomini: i collezionisti e chi non si ritiene tale.
    E c’è chi, come un mio quarto amico, S. G., che ogni tanto svende i suoi ricordi, di solito libri, mappe antiche, oggetti raccattati presso antiquari o in mercatini del riuso, perché li sente opprimere dentro di sé, per cui sente l’imperativo e intimo comando di (ri)gettarli, per scurda’ ‘o passato. Il loro carico emozionale lo appesantisce, dice.
    Ne va da sé che S. G. non è né napoletano, né partenopeo.
    La sua, nelle intenzioni, è un’azione catartica. Che non avrà mai successo. Non solo non guarisce dall’angoscia, ma prima o poi, inevitabilmente, reitera il comportamento accattante. Torna infatti dall’antiquario, visita di nuovo i mercatini e ri-compra i suoi horcrux, che tali diventano non appena ne prende possesso.
    Torno all’inizio della presente chiacchierata.
    Scendo in cantina, accendo la luce e saluto i miei più prossimi amici. Mi appoggio allo stipite della porta che reca al garage e con la mano destra e con la sinistra faccio presa sulla sella di una delle due biciclette che quasi ostruiscono il passaggio.
    E penetro nel luogo dove mi aspettano gli amici. Che saluto tutti. Accendo la luce del garage. Di passaggio dico: “Ciao Papà!”, “Ciao Mamma!”, una foto a testa. “Ciao Claudio!”, “Ciao Paolo!”, due foto a testa, “Ciao Maurizio!”, una foto sola.
    Sporgendomi un po’, con il kambered (chissà cos’è?!) privo di dischi, spengo la luce della cantina, sempre appoggiandomi alle bici.
    E inizio ora la cerimonia.
    E ora prego il mio massimo horcrux.
    Fino a che, stanchissimo, cesserò di farlo.
    E poi, necessariamente, saluterò di nuovo: “Ciao a tutti!”
    E finalmente potrò riattraversare quella benedetta Via Crucis.

    post. scriptum: grazie Roberta

    1. Grazie a te per aver letto l’articolo ma soprattutto per aver condiviso un tuo lato tipicamente cortazariano. È il fantastico che ognuno racchiude in sé ma di cui non tutti sono forse consapevoli. Bisogna sapersi leggere dentro e Cortázar in questo aiuta.

  5. Grazie, infine, alla cara Donna-Collante Alessia Mocci che ogni tanto ci permette di tirar fuori il meglio di noi, facendoci anche interagire con l’Altro, che da sconosciuto diventa quasi mezzo parente.
    E ci lascia liberi di Essere e di reagire al Mistero che è ugualmente racchiuso dentro e fuori di noi.
    Nulla di più.
    Alla prossima, cara…

      1. Se l’angelo fosse stato Pioli. Se fosse stato Mocci l’avrebbe assaporato con Santa Calmeina!

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