Dalle Enneadi secondo Plotino: le ipostasi che conoscono e ciò che è al di là

Ciò che pensa se stesso non può che essere vario, se con una sua parte deve vedere le altre, così da poter affermare che pensa sé.

Diremo allora che l’assolutamente semplice non può rivolgersi a se stesso al fine di conoscersi? Oppure, anche ciò che non è molteplice può avere cognizione di sé?– Plotino

Enneadi - Plotino
Enneadi – Plotino

Plotino (Licopoli, 203/205 – Minturno (o Suio), 270) è considerato l’erede di Platone e padre del neoplatonismo, le informazioni che abbiamo su questo importante filosofo greco provengono dalla Vita di Plotino ad opera dell’allievo Porfirio, inserita come prefazione alle Enneadi.

Porfirio racconta nella biografia:Un certo Olimpio di Alessandria, che era tra quelli che pretendevano di essere filosofi, essendo stato per breve tempo discepolo di Ammonio[1], iniziò a denigrarlo per voglia di protagonismo; si accanì così tanto contro di lui da cercare di rivolgergli contro, con arti magiche, gli influssi negativi degli astri. Quando si rese conto che questi sortilegi si rivoltavano contro se stesso, disse ai suoi compagni che la potenza dell’anima di Plotino era così grande da poter rinviare al mittente i malefici, proprio ai medesimi che cercavano di fargli del male. Plotino, del resto, si era accorto dei tentativi di Olimpio, dicendo che il suo corpo ‹si contraeva come le borse che si chiudono[2], giacché i suoi organi si comprimevano a vicenda. Dopo aver rischiato più volte di incorrere negli stessi mali che voleva infliggere a Plotino, Olimpio alla fine la smise. Plotino, di certo, possedeva sin dalla nascita qualcosa in più rispetto agli altri.”

Le Enneadi (in greco antico: Ἐννεάδες, Enneádes) sono composte da sei gruppi di nove trattati ciascuno. Porfirio ordinò i trattati in senso ontologico con lo scopo di tracciare un percorso per il lettore per il raggiungimento del superamento della condizione terrena e, dunque, per giungere alla comprensione della filosofia.

Gli scritti di Plotino hanno ispirato teologi, mistici, cristiani, musulmani, ebrei, gnostici e metafisici pagani.

Dal 9 marzo al 4 maggio abbiamo presentato la prima Enneade con alcuni paragrafi tratti dall’edizione Mondadori del 2012. Abbiamo così attraversato gli argomenti “Che cos’è il vivente e chi è l’uomo”, “Le virtù“, “La dialettica”, “La felicità”, “Se l’essere felice aumenta col tempo”, “Il Bello”, “Il primo bene e tutti gli altri“, “Quali siano e da dove vengono i mali” ed “Il suicidio”.

Dall’8 giugno al 3 agosto abbiamo presentato la seconda Enneade ed i suoi nove trattati: “Il Cielo“, “Il moto celeste“, “Se gli astri hanno un influsso“, “La materia“, “Ciò che è in potenza e ciò che è in atto“, “La sostanza e la qualità”, “La commistione totale“, “La vista, perché le cose lontane appaiono piccole“, “Contro gli gnostici“.

Dal 7 settembre al 2 novembre abbiamo presentato la terza Enneade: “Il Destino”, “La provvidenza I”, “La provvidenza II”, “Il demone che ci ha avuto in sorte”, “Eros”, “L’impassibilità degli esseri incorporei”, “Eternità e tempo”, “La natura, la contemplazione e l’Uno”, “Considerazioni varie”.

Dal 7 dicembre al primo febbraio abbiamo presentato la quarta Enneade: La sostanza dell’Anima I”, “La sostanza dell’Anima II”, “Questioni sull’Anima I”, “Questioni sull’Anima II”; “Questioni sull’Anima III”, “La sensazione e la memoria”, “L’immortalità dell’Anima”, “La discesa dell’Anima nei corpi”, “Se tutte le anime siano una sola”.

Il primo trattato della quinta Enneade è intitolato “Le tre ipostasi originarie” e come da titolo si presentano le tre ipostasi: Uno, Intelligenza ed Anima. Per questa sorta di Trinità i padri della Chiesa hanno sempre interpretato Plotino vicino alla loro dottrina sebbene le tre ipostasi siano differenti dalle tre Persone della Trinità.

Il secondo si intitola “La genesi e l’ordine della realtà che vengono dopo il primo” ed in ordine temporale è l’undicesimo scritto da Plotino. In questo breve trattato Plotino riprende in modo più marcato un concetto già espresso: l’Uno non è nulla di ciò che da lui deriva, e proprio perché nulla di ciò che da lui deriva è in lui, tutto può derivare da lui.

Il terzo trattato della quinta Enneade si intitola “Le ipostasi che conoscono e ciò che è al di là” ed è il quarantanovesimo scritto dal nostro amato filosofo alessandrino. Il trattato è incentrato sul problema dell’autoconoscenza e dell’esperienza dell’Uno. Plotino riprende, in questo modo, concetti di Parmenide, di Platone e di Aristotele. Basato su concetti metafisici, l’uomo può conoscere se stesso solo comprendendo la struttura dell’intero, ossia delle realtà a tutti i livelli.

L’Anima, partendo dalla sensazione, percepisce impronte sensoriali che vengono conosciute per mezzo dell’anamnesi degli archetipi intelligibili grazie alle immagini di essi che sono in lei. L’autoconoscenza dell’Anima si realizza nella dimensione dell’Intelligenza stessa.

La verità è, dunque, il pensiero che si autopensa. Occorre arrivare all’Uno, che è al di sopra dell’Intelligenza e dell’Essere. L’uomo può raggiungere l’Uno solo astraendosi del tutto, ossia spogliandosi di tutto, e in tal modo unificandosi con Lui.

L’unione con l’Uno avviene mediante un rapimento, e una unificazione con Lui, nella quale parole e concetti sono trascesi nel silenzio dell’esperienza mistica.

È in questo trattato che troviamo uno dei concetti più famosi di Plotino sintetizzato in: άφέλέ πάντα. Concetto che si avvicina al γνῶθι σαυτόν che Platone inserì in particolare nel dialogo “Alcibiade maggiore”. L’άφέλέ πάντα, l’abbandonare tutto, l’astrarsi dal mondo sensibile per innalzare il pensiero oltre l’Intelligenza, oltre la conoscenza che nei millenni gli uomini hanno trasmesso.

L’ἀφαίρεσις esprime il concetto di sottrazione, separazione, eliminazione e si oppone a πρόσθεσις, che significa propriamente aggiunzione. Se traduciamo con astrazione non si vuole intendere quel significato di astrattismo cioè il movimento artistico nato nei primi anni del XX secolo, dunque l’astrazione non implica un passaggio dal reale al pensiero puramente ideale, ma un procedimento che si svolge all’interno del reale, ossia in dimensione ontologica, implicando l’eliminazione o la sottrazione di elementi per giungere all’elemento di base, quello ontologicamente essenziale.

L’anima, dunque, deve contemplare null’altro che la luce che la illumina, come d’altra parte neppure il Sole si vede con la luce di qualcos’altro. Ma, infine, come può avvenire questo? Spogliati di tutto.

Il procedimento dell’astrazione metafisica porta al limite estremo del pensiero, ed addirittura al non-pensiero, e giunge a quell’esperienza mistica che consiste nell’unificazione con l’Uno.

Di seguito sono riportati il primo ed il terzo paragrafo dei diciassette complessivi del trattato, dunque, si invita all’acquisto del volume riportato in bibliografia per potersi dissetare pienamente.

 

Enneade V 3, 1

Plotino - Enneadi - le ipostasi che conoscono
Plotino – Enneadi – le ipostasi che conoscono

Ciò che pensa se stesso non può che essere vario, se con una sua parte deve vedere le altre, così da poter affermare che pensa sé.

Diremo allora che l’assolutamente semplice non può rivolgersi a se stesso al fine di conoscersi? Oppure, anche ciò che non è molteplice può avere cognizione di sé?

Ebbene, l’essere a cui noi attribuiamo l’autocoscienza in ragione della sua molteplicità non riuscirebbe ad avere un’autentica conoscenza di sé, per il fatto che con una sua parte conosce le altre; così, del resto, avviene per la sensazione, grazie alla quale noi cogliamo il nostro aspetto, e gli altri caratteri essenziali del corpo.

Difatti, in queste condizioni non è la totalità a essere compresa, perché quella parte che ha colto le parti a essa collegate non ha colto sé. In tal modo, non avremo raggiunto l’oggetto della nostra ricerca, cioè che il medesimo pensa a se medesimo[3], ma un essere che ne pensa un altro.

È necessario quindi ammettere l’autoconoscenza anche nell’essere semplice e scoprire, posto che sia possibile, come ciò avvenga; altrimenti, si dovrà abbandonare la convinzione che qualche realtà possa pensare realmente se stessa. Ma rinunciare a una tale convinzione non si può proprio, perché ne deriverebbe una quantità di conseguenze assurde.

Se già il non concedere questa facoltà all’Anima è piuttosto assurdo, il non concederla alla natura dell’Intelligenza sarebbe addirittura il colmo dell’assurdità, perché in tal modo l’Intelligenza avrebbe cognizione delle altre cose, ma non avrebbe né conoscenza né scienza di sé.

Le realtà fuori di noi sono colte dalla sensazione e tutt’al più dalla conoscenza discorsiva e dall’opinione, ma non dall’Intelligenza. Se, poi, l’Intelligenza abbia consapevolezza di tali realtà è tutto da scoprire, ma che conosca le realtà intelligibili, di questo non c’è dubbio.

Avrà cognizione solo di tali realtà, o anche di se stessa in quanto conosce quelle? Così conoscerà se stessa solo perché coglie questi esseri, lasciandosi sfuggire chi essa sia? E saprà mai di conoscere delle parti di sé chi non sa ancora chi è? Oppure conoscerà tanto quello che gli appartiene quanto se stessa? Bisogna, dunque, ricercare in che modo ed entro quali limiti ciò avvenga.

 

Enneade V 3, 3

La sensazione coglie con la vista un uomo e ne trasmette l’impronta al pensiero discorsivo. E dice qualcosa il pensiero? Certo non dice nulla, conosce e basta. O forse potrebbe mettersi a parlare fra sé e sé[4] e chiedersi: “chi è mai costui?”; e se per caso l’ha già incontrato, grazie alla memoria potrebbe dire: “Ma è Socrate!”

E se anche il pensiero indagasse intorno alla sua figura, tutt’al più scomporrebbe in parti quello che la rappresentazione gli ha presentato. Ma se si chiedesse al pensiero: “È buono Socrate?”, esso risponderebbe certamente a partire dai dati che ha appreso per via di sensazione, ma quello che direbbe di essi lo trarrebbe da sé, in quanto proprio in sé ha il criterio del Bene.

E come fa il pensiero ad avere in sé il Bene? Perché è simile al Bene, e quindi la percezione di tale oggetto risulta ravvivata in quanto l’Intelligenza la illumina: in questo appunto sta la purezza dell’Anima, nel fatto di accogliere le impronte impresse dall’Intelligenza.

Ma perché non attribuire questo all’Intelligenza, e invece tutte le altre facoltà, a partire dalla sensazione, non attribuirle all’Anima?

Perché anche l’Anima deve collocarsi nella dimensione del ragionamento, e tutte queste realtà sono appunto atti del ragionamento.

Per quale motivo, allora, non ci sbarazziamo del problema, attribuendo a questa parte dell’Anima la funzione dell’autoconoscenza?

Per il fatto che a tale parte abbiamo riservato il compito di cogliere e di trattare le realtà esterne, e invece abbiamo ritenuto che il compito dell’Intelligenza fosse quello di guardare alle realtà che le sono proprie e che le sono interiori. E se qualcuno obiettasse: “che cosa impedisce che questa facoltà veda le cose proprie per mezzo di un’altra?”.

In verità, essa non è in cerca della sua parte raziocinante e argomentativa, ma coglie la pura Intelligenza.

Allora, perché non dire che l’Intelligenza pura è nell’Anima?

Nulla lo impedisce; ma potremmo in tal caso ancora chiamarla parte dell’Anima? No, ma piuttosto affermeremo che non è parte dell’Anima; e che l’Intelligenza è nostra anche se è diversa dalla facoltà raziocinante e si è spinta più in alto, pur non cessando di appartenerci anche se non si può computare fra le parti dell’Anima: insomma, è nostra e non è nostra.

E mentre del pensiero facciamo un uso continuo, dell’Intelligenza ci serviamo e non ci serviamo, e quando ce ne serviamo ci appartiene e quando non ce ne serviamo non ci appartiene.[5]

Ma che significa fare uso dell’Intelligenza? Che noi stessi ci trasformiamo in Intelligenza e che ci esprimiamo come lei?

No; significa essere in sintonia con lei. In verità, noi non siamo Intelligenza, ma possiamo conformarci a lei grazie alla parte razionale che l’accoglie per prima. E, del resto, noi sentiamo con la facoltà della sensazione, ma non siamo noi a sentire.

Sarà allora così anche quando ragioniamo, e cioè quando pensiamo mediante l’Intelligenza?

No; perché siamo proprio noi che argomentiamo e cogliamo i concetti che sono nel pensiero; e infatti noi siamo questo. In tal modo, i contenuti messi in atto dall’Intelligenza piovono dall’alto, mentre quelli attuati dalla sensazione sorgono dal basso, e noi ci troviamo a essere la parte principale dell’Anima, che sta in mezzo a due facoltà, l’una migliore e l’altra peggiore: la peggiore è la sensazione, la migliore l’Intelligenza.

In genere si ritiene che la sensazione sia parte di noi, perché noi siamo sempre senzienti. A proposito dell’Intelligenza, invece, la situazione è ambigua, perché non sempre ci appartiene, ed è comunque una realtà separata: separata per il fatto che non piega verso di noi, mentre siamo noi che, guardando lassù, ci orientiamo a Lei. Insomma, se la sensazione è nei nostri confronti un messaggero, l’Intelligenza è “per noi un re”.[6]

 

Note

[1] Il filosofo alessandrino Ammonio Sacca (175-242) è stato il fondatore del Neoplatonismo e maestro dello stesso Plotino. Alcuni studiosi ne ipotizzano una origine indiana e forse un’educazione cristiana. Aprì una scuola di filosofia ad Alessandria d’Egitto ed ebbe tra i suoi discepoli Origene il Cristiano, Origne il Pagano, Erennio Modestino, Cassio Longino. Non ha lasciato alcun scritto e ha tenuto segrete le sue idee (così come era di moda anche tra i Pitagorici). Ciò che si suppone della sua filosofia è stato tratto da Plotino, ma più in generale si ritiene che Ammonio volesse riconciliare il pensiero aristotelico con quello platonico superando la secolare divisione.

[2] Cfr. Platone, Simposio.

[3] Si noti l’espressione assai forte e paradigmatica che esprime l’autorealizzazione, senza mediazione, del pensiero con se medesimo e quindi l’autoidentificazione, in contrapposizione a ogni forma di conoscenza che implichi la differenziazione.

[4] Questa immagine del “parlare tra sé e sé” è ripresa da Platone esattamente ne “Sofista”: “Pensiero e discorso sono la stessa cosa, tranne che l’uno è un dialogo interno dell’Anima con se stessa, che avviene senza voce, ed è proprio questo che noi abbiamo denominato pensiero”.

[5] Nonostante le affermazioni sino ad ora lette, Plotino considera il legame dell’Anima con l’Intelligenza come un nesso metafisico fondante: l’Anima ha abbandonato per caduta quell’aggancio stabile con l’Intelligenza, che però rimane un nesso strutturale e quindi ineliminabile.

[6] Questa bella espressione è tratta da Platone e precisamente da “Filebo”: “Tutti i sapienti, esaltando veramente se stessi, sono concordi nel ritenere che l’Intelligenza è per noi regina del cielo e della terra, e probabilmente dicono bene.”

 

Info

Rubrica Dalle Enneadi secondo Plotino

 

Bibliografia

“Enneadi” di Plotino, Arnoldo Mondadori Edizioni, 2012. Traduzione di Roberto Radice. Saggio introduttivo, prefazioni e note di commento di Giovanni Reale.

 

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