“Una famiglia americana” di Joyce Carol Oates: il tetto era consolidato ma alla fine crollò

“Ma cos’è Mulvaney?”

Una famiglia americana
Una famiglia americana

Judd-Joyce Carol Oates, “redattore capo del Chautauqua Falls Journal”, guida il mezzo che consente al lettore di entrare, non visto, a casa dei Mulvaney, una famiglia americana come si deve.

Padre: Michael sr., madre: Corinne, figli: Michael jr., Patrick, Marianne e Judd-Joyce Carol Oates medesimo. Egli non è un semplice navigatore, è, anzi, sembra un vero e proprio taxista. Diciamoci la verità, il volante in mano è in mano al lettore, ma chi guida è Judd-Joyce Carol Oates.

Potrei giurarlo anche adesso: io c’ero.”: Route 58, Yewville Pike, Lebanon (la città crocicchio), seguite il fiume, attraversate il nuovo ponte a Mt. Ephrahim, Meridian Street (ci siete già, ma ancora non lo sapete), svoltate a destra in Seneca Street, dopo la pacchiana biblioteca in stile greco classico, “con la cancellata in ferro battuto”, dopo la centrale di Polizia, l’associazione benefica Odd Fellows, a destra c’è una piazza, andate avanti sulla Fifth Street, girate a destra dove c’è la chiesa episcopale della Trinità.

No, un attimo. Questo percorso è una scorciatoia per evitare il centro.” “In fondo alla Saint Main Street, girate a destra, poi a sinistra, beh, siete arrivati!alla sede della Mulvaney tetti e coperture. Fra poco entrerete nella proprietà della mia famiglia, i Mulvaney: “Una casa da fiaba, state pensando, sì? E deve esserlo, perché ci vivono persone da fiaba.” O, almeno, da commedia all’americana, che poi è lo stesso.

Noi Mulvaney siamo legati dal cuore”.

Almeno finché le cose vanno come devono andare.

Perché i Mulvaney era una famiglia nella quale tutto quel che accadeva era prezioso e tutto quello che era prezioso era immagazzinato nel ricordo e tutti avevano una storia…
Noi Mulvaney saremmo morti l’uno per l’altro, però avevamo segreti l’uno per l’altro. Li abbiamo ancora…
Ma questo documento non è una confessione, niente affatto. Sono giunto a confessarlo come un album di famiglia…
Che cos’è la verità? La domanda di Ponzio Pilato…”

Narrando questa storia dei Mulvaney, dei quali mi trovo ad essere il figlio più giovane, ma anche, spero, un osservatore neutrale, o almeno qualcuno le cui emozioni sono state purgate ed esorcizzate nel tempo, io voglio scrivere ciò che è vero. Tutto ciò che viene riferito qui è accaduto, ed è mio compito quello di suggerire come, e perché… Riferirò tutti i fatti che mi è riuscito di raccogliere, e il resto sono congetture, immaginate ma non inventate. Molto si basa su ricordi e conversazioni con membri della famiglia su cose che non ho vissuto in prima persona e che non potrei mai conoscere, se non seguendo le vie del cuore…

A pagina 107 del capitolo “Segreti”, Judd-Joyce Carol Oates racconta di un suo innocente intrufolarsi nel letto dei genitori, mentre loro fanno all’amore, il fantolino non se ne accorge, ma la madre “nascose il seno nudo sotto il lenzuolo, mentre io cieco ed uggiolante continuavo a raggomitolarmi conto di lei e papà ricadde sulla schiena al nostro fianco con un avambraccio sugli occhi, imprecando con discrezione… E solo anni dopo mi resi conto di essermi introdotto a forza…

A volte, spesso anzi, quasi sempre, Judd-Joyce Carol Oates sa essere preciso e sovrabbondante di particolari che stanno fra il vero e il verosimile, ad esempio quando Corinne “diede un’occhiata all’orologio e diede uno strillo allarmato: Mio Dio, il parchimetro!…” e “Scoprì di essere coperta di sudore sotto la giacca a vento di nylon. Cerchi di umidità grandi come una moneta d’argento da un dollaro si erano fermati sui palmi delle sue mani.”

Il capitolo “La rivelazione” si chiude non con due tragedie, ma con due indizi che se ne potrebbero profilare ben maggiori all’orizzonte. Papà Michael si vuol iscrivere a un Country Club inesorabilmente bigotto, snob ma soprattutto sessista: le donne vi sono accettate solo se accompagnate da uno dei soci (e s’intuisce, ma non c’è scritto, non più di una alla volta). Vinta la fiera resistenza di Corinne, la moglie, egli realizza il suo desiderio.

Secondo incidente: Marianne, la splendida figlia, marina la scuola.

All’inizio del capitolo successivo (”Una ragazza ferita”), mamma Corinne va nel luogo dove sa che troverà la figlia, la chiesa cattolica di St. An: Parcheggiò la station wagon di fronte alla chiesa, di fretta, con una ruota su un marciapiede, e nemmeno se ne accorse.” E neanche che, alle sue spalle, stava arrivando, giungendovi parecchi anni dopo, Judd-Joyce Carol Oates, armato di penna e taccuino.

Prima morale della storia (perché Judd-Joyce Carol Oates sempre ne ha una su cui edifica una cattedrale barocca, non dissimile da quella di Siviglia, con annesso vescovo a cavallo): ogni status sociale sembra perenne, ma non lo è affatto. Per i particolari, più che esagerati, basta leggere il libro.

Nel cuore del capitolo “La penitente” c’è il nocciolo del nocciolo dell’intero libro. Il guscio, per quanto duro e difficile da rompere, contiene tanta di quella materia edibile che, una volta usato lo schiaccianoci (con le sole mani non ci si riesce), il contenuto non resta misteriosamente attaccato alle membrane, ma scivola addosso al lettore, che non può che raccattare un po’ ovunque i pezzi frantumati del frutto secco. Il sapore è di prima qualità, ma quanta fatica!

All’inizio del capitolo “Neve dopo Pasqua”, Patrick, il fratello di Judd-Joyce Carol Oates, ha un flusso di memoria quasi joyciano, all’interno del quale, dopo aver ricordato fra sé e sé un atto vandalico, la sua mente pare azzerarsi all’improvviso.

All’interno del suo cervello, Judd-Joyce Carol Oates, seduto su uno sgabello, stenografa febbrilmente degli appunti. Perché mai, Judd-Joyce Carol Oates, fai tutto questo?

Tu, caro il mio Judd-Joyce Carol Oates sei così leale con il lettore, e così fedifrago, che la tua schiettezza è assolutamente finta, mentre la tua finzione è oltremodo schietta. In pratica sei un affidabilissimo bugiardo. E i tuoi personaggi-familiari sono ben caratterizzati, alcuni così tanto da parere stereotipi irreali, ma sinceri.

Eppure, caro il mio Judd-Joyce Carol Oates, tu sai esprimere, anche se nessuno ti può credere, delle incertezze nel tuo racconto: “… Mike: il figlio maggiore, il primogenito, così cresciuto, Mikey junior, che aveva compiuto ventun anni, no, ventidue, il mese prima…Sembra quasi che tu, Judd-Joyce Carol Oates ci stia raccontando oralmente la vicenda dei Mulvaney.

Alcune frasi espresse da qualcuno di loro, viene a volte ripetuta mentalmente o ad alta voce, in modo quasi ossessivo.

Ad esempio:

“Non posso testimoniare il falso. Perché non ricordo. Se potessi, rivivere tutto, ma non posso.”
“Sta attraversando una fase.
Non sta succedendo a tutti noi? Amen!”
“Buon Dio, ti prego, no!”
“Siamo lebbrosi? Noi, i Mulvaney, lebbrosi?”
“Papà, papà. Chi è il tuo papà?
Un padre è sempre un papà? Papà è un padre?
Papà è un papà, o soltanto un padre?”

Altri due autori mi vengono alla mente, leggendo il capitolo “Il cacciatore”.

Joyce Carol Oates - Photo by Marion Ettlinger Hires
Joyce Carol Oates – Photo by Marion Ettlinger Hires

Patrick, fratello di Judd-Joyce Carol Oates,vide per la prima volta una xilografia tedesca…”. Questo ricordo di Judd-Joyce Carol Oates, pur appartenendo di fatto al fratello, gli risveglia tutta una serie di ricordi e di sensazioni proustiane. Ne segue un elenco di oggetti che ricorda La vita, istruzioni per l’uso” di Perec. Ignoro quanto queste citazioni siano consapevoli.

In “Plastica”, il protagonista del capitolo è sempre Patrick, che è attualmente colui che è in fuga, come lo può essere un ciclista sui Pirenei. Mi colpisce che, come già altre volte, Judd-Joyce Carol Oates parli di sé, di Judd, in terza persona: “Come aveva detto a Judd (si sentiva vicino a Judd anche se gli telefonava poco)…”

Il capitolo “Dignità”, uno dei più brevi e significativi, mi conferma il valore e il limite del romanzo. Esso è stato costruito pezzo dopo pezzo, embrice dopo embrice, in modo che possa coprire con la massima sicurezza la parte alta dell’edificio. Occorre però ricordarsi che i coppi non sono portanti, ma portati. Se il soffitto crolla, crollano anch’essi. Così pare accadere alla famiglia Mulvaney. Il cuore non sembra reggere alla crudeltà degli avvenimenti.

Michael Mulvaney sr. fu sempre un giovane pratico, volenteroso e forte. Non studiò più di tanto, ma seppe costruire una piccola fortuna economica e sociale, tanto che, pur essendo di origini umili, riuscì a entrare nella “high society” della città. “Lo avevano invitato a far parte della Country Club di Mt. Eprahim. E aveva accettato, era stato uno dei giorni più felici della sua vita”. Anche se la moglie aveva storto acidamente il naso, ricordate?

Ormai il tetto era consolidato. Nessun guaio si profilava all’orizzonte. Invece, poi…

… il tetto crollerà.

Null’altro.

A niente varrà la saggia condotta della moglie, la quale non brilla per finezza psicologica ma, magicamente, sa essere madre fino in fondo. Ella è capace di battute in verità misere, ma ad hoc. E, “con quel suo stile confuso, svolazzante”, “con la sua risata oscillante”, sa commuoversi quando occorre. Lei, pur mentre rabbrividisce, riesce a ridere di sé.

Il papà no, non dico che sia un coglione, ma quasi. Di quelli rudi e volenterosi. “È un brav’uomo, onesto, che vuol solo provvedere alla sua famiglia”.

Qual è la forza del libro? È costruito sapientemente.

Qual è il suo limite? È costruito tanto minuziosamente, da perdere in spontaneità.

Non si tratta necessariamente di un difetto.

Del resto è meglio un ingegnere edile minuzioso, piuttosto che uno spontaneo.

Tu puoi dire quello che vuoi su Judd-Joyce Carol Oates, che è assillante, a volte ripetitivo, anche che è ridondante (“Marianne andò a cercare ‘ridondante’ sul dizionario, anche se pensava di aver intuito il senso.”), se non addirittura esorbitante, ma prova a leggere le due ultime pagine del capitolo “Il complice”. Sono fantastiche. Un amico della figlia dice:Signora Marianne, volevo dire Corinne, lei deve essere proprio orgogliosa di sua figlia…Il lapsus non è casuale, se lo fosse, Judd-Joyce Carol Oates non lo avrebbe riportato (Judd-Joyce Carol Oates scrive ogni volta perché ha in mente un piano). Poi il tipo dice qualcosa di poco piacevole. Corinne allora lo attacca senza pietà: “Non ho l’abitudine di discutere di mia figlia con estranei, signor Abelove.” Poi completa il bombardamento di callida acidità, quasi sputandogli in faccia: “… lei è un estraneo per me, signor… Oh, quello sciocco nome inventato!” E mentre il nemico “indietreggia come un pugile centrato da un colpo duro, inatteso, allo stomaco” (in realtà una gragnola di colpi), Judd-Joyce Carol Oates si limita a dire: “Addio! Grazie per il pranzo!

Sublime.

Alla domanda, ma quel che ha scritto Judd-Joyce Carol Oates è un romanzo? La risposta è sì. Autobiografico? La risposta è ni.

Soprattutto nel capitolo “La palude”, ma anche nei due successivi, anzi, in tutta la narrazione di Judd-Joyce Carol Oates emerge dapprima l’embrione (stavo per scrivere il vibrione), poi lo zigoto, il feto e infine la creatura: la famiglia intesa come mostro. Un essere del tutto inusuale chiamato famiglia Mulvaney. Non è tale l’insieme dei familiari di Judd-Joyce Carol Oates, bensì un prototipo di tutte le famiglie, almeno quelle americane, ma che, per come in genere l’intende uno scrittore americano, vuol dire tutte le famiglie del mondo.

Un mostro dalle mille facce. Lo diceva anche il mio compianto amico Gino: “la famiglia è la causa delle peggiori ingiustizie umane”. Aggiungo io: sia esogene, che endogene (e sono le peggiori). Sentenziava anche che i bambini, tutti, sarebbero dovuti nascere in collegio, lontani dai genitori. Alla mia obiezione, sul perché lui avesse regalato un computer al figlio, anziché a un brefotrofio, lui rispondeva che praticava la contraddizione. Ho sempre avversato le sue idee, per un’unica ragione: mi avevano convinto. Ogni associazione umana, per quanto possa essere solidale verso l’esterno, crea una frattura tra sé e il resto del genere umano. Anch’io pratico quest’assurdità: amo la mia famiglia. E ucciderei per essa.

Tu puoi dire quello che vuoi su Judd-Joyce Carol Oates, ma non che non che non sappia scrivere. È forse un po’ ampollosa? Le sue non sono ampolle, sono Mega Silos Inox per vino, birra, olio e liquami vari. Ma leggi qua. Judd-Joyce Carol Oates è icastica come pochi altri grandi scrittori. La povera, anzi, misera (dal punto di vista familiare) Marianne decide di risalire a High Point Farm, approfittando dell’assenza del resto della sua (ex) famiglia. “Con le nocche serrate contro la bocca per non piangere”. Judd-Joyce Carol Oates continua: “Con le nocche ancora premute sulla bocca, anche se non avrebbe saputo dire se fosse per impedirsi di piangere o di ridere”. Infine, Judd-Joyce Carol Oates completa: “… a nocche poggiate sulla bocca, finché all’improvviso lacrime incandescenti le scesero sulle guance.” (tutto questo nel capitolo “La pellegrina”).

Tutto è caduco? L’impero alessandrino cadde, anche il romano e l’asburgico. Quale vuoi che sia il destino della Mulvaney tetti e coperture? Sempre, in ciascuna storia e Storia, c’è l’ascesi e poi la discesa. A volte c’è proprio il crollo.

Come per andare su a High Point Farm, “la casa lavanda in cima a una collina alberata”. Una famiglia americana come tante altre raggiunge un livello ottimale, e poi lo perde gradualmente, ma inevitabilmente. Judd-Joyce Carol Oates si reca, come concordato col fratello Patrick, al “vecchio cimitero abbandonato di Sandhill Road”, “un cimitero ti dà da riflettere: tante persone, tante vite e ognuno di loro un tempo pensava Eccomi qui, guardatemi. Sono qualcosa. Sì, già.” (da “Un resoconto difficile”).

Judd-Joyce Carol Oates dice/scrive, in “Solo”, una frase che adoro:Non so che cosa so”. Il figlio minore, che meno contava di tutti in famiglia, ad eccezione della figlia derelitta, acquista una coscienza nuova.

Figlia derelitta per modo dire, poiché, ovunque vada…

Ovunque vada, Marianne schiude almeno un cuore, creando ovunque dolore.

E di Michael Jr. che dire, se nonun sergente dei marine, un adulto, con abiti civili stirati alla perfezione, con un taglio di capelli talmente preciso da sembrare scolpito in testa.”?

E di me: ho dovuto lottare e scrivere ‘ste amene righe per non farmi trascinare nel romanzo, da quell’aspiratutto vorticoso e diabolico che risponde al nome di Judd-Joyce Carol Oates.

Un’ennesima sciocchezza: il romanzo è stato assolutamente corale fino a pagina…

Ora però non vi sono più dubbi: “… ero giunto a essere orgoglioso di me stesso per la personalità che mi ero costruito pezzo per pezzo, come si copre un tetto tegola dopo tegola. Sovrapponendole in modo esatto, embricandole per prevenire i…”

Morale finale: ogni tetto caduto, lo si può ripristinare.

E ogni tetto è una storia a sé.

Io amo le opposizioni, specie quelle assurde.

Henry Miller
Henry Miller

Io sono stato adottato in giovane età dalla scrittura di Henry Miller, non certo il più grande romanziere, ma quello che più mi seppe cambiare il cervello.

In uno dei suoi due Tropici (non dico quale, così li si dovrà leggere entrambi) egli dice, anzi grida:

Tu sei il setaccio per cui filtra la mia anarchia, e si risolve in parole. Dietro alla parola è il caos. Ogni parola, una stria, una sbarra, ma non ci sono, non ci saranno mai tante sbarre da farne una griglia completa. In mia assenza hanno appeso le tendine alle finestre. Paiono tovaglie tirolesi, tuffate nella candeggina. La stanza scintilla. Siedo sul letto, intontito, e penso all’uomo prima della sua comparsa. All’improvviso cominciano a rintoccare le campane, un suono fantastico, non di questa terra, come se d’improvviso fossi trasportato nelle steppe dell’Asia Centrale. Rintocchi ora protratti in una vibrazione lunga, ora scoppiano come lamentose voci da ubriachi. E poi torna la quiete, un’ultima nota appena intacca il silenzio della notte, un gong debole e stridulo che si spegne come una fiammella. Ho fatto con me stesso il tacito patto di non correggere un rigo di quel che scrivo. Non mi importa di tornire i miei pensieri, né le mie azioni. Alla perfezione di Turgenev contrappongo la perfezione di Dostoevskij. Cos’è più perfetto dell’Eterno marito? Ecco dunque che in un mezzo solo abbiamo due tipi di perfezione, ma nelle lettere di Van Gogh c’è una perfezione che supera queste due. E il trionfo dell’individuo sull’arte. Una sola cosa mi interessa, ora, e ha per me un’importanza vitale: registrare tutto quello che nei libri è omesso. Nessuno, che io sappia, ha usato finora quegli elementi che sono nell’aria, e che danno scopo e motivo alla nostra vita.

Tutto questo non c’entra col romanzo scritto da Judd-Joyce Carol Oates.

Per cui il vecchio Henry mi serve quale farmaco antistaminico.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Joyce Carol Oates, Una famiglia americana, Il Saggiatore

 

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