“La mia vita da zucchina” di Claude Barras: un altare elevato alla poesia dell’innocenza
Francia e Svizzera meritano a pieno titolo di competere in veste di protagonisti all’edizione ventura degli Academy Awards, vetrina d’indubbio rilievo sotto molteplici punti di osservazione, atta nondimeno a promuovere la diffusione, vorremmo a macchia d’olio, del lungometraggio d’esordio di Claude Barras, “La mia vita da zucchina”.

Paradigma brillante di come lo stanziamento di 6 milioni e mezzo di euro non forniscano certo uno spettro espressivo più debole all’ombra dei colossi Disney, Pixar e parentado (riesce spontaneo a tal proposito il confronto col recente “Anomalisa” di Charlie Kaufman), è un autentico caso di studio psicologico mirato, affezionato al mondo cristallino dell’infanzia, trasfigurato in opera d’arte già imperitura alla nascita, profondamente consapevole delle proprie scelte espressive, della selezione delle grammatiche, dell’affinamento sensibile della costruzione drammaturgica.
La sua prestanza lancinante risiede in una straordinaria capacità di sintesi, che misura ogni inquadratura promuovendo l’autorialità della regia, ben lieta di attribuire alla stop motion quei caratteri tipici del cinema in live action, quali l’influenza generatrice del fuori campo, la staticità delle riprese, la pastosità della fotografia.
Le risorse primigenie naturalmente appartengono al romanzo “Autobiographie d’une Courgette” di Gilles Paris, adattato per lo schermo dalla regista e sceneggiatrice Céline Sciamma: attraverso di esso i giovanissimi protagonisti della narrazione, orfani, ragazzini disagiati, allontanati da climi familiari insalubri, mettono a fuoco con sorprendente lucidità alcuni dei dilemmi cardine dell’intera umanità, ai loro occhi cruda e ostile al di là delle mura accomodanti dell’istituto in cui risiedono, in sospirata attesa di qualcuno che li ami.
La cupidigia, la violenza, la tossicodipendenza, l’abbandono: in principio non appaiono più che spettri fugaci, concentrati nelle sagome degli astiosi genitori di Icare, il quale è solito essere apostrofato come “Zucchina”. Lui succube della propria passione per le lattine di birra, lei mostro manesco e anaffettivo, radiata dal mondo (questo ciò che sospetta il piccolo) per un fatale incidente di cui assumersi flemmaticamente la responsabilità.

La minaccia dell’adulto torna in carne ed ossa con l’arrivo di Camille, sulla quale pende una sentenza che potrebbe affidarla alle grinfie di una zia smorfiosa e ripugnante. La ragazzina folgora Zucchina, che scopre i primi ardori dell’innamoramento, canzonato dal rutilo bulletto di turno Simon, aspro e coriaceo nel nascondere un’ugualmente intollerata vulnerabilità.
Costui, per via delle traumatiche esperienze trascorse, ha inoltre il piacere di stimolare nei compagni le nascenti fantasie erotiche, peraltro, com’è intuibile, figurate in maniera assai vaga, così come si rivela necessariamente sublimata (e in tale prospettiva pure giustificata nelle logiche del racconto) la deliziosa vicinanza che lega Zucchina e Camille.
Il fil rouge che cinge i diversi temi e relazioni della vicenda si sceglie di plasmarlo attraverso la somma dei codici morali infantili, rivolgendosi senza esitazione contemporaneamente al pubblico dei piccini e dei maggiorenni, proponendo lo stesso tessuto dialogante (il linguaggio è assai elementare, un’istantanea delle articolazioni reali tipiche dei bambini) da differenti angolature, invitando gli spettatori ad adottare chiavi di lettura rivelatorie, ammiccanti alla trasparenza, alla premura nei confronti dei teneri personaggi, nelle loro forme tozze ed elastiche, nei loro passi, nei loro movimenti di palpebre, più espressivi dei più verosimili avatar tridimensionali.

In posizione d’idilliaco epilogo si colloca lo sguardo amorevole rivolto all’istituzione della famiglia, intesa come formazione di nuovi nuclei affettivi su cui vegliano le figure genitoriali di sangue (l’insegnante e la tutrice), d’adozione (il poliziotto) e “putative” (la direttrice): e con esse non v’è traccia di buonismo, nessuna gratuita concessione ad un mondo immaginario e come tale pantocratore.
“La mia vita da Zucchina” è un piccolo specchio dalla fedeltà disarmante e commovente, coerente e compatto come raramente sa esserlo un prodotto d’animazione (d’arte tout court, volendo osare), poetico e rigenerante, oro puro appartenente a un genere le cui fila sarebbe salvifico rinvigorire di anno in anno, senza sconti e patetismi.
Voto al film
Written by Raffaele Lazzaroni