Castellaneta Film Fest 2016: per la sezione Animazione il vincitore è “Fulfilament” di Rhiannon Evans
Oubliette Magazine, come media partner della quarta edizione del Castellaneta Film Fest 2016 che si è conclusa domenica 17 luglio 2016 nella suggestiva cornice della città tarantina nel cuore del Parco naturale Terra delle Gravine, propone ai lettori le recensioni delle opere in concorso per le sezioni Fiction, Documentari, Visioni da un altro Sud e Animazione.

Il vincitore assoluto della categoria che vi presentiamo oggi, Animazione, è “Fulfilament” di Rhiannon Evans in concorso con “Golden Shot” di Gokalp Gonen, “La ballata dei senzatetto” di Monica Manganelli, “My Grandfather was a cherry tree” di Olga Poliektova e Tatiana Poliektova, “Ci furono santi” di Pietro Elisei,“The beach boy” di Hannes Rall.
Fulfilament di Rhionnan Evans racconta il percorso iniziatico di una lampadina che non riesce a trovare nel suo mondo, fatto di fili elettrici e bulloni e corrente alternata, la propria dimensione e il proprio ruolo. La metafora con cui viene condotta la narrazione risulta di un umorismo delicato e assolutamente coinvolgente.
L’equivoco la fa da padrone in questo spazio cupo che però si riempie di incostanti e incandescenti momenti di comicità graziosa e coerente con il culmine della storia. Il personaggio principale, che non ha voce né assume tratti umanoidi se non nel pensiero, ma mantiene la propria struttura, ha un suo carattere ben definito e in questa erranza bizzarra conserva la propria dolcissima goffaggine. Ottime le musiche picaresche e metalliche composte da Filip Sijanec.
Golden Shot di Gokalp Gonen è curiosamente vicino a Fulfilament per la fisionomia e in qualche modo i personaggi ne sono una evoluzione anatomica: robot costituiti da complessi meccanismi ad orologeria e corpi a mezzo tra l’umanoide e l’artropode sono i protagonisti assoluti del racconto che assume i toni del thriller.
L’ambientazione complessa si unisce ad una direzione raffinata del racconto con estrema cura del dettaglio: gustosissimo l’aspetto dell’arredamento delle case e della struttura di questa città distopica in cui i robot si nutrono di luce. Assolutamente coerente e potente il finale in cui finalmente questi uomini di metallo sembrano realizzare il loro sogno di volare, ma quello stesso sogno li fa poi precipitare come angeli condannati alla loro caducità e rovina tipicamente mortale e proprio per questo straniante. Spettacolare il momento della trasformazione dei robot in esseri dotati di ali leggere e finissime, decisamente coreografico l’insieme e visivamente potente.

La ballata dei senzatetto di Monica Manganelli è un manifesto poetico per la memoria di una regione, l’Emilia, ferocemente dilaniata dal terremoto del 2012. Tommy è un bambino e ha per amica una lumaca, con lei si aggira per un paese surreale e visionario che ricorda per diversi particolari la dissoluzione onirica dello spazio e del tempo tipica di un certo Dalì.
La simmetria delle immagini e della musica fortemente evocativa di Massimo Moretti tendono verso un finale pieno di significati profondamente civili. È uno dei poteri dell’arte e della creatività quello di riuscire a unire in nome della solidarietà un popolo che ha la forza di ricostruire dalle macerie attraverso la cultura, l’etica e la memoria.
My Grandfather was a cherry tree di Olga Poliektova e Tatiana Poliektova è un piccolo gioiello di poesia che assume i colori dell’infanzia e della libertà di preservare le proprie radici con la forza dell’amore più puro. L’io narrante è un bambino che sviluppa un mito di fondazione attorno alla casa del nonno e all’albero che quest’ultimo aveva piantato alla nascita della figlia.
Un legame familiare indissolubile che supera ogni ostacolo e insegna al fanciullo che l’amore cambia forma e assume tutte le pieghe dell’anima umana, pieghe che a volte sono davvero infinite. Una formidabile dolcezza amplificata dalle danze vibranti composte da Danila Bolshakov.
Ci furono Santi di Pietro Elisei è un’inquietante storia di abbandoni e trasfigurazioni a mezzo tra la veglia e l’incubo. Un femminino vilipeso e torturato, una separazione difficilmente decodificabile perché piuttosto intimista. La peculiarità del cortometraggio sta nell’essere costituito da 1250 disegni su carta con colori ad olio e nella sua vincolante stereotipia che certamente attira lo spettatore in una trappola senza però stimolarlo fino al limite necessario.

L’esperimento di riproporre una leggenda vietnamita attraverso pochi ed essenziali tratti è perfettamente riuscito in The beach boy di Hannes Rall che restituisce l’incanto della oralità popolare. Una principessa che fugge dal padre per non sposarsi e finisce per incontrare un giovane su una spiaggia di un paese lontano. La giovane si innamora e con lo sposo rende la spiaggia e la città il centro di un fiorente mercato provocando l’ira del padre.
La mimica facciale e i movimenti sono stilizzati ma estremamente precisi, un solo tratto di colore nero fa muovere i corpi che compenetrano lo sfondo. Perfette anche le musiche di Eckart Gadow, estrema sintesi della levità dei protagonisti che verranno trasformati in stelle dagli dei. Una storia da preservare per la sua bellezza pura e insostenibile.
Written by Irene Gianeselli