“Electric Paranoise”, album dei Tuesday’s Bad Weather – recensione di Emanuele Bertola

Cos’hanno da spartirsi il folk più classico e il post-punk? Cosa c’entra la drum machine con una chitarra acustica appena accarezzata o addirittura con il sitar? Cos’è che fa stare nello stesso album, uno vicino all’altro, una cavalcata elettrica, un brano acustico dai richiami seventies e un pezzo a metà tra l’elettronica e il noise-rock? La risposta a tutte queste domande è racchiusa in una sola parola: Sperimentazione.

Sperimentazione, questa la chiave di volta di un’esperienza musicale appagante ed avvolgente, quella composta dai nove brani di “Electric paranoise”, secondo album in studio dei Tuesday’s bad weather, duo tarantino che vede Pierpaolo Scuro a districarsi tra voce, chitarra, synth e tastiere ed Alessio Messinese a dare man forte con cori, chitarra e synth. I due arrivano da un primo album – “…Without thinking“, pubblicato nell’aprile dello scorso anno – in cui già si faceva largo l’evidente voglia di sperimentare sonorità nuove, mescolare generi e apparentemente distanti anni luce  e tirarne fuori qualcosa di originale e decisamente significativo.

La sperimentazione musicale vera e propria però, complice anche l’orientamento del disco prevalentemente indirizzato alle melodie (deliziose) e ad un’impronta piuttosto intimista e riflessiva, stava ancora germinando in Pierpaolo e Alessio, che dopo l’EP “Flowers smell like candies” rilasciato in free download si mettono nuovamente al lavoro su un long playing, per l’occasione realizzato accantonando le riflessioni e le introspezioni per dare più spazio a un costante senso di nervosismo, a tratti violentemente rabbioso e a tratti cupamente paranoico, che funge da perfetto alveo per la valanga di suoni che i Tuesday’s Bad Weather mescolano, plasmano e sovrappongono come fossero le onde di un fiume in piena alla continua ricerca di nuove combinazioni, di nuove sponde su cui infrangersi per poi rituffarsi nuovamente verso lo scorrere dell’ispirazione, che non si ferma un attimo.

Proprio come un fiume l’incedere dell’album è trascinante, da “Damn song”, traccia di apertura, fino a “Oh sweet love (Part II)” si susseguono generi diversi, spesso apparentemente inconciliabili, in un mix ben amalgamato che tiene alto il ritmo e l’interesse, tra derive post-punk ed assalti noise-rock, drum machine e synth che si agganciano al suono del sitar, melodie incalzanti nei pezzi più secchi e affascinanti in quelli più morbidi finanche echi che distorcono il folk e il blues dando loro una nuova veste, un retrogusto di “già sentito” soltanto accennato e un’atmosfera davvero particolare.

Non si fanno mancare niente i due tarantini, che nei nove pezzi del disco buttano fuori tutto quel che hanno dentro, la voglia di musica nuova, qualche sprazzo di tranquillità, attimi di collera impetuosa e intermezzi nevrotici; succede così che ci si trovi di fronte a Scuro che sul finire di “Damn song”, con tutta la sua rabbia in corpo, urla “Are you satisfied with your fucking life?“, o ad un tuffo direttamente negli anni ’80 dell’elettronica e del post-rock grazie alla title track. Ma si trova anche una splendida ballad come “There’s no one”, chitarra leggera, tastiera e voce sussurrata, tanto riuscita che sembra impossibile che a inciderla siano stati gli stessi che immediatamente dopo, tra drum machine ed effetti elettronici, sparano al massimo volume il noise-rock massiccio di “Tesla”.

C’è poi il funk meravigliosamente ritmato ed elettrico di “New funk song”, e non mancano le atmosfere sognanti quando dallo stereo partono le prime note di “Distant places”, in cui il sitar diventa la ciliegina sulla torta; Pierpaolo e Alessio si concedono anche un eccezionale esperimento strumentale di 3 minuti e mezzo, con le tastiere riverberate a tessere la trama mentre la chitarra – elettrica questa volta – rimane in sordina per la prima parte del brano salvo poi crescere nella seconda e affiancarsi in maniera mai così azzeccata ai suoni del synth per poi nuovamente tornare dietro le quinte nel finale, facendo di “Prelude” il brano melodicamente forse più riuscito dell’intero album. Album che, per chiudere il cerchio, termina col botto, perchè la chiusura è affidata a “Oh sweet love” e “Oh sweet love (Part II)”, che prendono lo stampo del più polveroso blues elettrico del sud degli Stati Uniti e lo bombardano con distorsioni e incursioni dei synth. L’elettronica in questo finale non prende mai davvero il sopravvento, il blues è davvero un osso duro e non si lascia sovrastare facilmente, ma il risultato sono quasi 10 minuti totali di sonorità allo stesso tempo graffianti ed articolate che regalano all’album un finale affascinante e significativo.

Insomma, hanno talento e passione da vendere i Tuesday’s Bad Weather, si muovono agilmente tra vari generi, apparentemente senza la minima paura di strafare e riuscendo nell’impresa di creare non un sound personale, ma un personale approccio alla musica che non prevede recinzioni o sbarramenti tra i generi e che si sposa perfettamente con la loro voglia di sperimentazione, un aspetto che troppo spesso manca nel nostro paese. Per questo fa davvero piacere ascoltare un disco come “Electric paranoise“, anche se i commessi dei negozi di musica impazziranno per decidere in quale reparto metterlo…

 

Written by Emanuele Bertola

 

 

Tracklist:

1. Damn Song

2. New funk song

3. Distant places

4. Electric paranoise

5. Prelude

6. There’s no one

7. Tesla

8. Oh sweet love

9. Oh sweet love (Part II)

 

3 pensieri su ““Electric Paranoise”, album dei Tuesday’s Bad Weather – recensione di Emanuele Bertola

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