“Austerlitz” di W. G. Sebald: un personaggio oltre la catastrofe?

Austerlitz di W. G. Sebald è un romanzo con un unico capoverso e infiniti, interminabili, periodi, di 306 pagine, una sempiterna fischiata e via, finisce all’improvviso, come capita all’umana esistenza. Venne pubblicato nel novembre 2001.

Austerlitz di W. G. Sebald
Austerlitz di W. G. Sebald

Un mesetto dopo l’autore di Austerlitz fu vittima di un incidente stradale e volò Chissà Dove. La sua memoria vive in questo libretto che al momento ignoro quanto sia autobiografico. Di certo è suo, scritto intorno alla sua vita e, se il lettore posa l’orecchio su quella cellulosa, sente il suo respiro, mischiato a quello di Ada Vigliani, la traduttrice. Al loro gemito, unisco il mio e ora, se ti va, anche il tuo, e un unico, incommensurabile, respiro ci potrebbe unire.

Nell’alveo del romanzo l’io narrante s’incrocia con quello del suo amico io narrante, l’alter ego, Austerlitz, che a sua volta s’interseca con svariati altri io che narrano brani della loro storia. È da miracoli come questi che si attua quel fenomeno fisico che si chiama, in inglese, entanglement, impigliamento, groviglio, correlazione.

C’è chi afferma che Austerlitz sia l’unico, vero romanzo di W. G. Sebald: se Marcel Proust avesse scritto solo la sua Recherche si direbbe lo stesso, e quei sette volumetti sarebbero il suo unico, vero romanzetto. Dunque: quando ci lasciò, Winfried Georg ‘Max’ Sebald era poco meno che sessantenne e aveva appena concluso il suo unico romanzo. Siamo stati fortunati, o no? Lui ha fatto in tempo a dimostrare gran parte del suo valore. Chiedersi quali altri romanzi avrebbe potuto scrivere è assurdo, ma si può anche giocare con l’argomento. Come ci si può chiedere se e quanto i romanzi incompiuti di Franz Kafka avrebbero guadagnato in bellezza se fossero stati completati. La Storia si fa soprattutto coi se, ma resta sempre quella che è: fiction.

È davvero esistito questo “Austerlitz”, esperto di architettura e così loquace? È come Dio. Io mi auguro che esista, ché se esistesse esisterebbe. Lo stesso vale per il compagno dell’io, che è un io, e che s’accompagna all’io che covo in me, e al tuo, se vuoi. Il racconto di di W. G. ti sta aspettando.

A pagina 10 l’autore parla diocchi straordinariamente grandi e quello sguardo fisso e indagatore”. Nella pagina a fianco sono riprodotte quattro fotografie di occhi di alcuni animali, fra cui due palesemente umani. Per tutta l’opera, quando l’autore patisce la necessità, sono palesate delle immagini che si rapportano al testo. Perché? Lo sa W. G. Il lettore sa che lo sa W. G. e gli basta.

A un certo punto, diciamo intorno a pagina 50, ho deciso che, se voglio saltarci fuori, devo sottolineare tutte le volte che incontro la frase (anche un moncone mi basta): “così disse Austerlitz”. Mi servirà quando vorrò parlare dell’opera. È come quando uno che, rapito da un antagonista, cerca di lasciare delle tracce per chi lo potrà, Quel Giorno, liberare. Il trucchetto l’ho acquisito leggendo alcune migliaia di fumetti con dei navajo.

Ora le nuove generazioni (di cui faccio parte anch’io, ad honorem), si sparano la posizione e se la mandano su un social, all’indirizzo di un amico o di un altro sé. Questo m’interessa. Il me che mi seguirà dovrà seguire le mie tracce se vorrà ritrovarmi.

La mia stella polare è lui:Austerlitz, un uomo che allora, nel ‘67, aveva un aspetto quasi giovanile, con i capelli biondi singolarmente ondulati…” – così singolare era quell’uomo! Tu non ti descrivi quasi per nulla, primo io, dici solo quello che provi, ogni tanto, ma preferisci lasciare la parola a quella singolarità che tanto ti attrae, verso cui provi della fratellanza.

“… Austerlitz tirò fuori dallo zaino una macchina fotografica…”atto doveroso ed essenziale. Lo zaino è l’oggetto protagonista non solo di ‘sto romanzino, ma di tutta la letteratura mondiale e di sempre. In esso sono stipati gran parte dei nostri ricordi. Che un giorno andremo a pescare dentro di esso. Le parole, intendo. Per le immagini, occorre servirsi di una macchina in grado di eternare l’attimo, quasi fosse divino: la solita buggeratura che tanto amo, quella di John Keats: A thing of beauty is a joy for ever. A un certo punto torno indietro e m’accorgo che tale mia hobbistica è stata tardiva: tanto volte ho tralasciato di sottolineare termini ed espressioni-culto. Fa lo stesso, non è importante, mi basta averlo capito in un dato momento. Al limite posso sottolineare in ritardo, così, per gioco, per vizio. Un lettore è un ludopate. E quello non “della sua origine, della sua vita”, bensì avrebbe educato il suo fortuito compagno di “questioni dell’architettura” – non solo: di tutta l’ecologia in cui aveva trascorso fino ad allora la sua esistenza: quanto è allocato nello zaino (e nello zainetto che è posto in testa, su una metaforica e metafisica spara, la ciambella di stracci che tanto può reggere).

In un’indefinita pagina, l’autore paragonaquella lancetta” – dell’orologio – “alla lama del boia” – che trancia la nostra aspettativa di vita, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo, decennio dopo decennio: “il tempo domina incontrastato il mondo” – due illusioni che ci canzonano. E noi lasciamole fare.

Pensiamo piuttosto alle strambe e acute teorie di Julian Barbour e di Carlo Rovelli e mettiamoci a ridere – “… Austerlitz costruiva i suoi pensieri nell’atto stesso di conversare…” – è il suo bello, vero? – “… una sorta di metafisica della storia, in cui il ricordo tornava ancora una volta a vivere…” – a ri-vivere in noi: un ritrovarsi, un ricercare quel che si fu, si è e, si spera, si sarà per sempre. Sì, mi piacerebbe riportare tutti i “disse Austerlitz” – per sghignazzare. Lo evito, perché sono un tipo educato. Ce n’è una media di 2,383639 a pagina, o giù di lì.

“Come sempre da allora, anche in occasione di questo nuovo primo incontro, riprendemmo la conversazione senza spendere una sola parola per commentare la stranezza del nostro trovarci in un luogo come quello, che nessuna persona ragionevole avrebbe mai frequentato.”quando si dice che il caso è l’evento più banale che esiste! Se non ci fosse lui, il Meschinetto! In genere i due solidali discorrono in “lingua francese”, che Austerlitz domina come pochi, ma “Quando passammo all’inglese”, ecco che accade l’imprevisto: l’Anfitrione, loquace come pochi, ha dei “saltuari attacchi di balbuzie” – nonché altri gesti imbarazzati: Mistero! (da svelare).

E spaventose sono la foto e la descrizione verbale dell’“ufficio” di Austerlitz, “a Bloomsbury, non lontano dal British Museum” – spazio non di certo sgombro di oggetti: per lo più di cellulosa. Un luogo da abitare o da fuggire, a seconda del momento. Dove ogni fioritura sarà prima o poi sepolta.

In una data pagina, l’autore fa somigliare “Austerlitz” a Wittgenstein, che anche lui “aveva sempre con sé lo zaino.” – perché allora io no? Chi mi può rispondere? Io lo odio. Preferisco andare con le spalle e le mani sciolte, libere, anarchiche. Conoscendomi, so che finirei per scordarlo in qualche sito. Entrambi i geni, dice l’autore, evitano i “preliminari di alcun genere” – che di solito fanno perdere del tempo. Per me l’unico tempo che conta è quello che scorre. Per loro no: vogliono bloccarlo. Illusi! Ma del resto chi non lo è, illuso, chi in fondo non ama trastullarsi con la propria dorata eternità? Ho deciso che sottolineerò anche tutti i “disse” relativi agli amici narrati da Wittgenstein, pardon, da Austerlitz, nonché i vocaboli collegati alla memoria (ricordo, rimembro, rammento, etc). Ci metto poco, quasi nulla, una righetta col lapis e via.

Ah ah! A pagina 59 mi vien da scrivere: Austerlitz is a living book. E io? A living reader-eater! A pagina 77, Austerlitz scopre d’essere se stesso, il bambino che era e che è ancora. L’agnizione lo sta attendendo da una vita. In due, penose, parole: era nativo di un altrove e poi inviato in Inghilterra da chi intendeva salvare la sua pellaccia e quella di altri mocciosi, che diversamente avrebbero fatto la fine, per capirci, di Anna Frank. Ecco perché balbettava talvolta nella lingua di Albione. Aveva qualcosa che gli stagnava nel gargarozzo. Meglio è balbettare da vivo che essere loquace da morto. Lui poi riuscirà a discorrere in modo fluente, senza quasi interruzioni, qualche breve pausa sì, se resta incantato dai propri ricordi, quando né riesce né vuole evitarlo.

“… Così Austerlitz riprese dopo una pausa il filo dei ricordi relativi ad…” – c’è scritto tutto a pagina mi pare 99, a me piacerebbe sintetizzare tutto il suo discorso e travaglio nel cercare notizie di sé, dei propri genitori (che egli immagina possano essere vivi, da qualche parte) e del proprio viaggio di allora, ma chi me lo fa fare… A me non importa… A chi non intende leggere il romanzo, W. S., manco. Basti sapere che l’architetto è là che ci aspetta e che, quando lo vedremo, anziché salutarci, continuerà il suo discorso, sapendo che noi non aspettiamo nulla da lui, a parte gli ameni, tristi suoi ricordi: “… disse Austerlitz, aveva detto Alphonso…”, “… diceva Alphonso…”, “… mi aveva detto una volta Gerald, disse Austerlitz…”, le doxa, le opinioni, si alternano alle imago, le descrizioni accurate e opime, in pratica delle istantanee, a volte corredate da fotografie reali, a volte no, diversamente il libro consterebbe di svariate migliaia di pagine, come quel cellulotico studiolo di Bloomsbury – “… il ricordo che essa risvegliava in me dell’ultima passeggiata fatta in compagnia di Gerald…” – eh… magnifica! Anch’io ero con voi subito dietro l’autore, quarto fra cotanto genio. Che bello che fu! Che è! Che sarà!

E poi:Quando Austeritz ripeté quella domanda di Adela, che mai avrebbe dimenticato, stavamo già rientrando in città da Greenwich…” – è così, confermo – “… Austerlitz riprese la sua storia, dopo un inciso su quell’illuminazione abbagliante e tale da non ammettere neppure un accenno di un’ombra.” – col tempo esteso e il diaframma estremamente serrato – “Ricordo un’osservazione di Gerald…” – anch’io, ora. Per sempre, chissà. – “… sento il tempo ripiegarsi su di me, disse Austerlitz…”e lo potrai ogni volta dì ri-spiegare, tranquillo. – “Non c’era locuzione nel testo che non finisse per rivelarsi una penosa stampella, non c’era parola che non suonasse svuotata e mendace.” – meno male che esiste la medicina della letteratura, mon ami!

W. G. Sebald citazioni Austerlitz
W. G. Sebald citazioni Austerlitz

E “… noi, al pari di piante e animali marini dotati di tentacoli, tastiamo alla cieca nel buio che ci avvolge…”salvifica oscurità, se ci pensi, ché troppa luce fa abbagliare. – “… grazie allo zainetto, lo riconobbi…” – sto dietro di te, tranquillo. – “… ero giunto alla convinzione, o quanto meno nutrivo il sospetto, di aver lasciato Praga all’età di quattro anni e mezzo, nei…” – nei franti frangenti del Tempo.

Ma, “disse la signora Ambrosova” – questo lo si può continuare a leggere a pagina 164, e poco dopo, mio caro architetto, t’incontri con la tua baby-sitter, “Vĕra” – un po’ di-menticata e mai s-cordata: “… così mi disse Vĕra, così disse Austerlitz…” – e il gioco continua – “… rividi Vĕra com’era a quel tempo, quando se ne stava…” – quando esisteva appresso a te, come oggi! Come domani e sempre! – “Io stesso durante la conversazione con Vĕra mi sovvenni, proseguì Austerlitz, che…”“disse Austerlitz”, “così continuò a raccontare Austerlitz”, “Maximilian aveva raccontato, disse Vĕra”, “così aveva detto Maximilian”, “no. Così, a detta di Vĕra, aveva riferito Maximilian”questo, informo, è riportato da Austerlitz“esclamò Agáta, e poi disse”, “così me li dipinse Vĕra, disse Austerlitz”, “disse Vĕra”, “così proseguì Austerlitz”, “così disse Vĕra, riferì Austerlitz”, “quasi le immagini avessero anche loro una memoria e si ricordassero come allora eravamo noi, i sopravvissuti, e di com’erano quegli altri che adesso ci avevano lasciato.”, “disse Vĕra”, “disse Austerlitz”, “una superiore stereometria” lo spazio-tempo quadrimensionale – “Per quanto mi è dato risalire indietro nel pensiero, disse Austerlitz…”, “Ricordo d’essere rimasto…”, “non riesco più a ricordare, disse Austerlitz”, “… uno squilibrato con l’abito lacero…” – e chissà chi era!? – “… mi raccontò non so che storia…”, “Ricordo ancora che cercai, nel dormiveglia…”, “disse Austerlitz”, “mi tornò alla memoria da lontano”, “dovevo ripetere in treno il viaggio di allora da Praga a…”la memoria è amputata, cammina in carrozzina, diversamente abile, sospinta dal solo cuore – “… Marie si dilungò sulla storia delle terme, raccontandomi di come…”, “così disse Austerlitz”, “Oggi non mi è possibile rievocare nei dettagli…”, “disse Austerlitz”, “Mentre ascoltavo Marie e cercavo di immaginarmi il…” – il musicista pazzo e geniale“e vivi, per così dire, soltanto dello zaino?”, “così, disse Austerlitz, mi raccontava Vera…”, “mi tornò alla memoria quanto Vera mi aveva…”, “mi tornò in mente dal passato che…”, “… ciò che ho visto e ciò che ho letto, i ricordi che affiorano e che tornano a inabissarsi…” ma che gran bel faccione a pagina 249!, e, a pagina 256 e anche dopo, tu, amico mio, chiunque tu sia, narri di un quid che accadde in quei tempi, di cui narrò, nel ‘75, Imre Kertész in Essere senza destino, disse Imre, disse Stefano, “dopodiché, Austerlitz, senza alcun preambolo come sua abitudine, cominciò a raccontare.”, “Tutti i momenti della nostra vita mi sembrano allora raccolti in un solo spazio…” una Singolarità che fatalmente c’attrae, “proseguì Austerlitz”, “Austerlitz proseguì il suo resoconto”, “disse Austerlitz”, “disse Marie”, “disse Austerlitz”, “lei, senza parlare di sé, mi svelò il suo animo.”, il “reparto teratologico” dell’“École Vétérinaiire” m’induce a pensare alle strambe ospiti del Museo Spallanzani di Reggio Emilia!, “disse Austerlitz”, “continuò Austerlitz”, “non riuscii a ricordare più nulla di quanto ho appena raccontato”, questo lo scrivi tu, W. G., ma lo fai dire al tuo, al nostro, Magister Architectus; “A poco a poco rammentai di essermi sentito…” – non tanto bene, “disse Austerlitz, “disse ancora Austerlitz”, “Austerlitz riprese a raccontare”, “proseguì Austerlitz”, “Austerlitz citava a memoria guardando fuori dalla finestra…”, “così sosteneva Lemoine, disse Austerlitz”, “disse Leonine”, “disse Austerlitz”, “disse Lemoine”, “disse Austerlitz”, “concluse Lemoine”sfinito? – “disse Austerlitz”, a partire da oggi io adoro “le tignole”, dice Stefano, “Tirai fuori dallo zaino il libro che Austerlitz mi aveva…”, “Davvero orrido, scrive Jacobson”, “e poi presi la via del ritorno verso Mekelen, dove arrivai al…” – ma non voglio spoiler nel mio locale!

Un’avvertenza: i puntini, e tutta la punteggiatura, e tutta la scrittura, servono quando servono sennò non servono. Poco dopo avere scritto ciò, interpello il mio Duca, la mia Guida Alpina, Gino Ruozzi. E gli dico: ieri ho terminato la scalata e oggi ho sanguinato la reazione ad Austerlitz di W. G. Sebald. Certamente lo conosci. Sono quasi senza voce. Di refusi ce ne sono vari, ma sottesi, celati. Dopodiché, quel mio Personal Duke mi parla di un quid che rimane dentro al lettore che ti ha letto, W.G., Austerlitz, Wittgenstein, e tutti gli altri co-autori, compreso me. Alla prossima.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

W. G. Sebald, Austerlitz, Adelphi, 2002

 

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