Giuditta ed Oloferne: un’analisi del sangue sparso sulle tele dipinte

È una donna forte Giuditta, forse la più forte che si possa incontrare nelle tele del Rinascimento. Forte ed emblematico anche il suo nome, il femminile di Giuda, che in ebraico significa per l’appunto “ebreo” (basato su yehudah con il significato di “onorato”, “lodato”). Giuditta, dunque.

Giuditta ritorna a Betulia, La scoperta del cadavere d’Oloferne - Painting by Sandro Botticelli
Giuditta ritorna a Betulia, La scoperta del cadavere d’Oloferne – Painting by Sandro Botticelli

Nell’udire il suo nome si sente subito cadere la testa di Oloferne. E se si nomina Oloferne non si vede altro che la sua testa cadere per mano di Giuditta. E tanto sangue. Complice, ovviamente, non solo la pittura del Rinascimento, ma anche quella delle epoche successive, fino al XIX secolo, e anche oltre. L’arte pittorica ha così immortalato Giuditta e Oloferne saldandoli in un binomio indissolubile, come tanti altri che il mito, la storia e le religioni ci hanno tramandati.[1]

C’è da chiedersi se Giuditta sarebbe diventata altrettanto famosa qualora, anziché tagliargli la testa, avesse ucciso Oloferne avvelenandolo. Certamente il personaggio avrebbe ottenuto lo stesso statuto di eroina, e occupato un posto di rispetto tra i commentari e le esegesi bibliche, ma molto più raramente lo si sarebbe visto circolare nelle opere di tanti illustri pittori. Vero è che in quasi tutte le culture il sangue è sempre stato un potente diffusore di messaggi, di cui i testi sacri, l’arte e le scene teatrali si sono ampiamente serviti.

È il Libro di Giuditta dell’Antico Testamento la fonte cui, direttamente o indirettamente, si sono ispirarti i pittori che hanno affrontato questo tema truculento. La vicenda è nota. Mentre gli eserciti di Oloferne, generale del re assiro Nabucodonosor, tengono sotto assedio Betulia, i cui abitanti sono già pronti alla resa, Giuditta, giovane, ricca e bellissima vedova, escogita un piano per salvare la sua gente. Informati i capi della città, indossate le vesti più sontuose, profumata e ornata dei suoi preziosi gioielli, la donna si dirige verso l’accampamento nemico. Con sé reca viveri caricati in un sacco sulle spalle di Abra, la fidata ancella che l’accompagna. Si presenterà a Oloferne dicendosi pronta a tradire un popolo che sospetta empio agli occhi di Dio, a suggerire come far cadere Betulia senza la perdita d’un solo guerriero. Turbato dalla bellezza e dal proposito di Giuditta, Oloferne si fida. Nella tenda che le viene assegnata, lei resterà tre giorni col permesso di uscire ogni notte dal campo per recarsi nella valle; là si raccoglierà in preghiera in attesa che Dio le confermi l’empietà del suo popolo. Alla sera del quarto giorno Oloferne invita a cena Giuditta, anche per sancire con un brindisi l’accordo scellerato. Ma l’incauto generale brinda senza moderazione, coppa dopo coppa si lascia andare fino a precipitare in un sonno profondo.

Oloferne si deliziò della presenza di lei e bevve tanto vino quanto non ne aveva mai bevuto in un solo giorno da quando era al mondo” (Gdt, 12, 20).

La testa e la spada le lascia lì, l’una accanto all’altra, offerte, abbandonate entrambe presso il baldacchino. Giuditta non esita. Non dubita della propria forza, non si chiede neppure quanta ce ne voglia per uccidere un uomo tanto forte. Dopo aver invocato il suo dio, afferra con una mano i capelli, con l’altra la spada, e con due colpi ben vibrati recide la testa di Oloferne addormentato. Poi, col bottino nel sacco, uscirà dal campo nemico indisturbata, abituati come sono i soldati a vedere la donna andare e venire ogni notte. La missione è compiuta, Betulia sarà salva.

Questo, in sintesi, quanto narrato nel Libro di Giuditta, che è all’origine di tanta materia pittorica. Va tuttavia ricordato che questo testo è entrato tardi, e dopo non poche incertezze, nel IV secolo nella Bibbia cattolica, nell’VIII in quella ortodossa, mentre è stato escluso dalla Bibbia ebraica e da quella protestante. Gli autori lo redassero senza curarsi troppo, a quanto pare, della precisione storica e geografica. Inverosimile, ad esempio, secondo gli studiosi, il tragitto compiuto dall’esercito di Oloferne, sconosciute molte delle città citate, e altre, pur se note, localizzate in modo del tutto incoerente.

La stessa città di Betulia è sconosciuta, forse inventata, nonostante le indicazioni topografiche contenute nel Libro. Oltre a ciò, Oloferne fu un condottiero babilonese, non assiro; Nabucodonosor non regnò sugli Assiri, ma sui Babilonesi. E si potrebbe continuare… Furono forse queste e altre incoerenze a lasciare gli artisti, o chi per loro, quanto mai liberi nell’interpretare il testo. All’inizio del quale Oloferne viene incaricato dal re Nabucodonosor di guidare una gigantesca campagna di conquista verso occidente. Il suo profilo è dunque quello di un grande condottiero, e che tale si conferma nel corso delle invasioni e delle ripetute vittorie, fino a quando i suoi eserciti non arrivano a minacciare la città di Betulia, l’ultima da conquistare. Lungo tutto il percorso bellico Oloferne è il motore di una macchina che avanza secondo piani militari infallibili, un puro stratega, della cui dimensione umana non si ha quasi traccia, se non, forse, nel momento dell’incontro con Giuditta. Fino a quel punto lo si può tutt’al più raffigurare come espressione di una mascolinità esuberante, per far più bello alla fine il trofeo dell’eroina. Ma che vita sia stata la sua prima di essere a capo di eserciti o anche durante la loro guida, il testo non dice.

Di Giuditta, per contro, si ha l’impressione di sapere tutto sul periodo anteriore al suo incontro con l’invasore: vedova da oltre tre anni d’un marito morto per insolazione, morigerata, devota, digiunante nei giorni prescritti e vestita come s’addice alle vedove d’Israele rispettose della legge, quanto basta insomma per dare l’idea di una donna indiscutibilmente virtuosa. È anche felice Giuditta?  Nessuno può dirlo, ma a questo riguardo è possibile nutrire sospetti.

È molto ricca, si è visto, ma non ha figli. È stata sposata per più di tre anni senza generarne alcuno. Per una donna ebrea è una condizione umiliante, una forma di povertà particolarmente avvilente. Si pensi ad altre donne della Bibbia, a Sara, a Rachele, a Elisabetta, a quanto hanno sofferto fino a quando Dio non ha deciso di benedirle con il concepimento. In questo senso Giuditta, per quanto bella e virtuosa, non è una creatura benedetta dal Dio di Israele, il quale le ha negato la sola condizione che può far davvero ricca e felice una donna del popolo cui ella appartiene. La colpa potrebbe forse non essere sua, tutto sommato è stata sposata a Menasse, un uomo dignitoso ma fragile, forse sterile o forse impotente, uno che è morto senza gloria, non in battaglia, non vittima d’imboscate o sbranato da una tigre, ma in un campo di grano durante il raccolto, per insolazione. E ci si chiede come abbia potuto, l’eccellente Giuditta, essere stata sposa di un uomo così poco valoroso.

I due protagonisti s’incontrano per la prima volta in una scena spettacolare di solenne diplomazia. “Quando Giuditta avanzò alla presenza di lui e dei suoi ministri, stupirono tutti per la bellezza del suo aspetto” (Gdt, 10, 23).

Giuditta e Oloferne - Painting by Rubens, 1616, Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum
Giuditta e Oloferne – Painting by Rubens, 1616, Braunschweig, Herzog Anton Ulrich-Museum

È possibile che Oloferne non sia solo colpito dalla bellezza della straniera, ma anche disorientato da una sconosciuta che viene a patteggiare, e magari a promettersi come possibile preda. Di lei si può invece ammirare la fermezza con cui avanza tra le schiere nemiche, e soprattutto la disinvoltura nel recitare il lungo discorso che incanta Oloferne, senza mai mostrarsi intimidita in presenza d’un simile campione di virilità.

Nel momento in cui i due s’incontrano per la seconda e ultima volta, nella tenda del condottiero, costui avrà subito una pericolosa metamorfosi. “Giuditta entrò e si adagiò. Il cuore di Oloferne rimase estasiato e si agitò il suo spirito aumentando molto nel suo cuore la passione per lei.” (Gdt, 12,16).

Il cuore può dunque battere forte nel petto di Oloferne; è un dettaglio non di poco conto, per lo più trascurato dagli artisti. L’eroina viene raffigurata in pose e in momenti diversi, prima, durante, dopo l’esecuzione, o, come da Botticelli e da pochi altri, sulla strada del ritorno a Betulia, mentre Oloferne compare quasi sempre nudo o seminudo.

Ma chi l’ha denudato? Giuditta? E in quale momento della serata? Che il gran generale si sia fatto trovare svestito da un’ospite così speciale, come se un amplesso fosse stato concordato a priori, appare improbabile. In ogni caso, leggendo la frase “Oloferne si deliziò della presenza di lei e bevve tanto vino quanto non ne aveva mai bevuto in un solo giorno…” (Gdt, 12,20), sorprende la quantità di vino che l’uomo avrebbe bevuto in una circostanza tanto speciale.

È il passo più sospetto della narrazione, in quanto costringe a guardare l’uomo come un ingenuo. Anche se il vino può favorire una certa euforia, Oloferne, da quel gran bevitore che si presume sia, deve pur conoscere i rischi che corre chi ne abusa. È del resto presumibile che di una donna tanto disinvolta, così diversa, così misteriosa coi suoi rituali e il suo dio, uno stratega del livello di Oloferne non si dovesse fidare ciecamente, che per prudenza avrebbe dovuto, se non proprio astenersi dal bere, almeno mantenersi sobrio. Nessuno si stupirebbe infine se Giuditta avesse accettato di unirsi a Oloferne e che soltanto dopo, più verosimilmente, l’uomo si fosse abbandonato ai piaceri di Bacco.

In tal caso la statura eroica di Giuditta non solo non verrebbe diminuita, ma addirittura esaltata; il presupposto più autentico dell’eroe non è quello di aver rischiato, bensì quello di essersi sacrificato. Nell’uscire dalle mura di Betulia la donna sapeva che il piano escogitato poggiava unicamente sul suo potere di seduzione.

Del resto, il risultato cui lei mirava non contemplava di dover proteggere il proprio onore, essendo in gioco una mira ben più alta, quella di salvare il suo popolo. E nondimeno, allorché tornerà vittoriosa tra la sua gente, con in mano la testa sanguinante di Oloferne, si affretterà a dichiarare che lei non ha subito alcuna offesa e che l’onore è salvo. “… perché lui si è lasciato ingannare dal mio volto a sua rovina, ma non ha potuto compiere alcun male con me a mia contaminazione e vergogna.” (Gdt, 13,16).

Una dichiarazione che nessuno le ha chiesto, della quale però lei parrebbe aver bisogno, forse già sapendo che sarebbero stati in tanti a interrogarsi. E fra questi non sarebbero mancati i pittori che l’hanno rappresentata seminuda o in tenuta discinta.

Nella versione di Rubens, ad esempio, Giuditta non sembra aver fretta di ricomporsi dopo aver staccato la testa al suo nemico addormentato. Peraltro ha un’espressione smaliziata, compiaciuta, più che soddisfatta, si direbbe, di quanto si è consumato nella tenda del condottiero. E curiosamente, anche la sua vecchia ancella appare soddisfatta quanto la sua padrona nel soppesare l’enorme testa che ha afferrato per la mascella barbuta.

Giuditta e Oloferne - Painting by Michelangelo - Cappella Sistina
Giuditta e Oloferne – Painting by Michelangelo – Cappella Sistina

Nessuna fretta sembra avere neppure Giuditta nella rappresentazione che ne dà Michelangelo in uno dei quattro pennacchi affrescati nella Cappella Sistina.

L’eroina deve aver preso il suo tempo, si direbbe, a eseguire la decapitazione, a rivestirsi accuratamente, a sostare perfino fuori della tenda per assicurarsi che la testa di Oloferne sostenuta da Abra sia opportunamente nascosta da un panno.

Prima di avviarsi, volge lo sguardo verso il corpo senza vita della sua vittima. Che espressione può avere in quell’istante il volto della carnefice?

Michelangelo è il solo pittore a dipingere Giuditta di spalle, a non mostrare la fisionomia della donna, lasciando lo spettatore libero di immaginarla. Non è da escludere tuttavia che l’artista abbia valutato la ragguardevole distanza dal punto di vista d’osservazione, e magari considerato superfluo dettagliare i lineamenti di un volto che dal pavimento della Cappella Sistina sarebbe stato impossibile individuare.

Ma a distanza ravvicinata, lo spazio vuoto che separa l’eroina dal malcapitato generale sembra restare nondimeno carico dei gesti appena compiuti, spinge l’osservatore a misurare i passi fatti da lei per allontanarsi dal delitto, e forse da un incontro tutt’altro che frettoloso di cui il suo corpo potrebbe recar traccia.

Senza sporcare il dipinto con una sola goccia di sangue, Michelangelo mostra invece per intero la nudità di Oloferne, che resta, come si è già detto, il dato pressoché costante nell’iconografia di questo tema.

Più coperto, ma solo da coltri, è il corpo della vittima nei dipinti di Artemisia Gentileschi, che del soggetto realizzò addirittura tre versioni. Nessun altro artista ha mai mostrato Giuditta altrettanto determinata e implacabile. Esemplare è in effetti la sua freddezza nel decapitare il nemico.

Tanta risolutezza è stata da taluni spiegata con la violenza di cui la pittrice sarebbe stata vittima, a 19 anni, da parte di Agostino Tassi, apprendista a bottega di suo padre Orazio.

Secondo tale impostazione, Artemisia, “l’unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità” (Roberto Longhi, Gentileschi. Padre e figlia), avrebbe concentrato sul personaggio il proprio risentimento, caricato della sua frustrazione, dell’offesa mai dimenticata.[2]

Questa donna è terribile”, scrisse nel 1916 Longhi, suo primo biografo, che cogliendone il valore la riscattò dall’oblio in cui la pittrice era stata fino ad allora ingiustamente lasciata.

Giuditta e Oloferne - Painting by Artemisia Gentileschi - versioni di Napoli, 1613 e di Firenze, 1612
Giuditta e Oloferne – Painting by Artemisia Gentileschi – versioni di Napoli, 1613 e di Firenze, 1612

Terribile è anche la sua Giuditta, particolarmente fredda nel tagliare la testa a un Oloferne ancora sveglio o appena risvegliato, che si contorce soffocato dal proprio sangue. Se sul piano scenico tale scelta ha i suoi indiscutibili effetti, su quello interpretativo ha talora dato luogo a considerazioni che, tenendo conto ella presunta violenza subita da Artemisia, hanno rischiato di etichettare Oloferne anche come stupratore.

E questo sarebbe un grossolano errore, perché nel testo biblico non si trova alcuna traccia di stupro o di tentato stupro da parte di Oloferne. Oloferne è solo un capo di eserciti, che si muove alla conquista di popoli con la brutalità di tutti i conquistatori, con la stessa ferocia che a costoro in ogni tempo si richiede.

Prima di arrivare a Betulia, alla guida di 120.000 fanti e 20.000 cavalieri, “… devastò Fud e Lud e depredò i figli di Rassis e gli ismaeliti (…) devastò le città sul torrente Abrona (…) invase i paesi della Cilicia, sterminò quanti gli si opponevano… (Gd, 2, 23), per citare solo alcune delle sue imprese.

Alessandro, Annibale, Scipione, Cesare, Augusto, Costantino (il più santo secondo la chiesa cattolica), per restare nel solo ambito dell’antichità, non avranno nulla da invidiare al biblico Oloferne, se non il fatto che le sue gesta appartengono alla leggenda, e non, come le loro, alla storia.

E proprio a costoro, paradossalmente, nell’epilogo del testo finirà per somigliare Giuditta dopo essere tornata a Betulia con in mano il suo orrendo trofeo. È da lei, elettasi a gran capo militare, che partiranno gli ordini per sterminare gli eserciti assiri, disorientati e resi imbelli dalla perdita del loro condottiero: “… il terrore s’impadronirà di loro e fuggiranno davanti a voi… a voi non resterà che inseguirli e massacrarli tutti nella loro ritirata.” (Gdt, 14.4).

Le due tele della Gentileschi non sfuggono certo al confronto con la più famosa Giuditta e Oloferne di Caravaggio, opera di riferimento per tutti coloro che dopo di lui si sono misurati con lo stesso soggetto. Un dipinto realizzato nel 1597, e che Artemisia ha presumibilmente conosciuto essendo stato, peraltro, suo padre Orazio amico del Merisi.

Molte sono in effetti le somiglianze: stesso impianto scenico, stessa esposizione luminosa, stesso contrasto tra luce e ombra. E se ne potrebbero cogliere altre, ma più che le concordanze, sono le differenze a colpire lo spettatore, in primo luogo l’espressione di Giuditta, di cui già si è detto.

Giuditta e Oloferne - Painting by Caravaggio - olio su tela, 1597, Roma, Palazzo Barberini
Giuditta e Oloferne – Painting by Caravaggio – olio su tela, 1597, Roma, Palazzo Barberini

L’eroina di Caravaggio appare più fragile, e al tempo stesso incerta sull’azione che sta compiendo e che sembra ripugnarla. Nei quadri di Artemisia, l’ancella partecipa attivamente all’esecuzione, mentre nella tela di Caravaggio si limita a osservare la scena aspettando il momento di mettere nel sacco la testa recisa; in Caravaggio è rappresentata come una vecchia donna che assiste indifferente all’esecuzione, in Artemisia l’ancella è addirittura più giovane della sua padrona, altrettanto agile e forte nell’azione.

In Caravaggio Oloferne è riverso sul ventre, e tenta inutilmente di sollevarsi, mentre in Artemisia, steso di schiena, si dibatte reagendo disperatamente alla violenza delle due donne. Ne risulta una scena massimamente movimentata, assai più dinamica di quella realizzata dal Merisi.

Anche Orazio Gentileschi, padre di Artemisia, ha lasciato una sua versione di Giuditta e Oloferne, un’opera originalissima e molto diversa da quella del suo amico Caravaggio. In essa egli affronta il dramma impaginandolo in una composizione pressoché statica, a delitto avvenuto, con al centro la testa di Oloferne sostenuta da Giuditta e la sua ancella, che qui, eccezionalmente, ha lo stesso rilievo figurativo della sua padrona.

Le due donne sono presentate ciascuna in posizione pressoché speculare rispetto all’altra, con i visi rivolti ai lati opposti della scena, verso l’alto quello di Giuditta, come in cerca d’un cenno d’approvazione celeste, più guardingo quello dell’ancella, verosimilmente inquieta di fronte a quanto resta da fare per mettersi in salvo.

Nel costruire una composizione priva di riferimenti spaziali, che lasciando fuori il corpo di Oloferne suggerisce un distanziamento dal luogo del delitto, Orazio Gentileschi dà vita nondimeno a una rappresentazione fortemente suggestiva.

Egli evidenzia un altro tratto della vicenda, un diverso e impressionante momento, più umano si direbbe, quello dell’esitazione, dello spaesamento, del timore, dello sconcerto rispetto a quanto compiuto, dell’improvviso isolamento un cui sembra trovarsi Giuditta, in attesa di un’ulteriore ispirazione divina.

Giuditta e l’ancella con la testa di Oloferne - Painting by Orazio Gentileschi - 1612, Hartford
Giuditta e l’ancella con la testa di Oloferne – Painting by Orazio Gentileschi – 1612, Hartford

Va notato che Orazio, a differenza di quasi tutti gli altri artisti, aderisce perfettamente al dettato biblico, secondo il quale l’ancella, nel momento della decapitazione, è inequivocabilmente fuori scena: “Allora Giuditta ordinò all’ancella di stare fuori della tenda e di aspettare che uscisse…” (Gdt, 13.3).

Anche il pittore austriaco Franz von Stuck, che nel 1924 ha dedicato alcune tele alla vicenda, sembrerebbe attenersi perfettamente al passo biblico sopra citato. E lo fa a modo suo, anticipando l’azione a un momento che precede, non si capisce bene di quanto, la decapitazione.

In questa rappresentazione, in effetti, l’ancella non è presente, è rimasta fuori dalla tenda come le ha ordinato la sua padrona. E tuttavia ci si può chiedere se il pittore intendesse davvero attenersi al dettato del testo. Per certi versi il ritratto che offre di Giuditta può essere considerato dei più audaci tra quelli fino ad allora realizzati, e non perché nuda.

L’eroina appare in tutto il suo fulgore di donna non solo forte, ma anche dominante, completamente emancipata. Che se ne farebbe di un’ancella una donna così? Del tutto superfluo, inoltre, porsi qui domande sull’intimità dei due personaggi.

La domanda che invece si sarebbe tentati di fare è se Giuditta sia davvero determinata a decapitare un Oloferne che, più che ubriaco, appare beatamente stremato. E dall’espressione dell’eroina, si potrebbe addirittura pensare che sia in attesa che l’esausto guerriero si riprenda, che per il taglio della testa ci sia ancora tempo. Vero è che il corpo di Oloferne, colto qui in tutta la sua integrità, non ha meno rilievo di quello della protagonista. Ne viene evidenziata in particolare la forma atletica, nonché una carica erotica indiscutibile, degna della sua seduttrice.

È una rappresentazione sorprendente, difficile da immaginare se si tiene conto che all’intimità di Oloferne non viene mai fatto cenno. E ciò nonostante il testo di riferimento gli dedichi molto più spazio che a Giuditta, la quale entra in scena solo nell’ottavo dei sedici capitoli di cui il Libro si compone.

Di lui dunque molto si racconta, ma per mettere in rilievo soltanto la grandezza di generale degli eserciti. La sola allusione alle emozioni dell’uomo, la si trova nel passo già citato, in occasione del suo secondo e ultimo incontro con Giuditta. “… il cuore di Oloferne rimase estasiato e si agitò il suo spirito aumentando molto nel suo cuore la passione per lei.” (Gdt, 12,16). Dallo stato di tale struggimento si passa d’un balzo all’ubriacatura e quindi alla messa in atto della decapitazione.

Giuditta e Oloferne - Painting by Franz von Stuck - 1924
Giuditta e Oloferne – Painting by Franz von Stuck – 1924

La descrizione a questo punto risulta un po’ incerta, con “Oloferne buttato sul divano ubriaco fradicio” e Giuditta che s’impossessa della spada appesa alla colonna del letto “accanto alla testa di Oloferne”… Un passo che lascia perplessi e rimanda a quanto si è già detto sulla discutibilità e l’incoerenza dell’intero testo, la cui redazione è presumibilmente avvenuta tra riscritture e revisioni non troppo rigorose.

Ma quando sarebbe iniziata la passione del generale per la nobile ebrea, quella passione che quasi l’opprime allorché la vede sdraiarsi nella propria tenda tra le pellicce disposte a terra dall’ancella?

È possibile che lui, vedendola andare e venire per quattro giorni nel suo accampamento, l’abbia spiata, seguita, desiderata come nessuna altra donna? È lecito pensare che se ne fosse innamorato?

D’un simile guerriero si potrebbe in qualche modo immaginare la sfera abituale dell’intimità sessuale, circoscritta magari al brutale consumo di schiave, prostitute o prigioniere. Ma una donna tanto nobile qual è Giuditta, che s’esprime con fervore e con voce inaudita, lei così regale, che a lui viene e s’inchina come sua serva, che lo blandisce, che già conosce, e gli dice “… per fama la tua saggezza e le abili astuzie del tuo genio, … in tutta la terra tu sei il migliore in tutto il regno, esperto nelle conoscenze e meraviglioso nelle imprese militari.” (Gdt, 11,8). Quali armi più affilate avrebbe potuto usare Giuditta per colpire al cuore un condottiero?

Ed è proprio questo il passaggio della narrazione biblica scelto da Giuseppe Marchesi, detto il Sansone, pittore bolognese del XVIII secolo, il quale ricostruisce la scena in cui Oloferne ascolta estasiato le parole di una Giuditta incantatrice dopo averla accolta nel suo accampamento. In questa singolarissima tela il generale appare per una volta, forse la prima, in una posa di grande dignità, senza ombra di barbarie o satiresca libidine.

Dal suo elegante mantello sporge solo un ginocchio e mezzo polpaccio, mentre dall’audace e non certo vedovile scollatura di Giuditta trabocca un seno più che generoso. Se della vicenda restasse solo questa testimonianza, non si esiterebbe un istante a vedere nella bella dama discinta una volgare simulatrice e nell’uomo un nobile signore che l’accoglie fiducioso, pronto a ospitarla e a offrirle protezione.

Giuditta e Oloferne - Painting by Sansone (Giuseppe Marchesi) - 1730
Giuditta e Oloferne – Painting by Sansone (Giuseppe Marchesi) – 1730

Nessuna traccia in lui dei tratti mostruosi che quasi tutti i pittori hanno attribuito al suo volto prima o dopo il taglio della testa; testa per di più rappresentata sempre come enorme e repellente, imparentata per dimensioni a quella di un altro famoso decapitato dell’Antico Testamento (e della storia della pittura), l’altrettanto vituperato gigante Golia.

Dovranno passare oltre due secoli per veder compiere un ulteriore gesto riparatore nei confronti del condottiero assiro, e questa volta sarà un artista assai lontano, almeno in apparenza, dalla tradizione pittorica che abbiamo fin qui presa in esame. Il pittore è l’americano Cy Twombly, morto nel 2011, che al soggetto ha dedicato ben tre distinti lavori, due nel 1964, il terzo nel 1979.

Il 1964 è l’anno in cui Twombly si era trasferito a Roma, e in questi lavori taluni hanno ritenuto di cogliere un’eco delle collezioni rinascimentali e barocche conservate nei musei della capitale, verosimilmente visitati dall’artista e dove di Giuditte se ne possono incontrare più d’una.

Accennare qui all’artista che è stato Cy Twombly nel fitto e complesso universo dell’arte del secondo dopoguerra, fra l’intrico di tendenze che l’ha contraddistinto, sarebbe un’impresa alquanto vana, non potendolo far rientrare del resto in nessuna delle correnti americane, a partire dalla Pop Art o dall’Espressionismo Astratto in poi.

Né questa è la sede per ricostruire la straordinaria vicenda creativa di un autore peraltro assai schivo, pochissimo disposto a parlare di sé e della sua attività. Che si svolse per gran parte in Europa, in particolare in Italia, dove visse e lavorò per lunghi periodi. Non si tratterà neppure di analizzare criticamente l’opera, fra le tre sopra citate, scelta a conclusione dell’indagine svolta in queste pagine sulla vicenda pittorica di Giuditta e Oloferne, osservata peraltro da un limitato punto di vista. Si tratterà soltanto di esaminarla e di fare semmai delle semplici considerazioni.

I due primi lavori del 1964 erano contraddistinti da un identico titolo, Murdered of Holofenes. Nel 1979, a quindici anni di distanza, Twombly ritorna sul luogo del delitto per realizzare The death of Holofernes, un dipinto eseguito attraverso la tecnica del collage, con olio, acquerello e matita su carta. Con i disegni del 1964 questo lavoro ha in comune l’assenza del nome di Giuditta nel titolo. E stranamente il nome taciuto, che sembrerebbe indegno di venire menzionato, risuona comunque in tutta la sua valenza negativa.

Quel che più colpisce, in questa particolarissima opera dell’artista americano, è la realizzazione formalmente figurativa nel senso più tradizionale del termine per un autore come lui. La trita domanda “ma che rappresenta?”, che molti spettatori continuano a porsi tuttora davanti all’arte informale, in questa composizione sarebbe del tutto ingiustificata.

L’oggetto rappresentato in primo piano è inequivocabilmente una tela poggiata sopra un cavalletto. Un quadro nel quadro, dunque, un gesto autoreferenziale compiuto più volte in passato da molti altri artisti. Allora la domanda sarà: che cosa rappresenta la tela dipinta nella tela?

The death of Holofernes - Painting by Cy Twombly - 1979
The death of Holofernes – Painting by Cy Twombly – 1979

Nient’altro che il rosso, il colore del sangue, che qui compare come raccolto sul lato inferiore della tela, e poi colato ancora giù dalla tela stessa in fondo al cavalletto, per raggrumarsi in basso in un colore brunito, stantio.

Nessun riferimento biblico è più possibile cogliere, perché qui a colare non è il sangue sparso dalla Giuditta dell’Antico Testamento, ma quello versato a piene mani dai pittori del passato nelle tele in cui hanno raccontato la torbida storia. Il conto con Giuditta era stato saldato da Twombly nel 1964, allorché, in Murdered of Holofernes (L’assassinio di Oloferne), l’aveva designata come autrice di un delitto. In questa tela il conto viene saldato invece nei confronti dei numerosi artisti ai quali in qualche modo contesta di essersi troppo compiaciuti di accumulare il rosso nella rappresentazione del soggetto biblico.

In ultima analisi, si potrebbe affermare che con The death of Holofernes Cy Twombly mette fine a una storia di eccessi pittorici, chiudendo con un colpo di genio un ciclo iconografico durato per secoli.

 

Written by Riccardo Garbetta

 

Note

[1] Assai debole impatto, nell’immaginario collettivo, hanno avuto le composizioni musicali inspirate alla storia dell’eroina biblica, tra le quali si ricordano gli oratorii  Juditha triumphans di Vivaldi su testo di Cassetti, Betulia liberata di Mozart su testo de Metastasio, oltre all’opera Judith di Honegger su libretto de Morax. Ancor meno memorabili, a tale riguardo, sono i numerosi testi letterari e drammatici che hanno prosperato, con Hans Sachs en testa, à partire dal XVI secolo.

[2] È noto che i biografi di Artemisia Gentileschi sono molto perplessi riguardo non solo al suo rapporto con Agostino Tassi, ma anche a quello col proprio padre Orazio, su cui grava peraltro il sospetto di comportamenti incestuosi. E ciò soprattutto perché dalla lettura dagli atti del processo per stupro, in cui il padre sconsideratamente la trascinò a distanza di un anno dal presunto reato del Tassi, non si viene a capo di nessuna verità. Quella accertata e incontestabile è invece la violenza subita da Artemisia durante l’assurdo procedimento penale, allorché il suo corpo fu sottoposto a pesanti controlli davanti ai giudici per verificare se, come e da quanto tempo fosse stata deflorata, e soprattutto alla tortura detta “della Sibilla”, coi polsi legati e le dita strozzate dalle corde, che rischio di farle perdere l’uso delle sue preziose dita.

Si è in ogni caso tentati di credere che Artemisia, orfana di madre (che si sospetta averla concepita fuori dal matrimonio), unica femmina cresciuta in fretta e non certo tra buone maniere in un ambiente di soli uomini come la bottega di suo padre (nella quale si era formata per diventare la grande pittrice ormai riconosciuta), fosse tutt’altro che una fragile e indifesa creatura. E ci si domanda se col suo carattere e la sua aspirazione all’indipendenza, si sarebbe accontentata d’una promessa matrimoniale per continuare a giacere per un anno intero con l’uomo che l’aveva stuprata.

La forza di Artemisia viene pienamente dimostrata in seguito, subito dopo il processo, allorché si sposa, divorzia, si trasferisce a Firenze, viaggia, partorisce due figli che lei stessa alleva, diventa celebre, ricca e libera, soprattutto sessualmente, come raramente è consentito a una donna del Seicento. Non contro Agostino-Oloferne la sua pittura dunque in particolare si rivolge, ma più in generale contro tutto il mondo maschile del suo tempo, quello del padre, quello della sua bottega, quello dei giudici che condussero un processo dal quale la Gentileschi uscì martoriata. E non è un caso se nel Novecento diventerà una delle massime icone del movimento femminista.

 

 

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