“Bestiario” di Julio Cortázar: la storia è talvolta un sogno
Nell’ottima introduzione di Ernesto Franco, scopro che una scrittura, per Julio, dev’essere significante, cioè andare oltre al suo dire; intensa, deve contenere l’essenziale e nulla più; deve essere teso, mantenere costante la tensione narrativa che cattura il lettore che, pur non cogliendo tutti i significati, è teso a rincorrere una storia che sembra dileguarsi davanti ai suoi occhi.
Debbo fare una confessione: ieri sera, dopo aver terminato un libro ostico e interessante, ho letto i primi due capitoli con scarsa attenzione e ho fatto fatica a raccapezzarmi. Stamattina li ho riletti con la cura necessaria, sine qua non del testo non si comprende che poco o nulla. Se ne deduce che il lettore deve anch’egli conferire significato, energia e avere l’intenzione costante di seguire, passo dopo passo, l’anomalo tragitto fissato dallo scrittore.
Nei primi quattro testi, noto quello che nel quinto, letto poco fa, è evidentissimo. Il primo punto mi è stato elargito dalla nota al primo racconto, Casa occupata, il cui riassunto sarebbe una specie di innocente sacrilegio, per cui lo ometto. Fa parte del rito, rimanere allibiti e annullerebbe parzialmente l’effetto. È come se, ne La lettera rubata di Edgar Allan Poe, si scoprisse che essa era lì, dove nessuno avrebbe mai pensato di guardare, se non il sagace Dupin.
Julio scrive che la storia nasce da un sogno che ha vissuto una notte, in cui era solo, ma durante la scrittura, dirà qualche tempo dopo, “mi sono accorto che non potevo raccontare il sogno con un solo personaggio, che era necessario dar corpo al racconto con una situazione ambigua…” Il meccanismo funziona anche per i successivi tre racconti.
Ma è solo nel quarto, Omnibus, che diventa evidentissima un’altra condizione umana che pare, rileggendo ancora gli altri tre, necessaria, perché si compia il misfatto da cui si genera la narrazione. Non si tratta di un atto scellerato ben determinato, che è avvenuto e da cui occorre reagire. Nulla di tutto questo. Quanto succede è immotivato, eppure è l’innaturale conseguenza di un senso di colpa del personaggio principale e del suo accompagnatore. “Tutti i passeggeri guardavano verso Clara, sembravano criticare qualcosa di Clara, che sostenne i loro sguardi con uno sforzo crescente, sentendo che ogni volta diventava più difficile.” Lei spera, invano, di risolvere con amenità la tenzone psicologica. “Due ragazzine dal naso crudele” per motivi imperscrutabili “guardavano Clara con alterigia”. Anche stavolta, al nostro eroe (stavolta eroina) viene in soccorso un simile, similmente disperso in un mondo Altrui: “Lei ed io abbiamo preso il biglietto da quindici.” La prossima fermata è Chacarita: “Di sabato molta gente va al cimitero.”
“… si concentrarono sul piano, studiando l’ubicazione delle gambe, lo spazio da coprire…”
“… e quando si voltò al suo compagno saltava anche lui e la porta sbuffò richiudendosi.” – anch’essa non troppo gentile.
Qui tutto sta andando così bene! “Non si dissero nulla, tremavano come di felicità e non si guardavano.”
Poi? Come finisce l’idillio? “Ma quando ripresero a camminare (lui non la prese più a braccetto) ciascuno aveva il suo mazzo di fiori, ciascuno camminava con il suo ed era contento.” Tutto è conturbante quel che finisce conturbante.
“Non saprei in quale altro modo descrivere il contrattacco a una angoscia che nasce da qualsiasi futilità, dal nulla.”
Non può che sortire dal Nulla, diversamente si potrebbe seguire una linea d’azione concreta e non basata sul si dice, si pensa, si intuisce che forse… non si sa… decisamente Nulla… “mentre fuori è tutto tremendamente immobile, solo sfuggente e inafferrabile…
Ma quanto vale questo capoverso: “Sensazione di lacerazione, di bruciore nel cervello, sul cuoio capelluto, con paura, con febbre, con angoscia.” È un frattale perfetto e conchiuso del libro.
“Non ci accorgiamo dell’alba, fino alle cinque ci abbatte un sonno senza riposo dal quale escono le nostre mani ad ore fisse per portare le pillole alla bocca.” Altro frattale.
Mi viene da dire che ogni pagina, ogni capoverso, ogni frase, ogni parola e forse anche ogni lettera sia un frattale esatto dell’opera intera.
Non importa di chi si stia parlando, perché potrebbe capitare a tutti, anche a te. Non si sa “se è morta perché è fuggita o se è fuggita perché stava morendo.”
Quando scarseggiano i liquidi si rimane non solo a bocca asciutta, ma tutto è a secco, la vita così ci fa, secchi: “Senza sete, ma sudando, urina scarsa, grida penetranti.”
In Circe, “Delia non disse niente, si mise a guardare il pavimento come se cercasse una formica nel salotto.” E la sua storia avanza, inesorabile: “Allora sei il mio fidanzato – disse, – Come mi sembri diverso, cambiato.”
Nessuno c’era più, al momento, che “facesse tacere Delia che piangeva, facesse finalmente cessare il pianto di Delia.”
Il racconto è delizioso, come può apparire un carro funebre riccamente impreziosito di orpelli macabri. È colmo di situazioni talmente quotidiane che paiono già vissute innumerevoli volte, in innumerevoli vite.
Una donna qualsivoglia, particolarmente cara, moglie di un qualsivoglia intimo amico, “… è morta adesso, come se lei stessa avesse deciso il momento in cui anche questo doveva essere concluso.”
Lui, il nostro io: “Quasi non sentii il grido delle vecchie e il trambusto nel cortile, ricordo invece che il taxi costò due e sessanta e che l’autista aveva un berretto lucido.”
Ora che era accaduto l’arcano misfatto, l’orrore degli orrori, era “incredibile come la gente di un quartiere lasci tutto (persino i quiz radiofonici), pur di trovarsi sul luogo dell’avvenimento.” Sarebbero morti, se non fossero potuti essere presenti.
“Mi resi conto che lì non avevo niente da fare, che quella stanza apparteneva adesso alle donne, alle prefiche che giungevano nella notte.”
So ciò di cui si sta parlando, anche non sono mai stato una prefica. Ma ho vegliato un morto, che era il padre del secondo cugino materno di mia moglie. Tutto il paese, in simili onoranze, si riversa in casa del deceduto, e ha tempo meno di ventiquattr’ore.
All’una e mezza si presentò il primo cugino paterno di mia moglie, ora anche lui salito a raccogliere le olive a Chissà Chi. Si guardò incontro, spaesato. Mi alzai e gli dissi Ernesto, mi sa che a quest’ora sono io il parente più prossimo…
Chi non ha mai vissuto una situazione cortazariana, alzi la mano (o getti la prima pietra).
“Andavamo insieme a ballare e io li guardavo vivere.” – loro vivevano senza guardare nessuno.
“Mauro piangeva senza ritegno come ogni animale sano di questo mondo, senza la minima vergogna. Mi prendeva le mani e me le bagnava con il suo febbrile sudore.” – una forma di sacramento religioso.
“… non che mi importasse tanto la morte di Celina, quanto piuttosto la sospensione di un ordine, di una abitudine necessaria.” – un vizio di forma e di sostanza.
“… io lo lasciavo parlare, ma ogni tanto gli riempivo il bicchiere di birra.” – dissetandosi, del suo dolore.
“Allora fui ripreso dal pensiero che Celina era stata in un certo senso un mostro come loro, soltanto che fuori e di giorno non si notava come qui.” – l’Alterità non sarebbe tale se non si mischiasse con la normalità.
A Mauro “il ricordo nasceva da ogni cosa come i peli da un braccio.”
Tanto vorrei sapere da te, Julio, perché mai non che la donna “si chiamava Emma”, ma che esso “fosse un nome che non stava bene alle magre.”
“– Lo balliamo? – disse Emma sorbendo rumorosamente la sua granatina.”
Ho dovuto cercarlo, cercarti, Julio, su Google (poi ti spiego cos’è) e alla fine trovo che la frase era:
Lo ballamos? – dijo Emma, tragando su granidina con ruido.
Quindi, da te si dice come a Reggio (Emilia), non come a Messina…. Granidina, granatina, e non granita! Queste sono le cose preziose che rendono la vita godibilmente essenziale!
“Non gli risposi. Il sollievo pesava più che la pena.” – come dicono sempre dalle mie bande: al béll tašèir a n fu mai détt.
Le porte del cielo ha confermato quanto ho pensato fino a ora. Una scrittura come quella di Julio pretende una fedeltà assoluta. Non devi pensare ad altro, sennò rischi di perdere l’essenza della sua anima trasfusa. Se ti va bene, ti sfugge il quasi imprescindibile. Ed è quel quasi che devi rincorrere, tornando sulle pagine che davi già per trascorse per sempre e che invece sono sempre lì che incombono.
Il bagno di campagna, com’era? “Sapeva di vecchio, il secondo mattino trovò una di quelle bestioline dell’umidità che passeggiava per il lavabo. La toccò appena, si trasformò in una pallina tremante, perdette la presa e scomparve nel buco gorgogliante.”
Nessuno di questi racconti si può definire breve, ma forse infinito. Forse Julio ha questo di specifico: non lo si capisce mai né la prima, né la seconda volta. Più lo rileggi, più comprendi di non aver colto ancora il nucleo della sua particella, ti manca sempre un neutrone o due, e qualche protone, ma che stai avvicinandoti al centro del centro, mentre i gluoni si aggirano attorno a te, assai inquieti. E qual è la meta finale? Quella di avere la consapevolezza che occorrerà rileggerlo un’ennesima volta.
Se Borges, Ovunque egli sia, lo leggesse, e credo l’abbia già fatto non una volta sola, lo paragonerebbe forse a Kafka.
Se Kafka, Ovunque egli sia, lo leggesse, e temo che non l’abbia ancor fatto nemmeno mezza volta, lo paragonerebbe forse a Borges.
Se spuntasse da un cespuglio Márquez, lo paragonerebbe forse a entrambi.
Così ci si comporta di fronte alle somme novità, si cercano i precedenti.
Il bello è che Julio forse li sentirebbe discorrere e argomentare, l’uno con l’altro, senza nemmeno fiatare.
In Appendice, ci sono due saggi rivelatori, in cui Julio esamina l’essenza e le qualità del racconto. Già da prima di leggerlo, so che le sue considerazioni ricalcheranno le mie.
“Quasi tutti i racconti che ho scritto appartengono al genere chiamato fantastico per mancanza di un termine migliore e si contrappongono a quel falso realismo che consiste nel credere che tutte le cose si possano descrivere e spiegare…” – tutte le cose possono essere descritte e persino spiegate, ma solo alcune diventano necessariamente racconti. La necessità è la discriminante.
Lo scrittore di racconti sa che non può procedere in modo accumulativo, perché non ha il tempo come alleato; “la sua unica risorsa è di lavorare in profondità, verticalmente, tanto verso l’alto quanto verso il basso dello spazio letterario.” – questo è il motivo per cui in genere la storia di un racconto non va tanto oltre un giorno o due. Oppure può presentarsi come la memoria di quel che è accaduto in un tempo anche lungo, ma la storia non è l’insieme dei momenti ricordati, quanto il ricordo stesso.
Alcuni racconti sono riusciti, mentre “altri, che apparentemente gli somigliano, non sono altro che inchiostro sulla carta, alimento dell’oblio.” – queste ultime tre parole mi fanno male, perché per me scrivere è eternare un momento, un pensiero, una situazione, una frase, una persona, un oggetto: il mio rapporto verso di essi, la nostra interazione.
Sì. Lo vogliamo gridare per l’ennesima volta?! A thing of beauty is a joy for ever! (Keats).
Il tema non dev’essere per forza straordinario, l’effetto che ha avuto su di me sì.
Il racconto, quasi quanto sua madre, la poesia, è legata all’io, che incontra il suo doppio: l’IO.
“Un buon tema ha qualcosa del sistema atomico, del nucleo attorno al quale girano gli elettroni; e tutto ciò, in fin dei conti, non è già come una proposizione di vita, una dinamica che ci urge di uscire da noi stessi e a entrare in un sistema di relaziono più bello e più complesso?” – È così, amico mio!
“Ogni racconto durevole è come il seme in cui sta dormendo l’albero gigantesco. Quell’albero crescerà in noi, farà ombra nella nostra memoria.” – Julio, è così. E questo vale per ogni forma d’arte, tanto per la Bhagavad Gītā quanto per l’ungarettiano M’illumino d’immenso. È un fenomeno bio-fisico-chimico che prescinde dal numero di sillabe o di pagine totali.
“… il racconto deve nascere ponte, deve nascere passaggio, deve fare il salto che proietti la significazione iniziale, scoperta dall’autore a quell’estremo più passivo e meno vigile e molte volte persino indifferente che chiamiamo lettore.” – che diventa scrittore solo qualora, dentro di sé, inizia a ri-scrivere, a cambiare lo stato atomico del racconto stesso.
“Per veterano, per esperto che sia uno scrittore di racconti, se gli manca una motivazione viscerale, se i suoi racconti non nascono da una profonda esperienza personale, la sua opera non andrà oltre a un mero esercizio estetico.”
Horacio Quiroga disse quali erano i precetti da seguire per scrivere un racconto. A te, Julio, interessa il decimo e ultimo: “Racconta come se la narrazione non avesse interesse che per il circoscritto ambiente dei tuoi personaggi, uno dei quali potresti essere tu. Non altrimenti si ottiene la vita nel racconto.”
Amo la tua espressione. “Torno al fratello Quiroga”, che legittima la mia fratellanza verso entrambi. Spieghi come l’io narrante sia talvolta dissimulato in terze persone, ma che tutte sono una parte di te, senza scelta né imposizione. Così non può non essere. Non ami quegli scrittori che diventano protagonisti, in luogo dei loro personaggi, eccedendo nella descrizione di “dettagli e passaggi da una situazione all’altra”.
In tali casi l’io dello scrittore si presenta brutalmente imponente, zittendo di fatto le voci delle persone che vivono sotto la sua ombra funesta. Egli non provvede a dividere la propria anima in tanti diversi horcrux, ma presenta se stesso come il Sovrano, se non l’Iddio Onnipotente, Uno e al massimo Trino, in grado di creare ogni cosa, ma non di sprigionare la sua stessa libertà narrativa, ciò che tu chiami “la sua autarchia, il fatto che il racconto si sia staccato dall’autore come una bolla di sapone dalla pipa di gesso.” – che magnifica allegoria, che continui poco dopo: “… la narrazione in prima persona rappresenta la più facile e forse la migliore soluzione del problema, perché narrazione e azione sono lì la medesima cosa. Perfino quando si parli di terzi, chi lo fa è parte dell’azione, è nella bolla, non nella pipa.” Nel fine, non nel mezzo.
“Mi sembra una vanità il voler intervenire nel racconto con qualcosa di più che del racconto in se stesso.” – esso si creerà da sé, non dal nulla, ma dall’energia che si è tramuta in nuova particella, che poi ridiventerà energia nel cuore del lettore.
Tu parli di “ovvio ponte di un linguaggio che va da una volontà di espressione all’espressione stessa”: il racconto si muove dal punto in cui viene emesso fino al punto in cui attesta all’Altro la sua improvvisa, ancorché dubbia, presenza. È la stessa dinamica che è stata verificata per l’emissione di particelle, il cui tragitto diventa probabilistico e mai certo, dove rimarrà sempre ineffabile l’alea della sua intenzione finale.
Il fascino di un racconto risiede nel suo rimanere imprevedibile fin oltre alla sua conclusione, nella sua misteriosità, per cui a te sorge spontaneo pensare alla cogenza di un esorcismo. Non credo debba essere per forza così. Dubito che qualsiasi tentativo di osservazione o di riproduzione del fenomeno possa quantificare quel che non è stato ancora determinato. In noi non rimane che affidarsi all’intuizione di una probabilità e nulla più. E rammentare che ogni volta la nostra osservazione muta il fenomeno osservato.
Se qualcuno “è passato attraverso l’esperienza di liberarsi di un racconto come chi si toglie di dosso un predatore, saprà della differenza che c’è fra possessione e cucina letteraria…” L’autore possiede ed è insieme posseduto, in un rapporto bio-fisico-chimico, che produrrà la necessaria interazione e reazione.
Quel che conta “è la tensione interna della trama narrativa”, la quantità di energia che si mette a disposizione, che non sorge per caso, ma da una cogenza ineludibile, che distoglie il lettore dalla sua “sbiadita realtà”, perché facendolo interagire col fenomeno osservato.
“Scrivere un racconto così non costa nessuna fatica”: assolutamente no, è sufficiente annichilirsi. E questo vale per ogni atto creativo, come ben sapeva Carmelo Bene quando sbraitava (come un matto incompreso) che ogni sera egli si sacrificava in scena, annullandosi. E nessuno gli credeva, né lo capiva.
“La genesi del racconto e della poesia è tuttavia la stessa, nasce da un repentino straniamento, da uno spostarsi che altera il regime ‘normale’ della coscienza…”, in uno spostarsi Altrove, in uno spazio sacro, in cui, come diceva Mircea Eliade, il divino si umanizza, l’umano si india: non è mai Dio, ma vi si avvicina terribilmente.
“La comunicazione si dà a partire dalla poesia e dal racconto, non per mezzo loro.” È una preghiera, che non è una macchina con cui ci libriamo verso il Cielo: ma è il Cielo che entra in noi.
Un ultimo riferimento, penso inutile, ma doveroso. Einstein stabilì con una sua celebre formula che l’Energia si tramuta in Massa, e viceversa. E questo accade sia per i corpi che obbediscono alle leggi gravitazionali e relativistiche, che a quelli che dimorano poco oltre la soglia di Planck. Energia e massa sono collegate, ma probabilmente si equivalgono.
Lo stesso è per ogni forma d’arte, in modo differente a omogeneo. Scrivere significa liberarsi di un peso, tu dici: “come chi si toglie di dosso un predatore”. L’immagine è potente, perché quel rapace ti sta prosciugando ogni tua risorsa energetica. Il momento peggiore è l’inizio, quando hai quel fardello da cui devi liberarti, se vuoi sopravvivere. Scrivere è come evacuare o partorire, in ogni caso è togliere sé da sé, nasca quel che nasca, rifiuto organico o ‘na bella criatura. Quel che muta è il prodotto, che può essere maleodorante, oppure piangere di emozione, per essere sortito in quest’arduo mondo. Esso tornerà da te, ma sarà lui ad addentrarsi nei misteri del mondo, a crescere a ogni lettura, a dimostrare al mondo che nulla si sa di esso, e che per questo descriverlo rimarrà il sogno più assurdo e mirabile.
La presente reazione si deve alla lettura che feci, qualche tempo fa, della recensione scritta da Roberta Di Domenico in modo così incantevole, che m’incantò e m’indusse a cercare il libro, che infine mi fu regalato dall’amico Riccardo Garbetta, che prima volle leggerlo. Com’è giusto e sacrosanto.
Ecco che il fenomeno Bestiario non finisce mai di arricchirsi di nuove energie, che ogni volta renderanno grazie alla sua sempiterna bellezza.
Così previde il nostro comune maestro, Jorge Borges.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Julio Cortázar, Bestiario, Einaudi
Info
Leggi la recensione “Bestiario” di Roberta Di Domenico