“Pareidolia” raccolta poetica di Lorenzo Spurio: parole simili all’immagine

Leonardo da Vinci descriveva nel suo Trattato della pittura la “pareidolia” (dal greco “para” simile ed “eidolon”, immagine): «E questo è: se tu riguarderai in alcuni muri imbrattati di varie macchie o pietre di vari misti, se arai a inventionare qualche sito, potrai lì vedere similitudine de’ diversi paesi, ornati di montagnie, fiumi, sassi, albori, pianure, grandi valli e colli in diversi modi; ancora vi potrai vedere diverse battaglie e atti pronti di figure, strane arie di volti e abiti e infinite cose, le quali tu potrai ridurre in integra e bona forma. E interviene in simili muri e misti come del sono di campane, che ne’ loro tocchi vi troverai ogni nome e vocabulo che tu imaginerai».

Pareidolia

Lorenzo Spurio ne fa il titolo della sua ultima raccolta poetica edita da The Writer edizioni, articolata in quattro parti: I. Affossamenti, II. Ecchimosi, III. Dedicatio, IV. Pareidolia, corredata da una ricca antologia critica in cui spiccano i nomi di Corrado Calabrò e Giorgio Bàrberi Squarotti, a testimonianza che nonostante la sua giovane età è già un affermato poeta, nonché critico letterario ed organizzatore di premi letterari ed eventi culturali di rilevanza nazionale.

Nella prima parte (Affossamenti) Spurio introduce la poesia di impegno civile, rappresentando i drammi della società dei nostri giorni. Raccoglie e interpreta il dolore dei migranti che affidano il loro sogno di riscatto al mare aperto (“Con un mare ondoso, non di tomento ma d’inganno e le frontiere non c’erano più”), ad una fragile imbarcazione che troppo spesso si rivela ferale traditrice (“Nella traversata il legno s’incrinò come le coscienze putride”). Così il mare, lungi dal rappresentare un ponte su cui traghettare il sogno di una vita migliore, diventa “conca di morti acquitrino di angosce culla di dolore abissale”.

Nella preghieraNon si chiudano quei sacchi neri seppur la vita ha esalato gli ultimi spasmi” si sente l’eco del tormento che fu già di Ungaretti di fronte all’orrore della morte (“Cessate di uccidere i morti”) poiché la fine della vita diviene ancora più terribile se non viene onorata con una degna sepoltura e accompagnata dal cordoglio. Dice Spurio:E oggi non dovete chiudere quei sacchi: lasciate i miei fratelli vicini a me” affinché il sacrificio di queste vittime, vittime di una guerra invisibile eppure profonda e atroce, vittime della diseguaglianza che alberga in un villaggio globale che unisce i popoli ma purtroppo contempla ancora periferie e diseredati, diventi momento di riflessione e compartecipazione che ci ispiri nel profondo dell’anima il sentimento della solidarietà autentica.

Costruivo zattere con legni scheggiati nelle notti assolate di Dicembre. Avrei solcato fiumi e mari, spingendomi oltre in territori mai svelati da nessuno”. Il migrante è un novello Ulisse che cerca nuovi mondi e diventa l’emblema dell’uomo “del nostro tempo” che non ha più mondi geografici da scoprire ma diverse realtà da sperimentare.

La poesia di Spurio continua a dare voce ad altre vittime, quelle della guerra in Siria (“Provate voi a vivere col sangue, bere e lavarsi col sangue, irrigare col sangue e insanguinare se stessi”).

Il mare, teatro dell’odissea dei migranti, non è uno sfondo disanimato, ma mostra una sua vitalità compartecipe delle sofferenze che in esso si disciolgono fino ad alterarne il colore (“Oggi il mare si è tinto di rosso”) e modificarne la sostanza (“La vostra vita dispersa nelle acque dimora in ogni molecola di mare”).

Emerge dalle liriche di Spurio l’idea costante di una liquidità che nasce dal mare ma coinvolge tutta la natura (“Ora il monte si scioglie, rende humus liquido…”) fino a penetrare nella stessa sostanza umana (“… appiccica imbratta s’infila e costringe alla fuga delle idee più ancorate”, “tracima acqua in ogni dove ed è impossibile contenerla: la vita è una spugna che si sfilaccia e da lì scola all’infinito la sostanza dell’essere”).

E la liquidità di cui il mare è un emblema travolge anche le tradizionali partizioni, abbattendo i cardini dei tradizionali punti di riferimento spazio/temporali in un disorientamento “liquido” che è diventato una delle cifre caratterizzanti dei nostri giorni: “Questo mare ha succhiato il tempo e lo ha portato disgiunto da me, oggi che quest’arsura di memorie lacera una soglia d’acqua che prima sapevo riconoscere e oggi si è sciolta”.

La seconda parte, “Ecchimosi”, affronta dapprima il rapporto dell’uomo con la madre terra, violata dall’uomo nella sua corsa inarrestabile e dissennata verso un’idea di progresso che ha già causato danni incalcolabili. Nella lirica d’apertura “Colloquio”, la terra è personalizzata (“Lei era ferma e imperturbata mi guardava crostosa con orgoglio e una velata sufficienza: non avrebbe mai temuto niente, perché essa era l’unicum di tutto”): è la Gea pagana a cui l’uomo consapevole delle proprie colpe si rivolge (“M’inginocchiai e baciai la terra chiedendole scusa”) pronto a fare sacrificio di sé pur di ritrovare l’intimo contatto, l’unione osmotica e primordiale  di un ventre materno  (“impastai terriccio a saliva e nel mentre dall’alto una pioggia acuminata m’infilzò dappertutto e mi rigenerò”) da cui rinascere.

Si passa poi a ricordare il disastro di Chernobyl (“Qui la terra è offesa e non vuol essere, si sopravvive allo sfacelo nel solo canto ossuto delle betulle dalle vermiglia carni”), i terremoti del centro Italia (“E tu ti chiedi perché qui è un camposanto di crepe e l’asfalto ondula improvviso come una coperta sfilata”) fino a celebrare  il sacrificio di Reyhaneh Jabarri (“Una condanna alla pena d’esser donna nel mondo”), la strage di Peshawar (“Anime dannate, chi recide il fiore e ammazza il sole, s’ammanta di disprezzo e contamina il mondo”), il ricordo del sacrificio delle diciannove donne curde bruciate vive (“Lamento per le donne yazide”), le stragi di Bruxelles ed altri episodi esecrabili che testimoniano la ferocia dell’uomo che, per ricordare Quasimodo, è schiavo di una “scienza esatta persuasa allo sterminio, senza amore, senza Cristofino a concludere “Osservate il buio sulla terra tra i cavalcavia del disprezzo: l’uomo ammazza se stesso. Tutto è vano, non ci si salva nei solchi e nel pietrisco”.

Lorenzo Spurio

“Dedicatio”, terzo segmento della raccolta, contiene liriche dedicate a poeti famosi: Antonia Pozzi (“Tra le pareti dischiuse uno specchio lamenta il vero quando canti alla notte e la luna sbriciola sicurezze”), Federico García Lorca (“Quando sfioro il viola acceso che tinge il bianco estasiante  nella magnolia, parlo con te”), Amelia Rosselli (“Hai scorso di colpo il percorso: il foglio che centrifuga il mondo non l’hai lasciato vuoto”), Alda Merini (“Tra le zolle di una mente che traballa ho visto il cuore che si sviscera con la parola più facile e prismatica”), Gian Mario Maulo, Julio Monteiro Martins, Renato Pigliacampo. Trova spazio in questo Pantheon di poeti cari a Spurio anche l’omaggio al Giudice Rosario Livatino (“Livatino, che sangue desti non sai che le belve dello zolfo prosperano e affollano vie; della Procura il palazzo, fermo ammasso grigio di roccia”), che costituisce un trait d’union con la vena ispiratrice di Spurio legata all’impegno civile.

L’ultimo momento della silloge, o meglio “movimento”, visto che le quattro parti in cui si articola non costituiscono segmenti separati e non comunicanti, piuttosto richiamano l’idea musicale di una successione di piani tonali che si sviluppano da un tema, come la sonata, è “Pareidolìa”.

La citazione di Fedro posta in aperturaNon sempre le cose sono come sembrano, il loro primo aspetto inganna molti: di rado la mente scopre che cosa è nascosto nel loro intimo” richiama l’etimologia del termine ripreso nel titolo e soprattutto allude alla funzione che per Spurio è propria del poeta e che è sviluppata in “Sembianze del poeta”: saper guardare oltre il visibile per dare voce all’invisibile (“In lui domina un senso non consapevole che squarcia con lame inarrestabili”).

Questa lirica, che si configura come una vera e propria dichiarazione di poetica, delinea i tratti di un poeta svincolato dalla tradizione classica (“Ha smesso di far rimar cuore con amore e deturpato il verso fisso stridendo rime e rompendo schemi di cemento”), esploratore della vita (“Il poeta è un incauto inclemente perché spazia tra scaglie di vita e lunghe autostrade pericolose”), che “Non dice, ma sa non pensa, ma costruisce”, che “Solidifica il vacuo e materializza l’aeriforme in caleidoscopiche esplorazioni di vita”, guidato da una ricerca inesausta del significato autentico della vita.

Pensando alle parole di Alda Merini,La Poesia è la pelle del poeta” possiamo dire che in questa ultima sezione Spurio si mette a nudo e si consegna agli estimatori della sua poesia senza riserve. Il poeta è colui che sa veder oltre l’apparenza ingannevole, che sa dare voce all’ineffabile e forma all’indefinito: ciò che sembra indecifrabile agli occhi della mente diventa suggestione per un’anima poetica.

Non chiedere il senso” ci esorta Spurio con pennellata montaliana nella poesia che chiude la silloge, e si congeda dal lettore con l’invito a “correre a perdifiato tra i filari e gli aghi di brezzaper assorbire dentro di sé la bellezza della natura e riconoscersi “una docile fibra dell’universo”:

Slega il buio all’istante: corri e/ ruba le forme più belle, ad esse/ congiungi le idee che s’alzano, / corri: ora sei quello che vuoi.

 

Written by Fabia Baldi

 

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