Intervista di Pietro De Bonis a Leila Tavi ed al suo “Vietato pensare a colori”

Uberti guarda Elisabetta, la ragazza sente lo sguardo magnetico dell’uomo su di sé. Uberti le sorride: «In questo gioco che stiamo facendo, adesso, abbiamo invertito il rapporto usuale tra l’oggetto e la luce. La luce non è più solo lo strumento con cui posso guardarti, è diventato il soggetto attraverso cui i tuoi occhi, i tuoi capelli, la tua pelle, messi a nudo dalla luce, diventano ipnotici, violenti, fanno sì che l’osservatore, suo malgrado, si immerga nella diversità e ne veda la prossimità, lo slancio, l’attrazione, la nudità, l’allontanamento, la stanchezza.

Leila Tavi è nata a Roma e vive tra Vienna, San Pietroburgo e l’Italia. Dottoranda in Storia dell’Europa Orientale all’Università di Vienna e a Roma Tre, collabora come pubblicista per la rivista InStoria ed è membro dell’associazione “100 Autori per il cinema”. Di prossima pubblicazione con la GB Editoria il suo secondo romanzo autobiografico “A est del Danubio”.

Ma oggi parliamo di “Vietato pensare a colori”.

 

P.D.B.: Ciao Leila! “Vietato pensare a colori” (Ginevra Bentivoglio EditoriA) il tuo libro, a dispetto del titolo però è un racconto pieno di colori, ce ne vuoi parlare?

Leila Tavi: In “Tempi Moderni” come quelli che stiamo vivendo ricreare in spazi artificiali i colori e gli odori della natura ci fa illudere che non ce ne stiamo allontanando, che non ci stiamo disabituando al rapporto ancestrale che abbiamo con essa; vediamo i colori ormai filtrati attraverso i cristalli liquidi di uno schermo, su cui, se premi forte il dito, ancora il colore si dissolve per un secondo in piccole macchie psichedeliche. Il colore è come un mood fotografico dell’anima, più sfaccettature e pigmento ha la tua anima, meno possibilità hai che si atrofizzi.. ma la società contemporanea tende ad anestetizzare l’anima, che diventa come gli asfittici globuli rossi di chi è anemico, sbiadiscono e diventano più piccoli… Quella dei due protagonisti del libro è più un’inconsapevole lotta, ognuno a suo modo, per non lasciar sbiadire l’anima e il divieto a pensare a colori è naturalmente una provocazione; proprio come quando si vieta qualcosa ai bambini, è il modo giusto per spronarli a farla quella cosa.

 

P.D.B.: Qual è la “giusta” luce? E dove si rifugia secondo te?

Leila Tavi: Non esiste una giusta luce, pensiamo a quando la luce entra in un prisma e ci fa vedere i colori; allo stesso tempo il prisma causa la dispersione ottica, che produce un’aberrazione cromatica che, a sua volta, può causare una distorsione dei colori. Noi osserviamo perciò qualcosa attraverso il prisma che in realtà non esiste… caleidoscopio significa in greco “vedere bello”… un po’ quello che ci succede nella fase dell’innamoramento. La luce è spesso associata a pensieri mistici, alla creazione, all’inizio di tutto e alla fiamma della vita e con tale accezione la intendiamo come acromatica, con un unico attributo: l’intensità luminosa. Una luce così però ci fa conoscere solo le gradazioni di grigio tra il bianco e il nero; i due protagonisti della storia invece giocano con la policromia, utilizzando un accostamento audace, fuori dagli schemi, che ognuno di loro si è imposto come ordine. È difficile per la luce rifugiarsi; ci si rifugia nelle tenebre, che sono l’antitesi della luce. Se per un attimo invertiamo i ruoli e non pensiamo alla luce come strumento che ci permette di osservare il mondo esterno e la analizziamo come soggetto della nostra indagine, allora ne comprendiamo le potenzialità, sia come strumento di lavoro per i cosiddetti “architetti della luce”, che come gioco terribilmente seducente che ci permette d’immergersi nella diversità dell’altro, di vederne la prossimità, lo slancio, l’attrazione, la nudità. Attraverso la luce, i due protagonisti si osservano e percepiscono la relazione endogena dell’essere fisico e la paura che la fisicità del mondo incute nell’animo umano.

 

P.D.B.: La ricerca ostinata di un principe azzurro fa male alle ragazze, Leila? Colpa dei racconti delle nonne? Che colore ha l’Amore nel tuo romanzo?

Leila Tavi: Questa domanda mi fa un po’ sorridere perché pensavo che la figura del principe azzurro appartenesse al passato. Prova a chiedere a una ragazza di oggi come intende l’uomo ideale, certo non lo immagina a cavallo e con il cappello piumato in testa e, soprattutto, nessuna giovane donna sarebbe disposta ad aspettare come Penelope o come facevano le nostre nonne una volta. Sono convinta che le ragazze di oggi neanche abbiano un canone di uomo ideale, vivono le loro emozioni, come una volta le nonne vivevano i loro sentimenti perché era loro proibito vivere le emozioni. Quanto a mia nonna, ho conosciuto solo quella materna e di favole non me ne ha mai raccontate, passava le giornate a suonare il pianoforte e di lei ho un ricordo di donna molto emancipata per i suoi tempi. Forse sono più gli uomini a essere rimasti nostalgicamente aggrappati alle favole e al pensiero che ci sia una donna disposta sempre ad aspettarli, anche quando partono per nuove avventure… Confesso che mi ha fatto un certo effetto, qualche tempo fa, quando mi è capitato un uomo che, almeno a parole, ci ha provato a farmi pensare a lui come a un principe azzurro… Ha un po’ farfugliato, ha confuso la storia di cenerentola con quella della piccola fiammiferaia, ma è stato così gentiluomo, non mi era mai capitato… credo che faccia effetto a ogni donna ricordarsi che, almeno nei sogni, esiste un potenziale principe azzurro… Adoro cavalcare, mi piacerebbe perciò arrivare con il mio destriero grigio fino a una torre. Perché no? Perché non potrei essere io a liberare il mio principe azzurro? Penso che tante donne vorrebbero fare lo stesso, smettere di aspettare ed essere intraprendenti, ma ciò, nonostante i “tempi moderni”, ancora spaventa tanto gli uomini. In un certo senso ho già risposto quale colore ha l’amore nel mio romanzo, è policromo, ma più che di amore si parla di passione, anzi di passioni: per la vita, per il lavoro, per un ideale in cui credere e poi si parla di affinità elettive, a volte declinate in passioni travolgenti e dolorose, a volte in sentimenti sublimati.

 

P.D.B.: Chi è un lighting designer?

Leila Tavi: Un lighting designer, grazie alla sua creatività, plasma la quarta dimensione dell’architettura attraverso l’illuminazione, sia che valorizzi un sito archeologico che un complesso architettonico futuristico. Durante la scrittura del romanzo ho intervistato e ho mi sono avvalsa della consulenza di Luciano Stignani, uno dei più conosciuti lighting designer italiani. Diciamo che siamo buoni vicini “di studio”, il suo atelier è a pochi passi dalla mia università e quando, tre anni fa, ero in cerca di un’ambientazione originale per la mia storia, mi sono fermata a osservare dalle vetrine che cosa stesse accadendo in quel mondo sconosciuto, pieno di luci di ogni forma e colore, che mi aveva sempre attratta e improvvisamente mi è venuta l’ispirazione… Luciano è stato paziente e disponibile con me; pur essendo una persona molto riservata si è prestato al gioco e ha creduto nel mio progetto un po’ strambo di romanzo pseudo sceneggiatura, con una narrazione a movimenti ondulatori, continui e irregolari, come la luce, a due diverse velocità, e con uno schema inconsueto rispetto a un romanzo tradizionale.

 

P.D.B.: Dottoranda in “Storia dell’Europa Orientale”, ti affascina la cultura orientale?

Leila Tavi: Se per Oriente intendiamo quella parte che si trova a est della Russia europea e che comprende l’Asia Centrale, crocevia di popoli e culture diversi ai tempi del commercio della seta e scenario affascinate del “Great Game” di fine Ottocento, sì quell’Oriente così vicino all’Europa mi affascina enormemente, adoro gli usi e i costumi che non sono cambiati di appendere i tappeti alle pareti, di bere il tè dal samovar, di affidarsi agli sciamani. Pensa al fascino di poter attraversare un deserto che una volta era un grande lago con i cammelli e con gli Akhat-teke, gli eleganti cavalli di origine turcomanna. A questa cultura orientale europea sono abituata, con una figlia per metà slovacca e con una passione per la Russia multietnica del periodo zarista. 

 

P.D.B.: Dove possiamo trovare il tuo “Vietato pensare a colori”, hai in vista presentazioni?

Leila Tavi: I volumi della Gb EditoriA (www.gbeditoria.it) sono reperibili sia attraverso i canali on-line che attraverso la distribuzione tradizionale nelle librerie. Il 24 novembre presenterò Vietato pensare a colori al Centro culturale GP2 di vicolo del Grottino 3b (http://www.gpdue.it/index.html) alle 20.30. Vi aspettiamo! Grazie Pietro per l’intervista, spero di poter chiacchierare presto con te per l’uscita del mio secondo libro A est del Danubio, dove l’Oriente, questa volta europeo, diventa protagonista della mia storia, ma anche delle storie di tanti altri che ho incontrato durante il lungo periodo trascorso tra Vienna e Bratislava.

 

 

“Quando un’intervista vista l’ora è appena finita, una nuova intervista è appena iniziata. Un’intervista per amare, per sognare, per vivere…”

Written by Pietro De Bonis, in Marzullo

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