“Oro: Opus Alter”, degli Ufomammut – recensione di Emanuele Bertola

Concettualità, minimalismo e tensione, ingredienti perfetti per un viaggio terrificante. Perchè spesso quel che fa più paura non è ciò che si vede, ma ciò che viene lasciato all’immaginazione…

Alcuni anni fa un giornalista che stava intervistando Stephen King, dopo aver sottolineato la prolissità delle descrizioni del maestro dell’horror, decise di lanciargli una sfida, chiedendogli se fosse stato in grado di riassumere un horror in una sola riga. Lo scrittore, accettata la sfida, se ne uscì con la citazione dell’incipit di “Toc, toc”, romanzo di Fredric Brown del 1948, e che racchiude l’essenza stessa del terrore: “L’ultimo uomo sulla Terra è chiuso nella sua stanza. Bussano“. Inutile dire che la sfida è stata ampiamente vinta, ma la cosa più interessante è il concetto che sta dietro alla genialità della risposta, il risultato raggiunto con il minor utilizzo possibile degli strumenti (in questo caso le parole) è efficace tanto quanto – e per certi versi anche di più – quello raggiunto con fiumi di parole e descrizioni lunghe pagine intere, che sicuramente regalano un’ambientazione eccelsa, ma sostanzialmente altro non sono che un contorno, particolari affascinanti che aiutano la narrazione ma non intaccano quella tensione dettata da pochi, essenziali, elementi.

L’essenzialità e il concetto di “minimo indispensabile” sono alla base anche di un progetto musicale italiano particolarmente significativo, quello degli Ufomammut, terzetto piemontese nato sul finire degli anni ’90 che affonda le sue radici in una delle branche più intriganti dell’universo metal, quella del doom metal, deviazione oscura del genere caratterizzata da una sorta di psichedelia nichilista che afferra per la coda una rumorosità di Sabbathiana memoria e la trascina giù, nel profondo di cavernose inquietudini, in una caliginosa palude sonora in cui a farla da padrone sono vibrazioni potenti e ritmi tirati. Iniziata lungo i sentieri dello stoner rock e proseguita già nei primi anni verso deviazioni rumoristiche e suoni cupi, la carriera degli Ufomammut arriva nel 2005 ad un punto di svolta artistica: con l’uscita di “Lucifer songs” il terzetto di Tortona abbandona sentieri definiti a favore della sperimentazione più totale. Inizia così un processo alla ricerca delle sonorità essenziali verso una sorta di purificazione musicale ed espressiva a cui già miravano grandi nomi del rock progressivo – scontato citare Pink Floyd e Gong, ma tant’è – e soprattutto quelli più rumoristici del lato oscuro e nichilista del kraut-rock.

I tre hanno appreso splendidamente la lezione floydiana, ma soprattutto hanno trovato il modo di adattarla al genere a loro più congeniale, e dopo cinque album e altrettanti progressivi addentramenti verso il cuore pulsante del suono, nell’aprile di quest’anno hanno dato alla luce “Oro: Opus primum“, primo capitolo di un’opera dedicata all’alchimia ed all’aura di mistero e magia che essa evoca, a cui segue dopo pochi mesi “Oro: Opus alter“, pubblicato a settembre. L’atmosfera cupa è ancora una volta alla base della composizione degli Ufomammut, che con il primo capitolo danno un taglio netto ad inutili contorni con brani mai così scarni, mostruosamente scheletrici e allo stesso tempo densi di atmosfera e palpitazioni, mentre con “Alter” compiono un leggero passo indietro nel processo di scarnificazione, giustificato a pieno dall’aggiunta (con il contagocce, sia ben chiaro) di musicalità quanto basta per lasciar filtrare un accenno di luce tra i bui anfratti del doom più profondo che i piemontesi abbiano mai esplorato. Un filo di luce che però altro non fa che aumentare la tensione, per 5 brani che assumono le sembianze di inquietanti paure, per nulla scalfite da un singolo fioco raggio di luna e che scuotono ad ogni passo, partendo in sordina, come i tre ci hanno abituato, per poi esplodere in veri e propri deliri drone da tachicardia.

Il viaggio iniziato con “Opus primum” riprende esattamente da dove era terminato, il vibrante crescendo di “Orborus” si porta dietro brandelli del suo predecessore e chiarisce da subito che non sarà certo una passeggiata: la batteria detta un tempo solido, e le distorsioni dei synth la fanno da padrone creando vortici sonori da cui è difficile uscire. Si prosegue con “Luxon”, rumoroso rullo compressore che avanza con un incedere soffocante tra chitarre monocrome e un noise granitico. “Sulphurdew” parte soft, con effetti sintetici eterei, quasi sognanti, prontamente trascinati a terra dalla massiccia combinazione di ritmiche violente, rumore sordo al limite della cacofonia e volumi altissimi. Una scossa di terremoto in musica che anticipa i colpi serrati e pesanti di “Sublime” e il devastante sludge di “Deityrant”, conclusione nerboruta e secca che non lascia scampo e mette knock out definitivamente.

Ennesimo lavoro coraggioso per la band piemontese, ed ennesimo esperimento riuscito. “Oro: Opus alter” è un album solido, a sè stante anche se parte di un’opera più ampia, più armonico del precedente (per quanto di armonico ci possa essere in un macigno sonoro come questo) ma non per questo un passo falso del progetto di scheletrizzazione del suono. Il sound resta comunque quello strettamente legato al genere, ma nonostante ciò le idee sono fresche e originali; il risultato è un disco incredibilmente denso, che lascia intravedere il minimo indispensabile lasciando tutto il resto all’immaginazione dell’ascoltatore, proprio come i migliori horror. E dopo averlo ascoltato non stupitevi se sentirete il bisogno di dormire con la luce accesa questa notte…

 

Written by Emanuele Bertola

 

 

Tracklist

1. Oroborus

2. Luxon

3. Sulphurdew

4. Sublime

5. Deityrant

 

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