“Haze Il Muro” di Shinya Tsukamoto – recensione di Pietro Pisano

Se dovessi stilare una ipotetica classifica di pellicole che più mi hanno colpito negli ultimi anni, per originalità, potenza simbolica e impatto filmico, Haze-Il Muro di Shinya Tsukamoto, rivestirebbe senza dubbio una posizione di tutto rispetto, insieme ai deliranti capolavori di David Lynch.

La visionarietà del film in questione, di appena 49 minuti, poco concede al cinema inteso come dramma e racconto (senza nulla togliere a questa idea di cinema), ma recupera invece la dimensione perturbante e fantasmatica del cinema, il suo essere composto principalmente da immagini che veicolano un discorso a sé rispetto al potere della parola.

Un cinema quindi composto di sogni, visioni perturbanti, paure recondite dell’animo umano, senza che questi elementi siano subordinati alla necessità di raccontare per forza di cose una storia e ai dettami di una coerenza mimetica nei confronti della realtà. Il regista giapponese del resto è diventato presto un autore di culto per l’indimenticale Tetsuo : The Iron Man, film sperimentale e quindi vicino in questo a Haze.

Dopo queste doverose premesse è possibile riassumere il plot di Haze nel seguente modo: un uomo senza nome colpito da una grave amnesia, si risveglia senza sapere il perché in un luogo buio e claustrofobico, intrappolato tra pareti che a malapena gli permettono di respirare.

Questo è tutto quello che è dato sapere all’ignaro spettatore che insieme al protagonista è letteralmente gettato nell’oscurità più totale: il buio è così profondo che distinguere bene quello che avviene sarà un’impresa a dir poco impossibile, soprattutto nei primi minuti della pellicola.

È abbastanza evidente, fin dall’inizio, che questo buio assume una funzione simbolica di primissima importanza, insieme alle pareti claustrofobiche (i muri) in cui il protagonista si ritrova a dover essere imprigionato.

Ben presto egli si chiederà come sia finito in un luogo del genere e allora le ipotesi si moltiplicheranno nella sua mente confusa e terrorizzata: c’è stata una guerra di cui egli non ricorda l’inizio? Oppure è stato imprigionato da un ricco pervertito che sadicamente si diverte a guardarlo strisciare nell’oscurità, in un luogo inaccessibile al mondo esterno?

È vittima di un sogno fin troppo realistico da cui non riesce a risvegliarsi? Quello che il nostro protagonista riuscirà a scoprire a sue spese, procurandosi svariate ferite, è che il luogo in cui si è risvegliato, si dimostra essere ricco di trappole e insidie, costruite ad arte per torturare, uccidere chiunque vi si ritrovi imprigionato.

Il protagonista scoprirà che anche altri uomini sono nella sua stessa condizione e vedrà lacerati tramite alcune misteriose lame i corpi inermi dei prigionieri. L’incontro con una sopravvissuta, una donna affetta anch’essa da amnesia, sembra infondere un po’ di speranza, al desiderio di fuggire da questo incubo senza fine.

Senza voler entrare troppo nei dettagli del film, è possibile ribadire invece, a partire da quanto detto, la natura eminentemente simbolica della condizione del protagonista. Nemmeno la parola fine getterà luce sulla sua vita passata o su come egli sia giunto nel luogo in cui si risveglia ad inizio della pellicola. Abbiamo solo brandelli, spezzoni sconnessi che non s’incastrano bene tra di loro, disposti in una sequenza priva di coerenza, cosicché anche dopo che il film è terminato, lo spettatore non riesce a chiarirsi nulla ma anzi rimane più disorientato di prima, costretto a farsi ulteriori domande.

La situazione kafkiana dell’uomo, privato ormai della sua identità, spogliato del suo passato, in un luogo buio e del tutto ignoto ci porta a riflettere filosoficamente sulla condizione umana, sulle paure più profonde e inconfessabili dell’uomo, su un destino tragico e crudele, sul non senso dell’esistenza. Sarebbe inutile, cercare di districare i nodi di cui è composto il film, poiché il regista ha voluto porre l’attenzione dello spettatore proprio sul mistero e la mancanza di senso, in una parola, l’assurdo.

Tanti i momenti degni di nota ma ce n’è uno in particolare di un’incredibile intensità; è quando la donna, l’altra protagonista del film, si addormenta senza accorgersene per pochi secondi, dicendo al proprio risveglio, di aver sognato di essersi svegliata in una stanza. E allora in un crescendo di forti emozioni, forse ricordi intermittenti la donna dice “mi sono sentita sola. È stato come ritrovarsi in un posto come questo. Faceva paura”.

Questo per dire, come Haze sia un film che mostra in maniera brutale, visionaria, la solitudine dell’uomo moderno, che paradossalmente riesce a parlare di un disagio reale, raccontando di noi pur senza narrarci nulla, interrompendo ogni pretesa di coerenza mimetica nei confronti del reale. Se proprio si vuole inquadrare la pellicola in un genere codificato, potremmo parlare di un horror sui generis, ma si tratta appunto di un’approssimazione di poca utilità, per un film che ci scaglia nel mistero senza alcun filtro narrativo convenzionale e com’era prevedibile continua a gettarci nel buio più assoluto anche quando cerchiamo di definirlo, lo stesso buio che ci ha sommerso all’inizio, in compagnia del protagonista.

 

Written by Pietro Pisano

squall_lionheart14@libero.it

 

 

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