La percezione del mondo e l’astratto: i libri sono più reali dei social network?

Mi rendo conto che si tratti di un’affermazione non priva di assurdità, ma partiamo dal presupposto che leggere faccia male. Detto da una ragazza che ha tre scaffali di libri e vive da solo un mese a Melbourne, probabilmente non suona come un pensiero coerente, ma tant’è: leggere fa male.

Books

Ci pensavo ieri sera, mentre prendevo la metro per tornare a casa dopo aver visto Le Cirque de Soleil: ho osservato per quasi due ore persone che probabilmente hanno la mia età e si contorcono a mezz’aria al suono di tamburi e non ho potuto fare a meno di chiedermi che senso abbia quello che faccio, la ricerca letteraria.

Che il mondo sia un luogo concreto, pratico, è innegabile: si basa su numeri, logaritmi e calcoli che scavano sempre un po’ più a fondo nel potenziale dell’ignoto. Chi va avanti, oggi, lo fa grazie a competenze pratiche, che si tratti di fare contorsionismo o di programmare un Apple. Si cercano utilità immediate e reali, monetizzabili in modo semplice. E tutto questo ha un senso, lo capisco bene: è utile.

Le parole non sono concrete, così come non lo sono i pensieri in letteratura. I libri sono concreti ancor meno, per non parlare poi delle arti poetiche. Esiste qualcosa di meno monetizzabile dei versi? Esiste forse qualcosa di più ‘praticamente inutile’ di una rima? Probabilmente, no. Non ci si fanno i big money, con le vocali e le virgole, e non ci si può ‘costruire’ nulla: né un business, né una vita. I versi sono versi: i libri sono lo sfogo di un’anima messo in una forma relativamente corretta. La parola scritta e rilegata è qualcosa di personale e inutile, fine a se stessa e al sollievo di chi l’ha concepita.

Però, riflettendoci, cosa c’è di più concreto delle parole: cosa c’è di più immediato, reale e tangibile dei pensieri che di trasformano in simboli, siano essi scritti o vocali, perché qualcun altro li possa comprendere? Cosa c’è di più reale del comunicare? Cosa c’è di più utile? Dove andremmo, se non comunicassimo?

Allora, mi sono trovata a dover riformulare il problema: le parole sono utili, ma la letteratura no. Quella no.

Mi spiego meglio: che senso ha fare ricerca in campo umanistico, nello specifico letterario? Dove ci porta? Quali mondi ci apre? Quante possibilità di rientro economico e concreto ci sono? Al di là dell’aspetto economico, che cosa c’è di pratico nel finanziare una ricerca letteraria e culturale? La cultura, in fondo, è come un libro: sollievo di un’anima che cercava qualcosa, ma non elemento concreto e condivisibile.

Ero ferma davanti al mio binario, immersa in uno di quei momenti che mi prende così, senza preavviso: che senso ha la mia vita, in un’ottica socialmente utile?

Quello che dico spesso è che bisogna avere un impatto positivo sul mondo e su chi ci circonda: bisogna prendere ciò che c’è e far sì che coloro che verranno dopo di noi trovino qualcosa di meglio di quello che abbiamo trovato noi. Bisogna mettercela tutta, in ogni secondo, perché solo così si può sperare di costruire una società serena, funzionale, capace di andare avanti. E allora che senso ha, in quest’ottica di un bisogno imprescindibile di utilità sociale, quello che faccio io? La ricerca letteraria dove porta, a chi serve, cosa lascia a chi verrà dopo di me? Io, ai miei occhi, che senso ho?

Chocolat

È una domanda con la quale non so come abbiano potuto convivere tutti quelli che sono venuti prima di me. Quando ho posto lo stesso quesito in un gruppo di scrittura di cui faccio parte, la risposta è stata: «Non a caso tanti intellettuali erano depressi o si sono suicidati». Insomma, se si fa letteratura non ci si sente utili, in un mondo che valuta le cose secondo un’ottica pragmatica. È quest’inutilità che rende chi ama l’arte più fragile, più insicuro? È un’inutilità sensata? Una fragilità ben motivata?

Mentre la metro arrivava, ho preso un libro. Sto leggendo Chocolat per rilassarmi, in questi giorni. E anche perché con questo clima, che della primavera proprio non ne vuole sapere, l’unica lettura ‘giusta’ è Chocolat. Tirava vento, la metro stava arrivando e io ho aperto il mio libro.

Ho sentito il profumo di cioccolata, mentre aprivo le pagine. Mi sono improvvisamente ritrovata a non avere più freddo. Ho sentito quella pace, tutta francese e dolce, che ho percepito anche quando guardavo il film. Mi sono sentita trasportare in un altro universo, più fitto di storie, più intrigante della fermata di una metro. Più familiare, soprattutto, di quella fermata di metro.

Mi sono seduta in uno dei posti liberi e ho continuato a leggere, cercando di prestare un minimo di attenzione alle fermate, ché non sarebbe la prima volta che una lettura mi distrae.

Quando è arrivata la mia fermata, ho sollevato lo sguardo: seduto davanti a me c’era un ragazzo che leggeva. Non sono riuscita a sbirciare il titolo del libro. “Perché non l’ho notato prima?” mi sono chiesta. “Avrei potuto chiedergli cosa sta leggendo”.

Il problema, in fondo, non è (solo) economico: sì, la ricerca letteraria non porta soldi come rientro a chi la finanzia, ma il problema è che noi lettori persi nelle parole, in mondi immaginari che si vogliono più veri di quello che ci sta intorno, tendiamo a vivere troppo nell’ideale. Quello che si dice spesso è che nelle metro c’è troppa gente che guarda lo schermo dello smartphone. È innegabile, ma cosa cambierebbe, se al posto di un telefono ci fosse un libro? Sarebbe comunque un elemento di separazione, un mezzo che ci spinge, tanto quanto la tecnologia, a vivere nella nostra conchiglia fatata.

Quello che penso è che non esiste una superiorità della cultura, nello specifico dei libri, nei confronti della tecnologia: WhatsApp è come una pagina fitta di parole. Quello che penso è che sia indispensabile, urgente e sensato far sì che tutti, oggi, si sentano utili e partecipi nella società. Bisogna trovare il modo di conciliare quelle che sono le esigenze economiche, culturali e individuali affinché tutti possiamo godere di una società migliore.

Credo che non sia la ricerca letteraria a dover rivendicare una sua importanza, né una sua utilità, e penso che non ci sia nessuna lotta tra il bisogno di leggere di più e la non-voglia di farlo che dilaga. Penso, piuttosto, che sia importante che nel mondo ci sia spazio per tutti.

Books – Social Network

Che a ognuno venga riconosciuto il diritto di fare ciò che sa fare meglio e che ama come lavoro, come occupazione che gli dà da vivere. Penso che nessuno debba porsi le domande che mi sono posta io e che sia ora di accettare che l’arte, in ogni forma, in ogni variante, sia linfa vitale.

Ma penso anche che occorra promuovere, incoraggiare e forse anche educare al contatto. Perché a prescindere da come si chiama l’apparecchio che ci distrae dall’altro, è innegabile che viviamo in uno stato perenne di distrazione: chi si immerge nei libri, chi negli scroll di Facebook, in pochi guardano negli occhi le persone che stanno accanto a loro.

Questo non è un vero articolo. Sono riflessioni sparse che toccano troppi temi e che vorrebbero sapere cosa ne pensano gli altri. Non voglio vendere il mio punto di vista, quanto ascoltare quello altrui e scavare a fondo in questo problema che si chiama vita irreale.

Cosa ne pensate? I libri sono più reali dei social? La scienza ha più motivo di esistere della letteratura? La vita a un senso in base all’utilità sociale che si ha? Scriveteci, se vi va, e inondateci di idee perché possa esserci uno scambio importante.

 

Written by Giulia Mastrantoni

 

 

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