“Dirty”, ep degli Stayer – recensione di Emanuele Bertola

Qualsiasi idiota può superare una crisi, è il quotidiano che ti logora“, così Anton Cechov appuntava nei suoi famigerati quaderni un pensiero che descrive in maniera superlativa la quotidianità e le sue paranoie. Erano i primi anni del ‘900, altri tempi, altre abitudini e altri modi di vivere, tuttavia certe cose non cambiano mai e portare le parole di Cechov avanti di oltre un secolo fino ai giorni nostri è fin troppo semplice. La quotidianità, oggi come allora, porta inevitabilmente con sè sentimenti cupi e un senso di insofferenza che opacizza l’esistenza e ci fa sentire sempre un po’ “sporchi”.

Dirty“, sporchi, titolo fin troppo azzeccato quello del quinto album ufficiale pubblicato dagli Stayer, trio nato in provincia di Udine sul finire degli anni ’90 dalle ceneri di Vitriola e Hurlyburly. i tre friulani scelgono di raccontare il quotidiano e tutte le sue sfaccettature con un EP di quattro brani in bilico tra noise-rock e new wave che anticipa un nuovo lavoro più corposo a quattro anni di distanza da “Better days”, album con cui nel 2008 avevano positivamente impressionato critica e pubblico.

Gli Stayer arrivano direttamente dagli anni ’80 e ’90, decenni in cui i generi musicali nella loro purezza erano ormai passato remoto, David Bowie e il post-punk avevano cambiato le carte in tavola da parecchio e con l’esplosione della new wave, del noise e del post-hardcore la linea di demarcazione che divideva la musica dal rumore si faceva sempre più sottile, è quindi scontato ma inevitabile citare i Sonic Youth, i Wire o i Bauhaus parlando delle sonorità da cui Alberto Rainis, Arrigo Cabai, e Jean Luc Beorchia traggono ispirazione, così come sulla tastiera sono logori i tasti che compongono le parole Talking Heads, ma è proprio di questi suoni e di questa musica che si parla, una musica che gli Stayer interpretano con una lineup – non assolutamente inedita ma perlomeno abbastanza anticonvenzionale – formata da batteria e due chitarre.

Niente basso quindi, il groove è affidato alle distorsioni chitarristiche e, per l’occasione, a synth analogici che aggiungono vibrazioni al sound già comunque compatto. Una batteria solida fa da base per un suono imbottito di rumori crudi e riverberi sintetici che creano un’atmosfera cupa e a tratti nervosa, atmosfera in cui i quattro brani dell’EP trovano il loro habitat perfetto, l’espressione musicale di un senso di insoddisfazione reso in maniera splendida dal baluginìo noise e dalla presa ombrosa della mescolanza tra chitarre e synth.

Ad aprire le danze c’è la title track, energico pezzo di impronta post-hardcore, con Cabai che alla fine dell’ennesima giornata di routine sembra parlare di fronte alla sua immagine riflessa nello specchio, descrivendo nervosamente quanto la quotidianità e i suoi costumi ci rendano limpidi fuori ma sporchi dentro, insoddisfatti e laceri, tanto da arrivare a chiedersi in modo ossessivo, quasi fosse un eterno incubo, “Is it always like this?”.

La successiva “Wrong” non abbassa il tiro, anzi, alle parole “What’s wrong with me?” la voce si fa più gracchiante, i riverberi delle chitarre si allungano e il risultato è un brano più energico del precedente e decisamente più noise, ma è con la terza traccia che l’album raggiunge l’apice: i synth vengono lasciati per un attimo in secondo piano e l’anima punkeggiante degli stayer esplode con “Hyacinth girl”, un pezzo composto tempo fa ma rimasto ancora inedito e che prende in prestito le più celebri parole di Thomas Stearns Eliot, quelle del suo “The waste land”.

La terra desolata, quella della civiltà moderna, martoriata e devastata dalle sue stesse follie, immagine di tempi fin troppo attuali che tra le mani degli Stayer si trasforma in 2 coinvolgenti minuti, con Beorchia in stato di grazia a picchiare sui tamburi un ritmo incalzante che fa tanto, tanto punk. Il disco si chiude con “Pretend”, una serie di domande tra l’esistenzialismo e l’ossessione, sparate su un noise d’annata, un po’ british e un po’ kraut-rock, che si conclude con la domanda delle domande, “How many times you pretend to be just yourself?”.

Un gran bello sfogo questo dei tre friulani, uno sfogo verso il mondo e verso sè stessi, uno sfogo irrequieto diretto ai sentimenti che hanno generato quello stesso nervosismo, in un circolo vizioso da cui è difficile uscire. Un album rumoroso al punto giusto che rende bene il sentore di inadeguatezza che aleggia su tutto il disco, ma che allo stesso tempo, grazie anche all’inserimento dei sinth, sa coinvolgere e affascinare con ritmi decisamente trascinanti.

Non resta che aspettare un Long Playing e vedere se gli Stayer sapranno colpire nel segno come con “Better days” ma, se le premesse sono queste, si può andare sul sicuro…

 

Written by Emanuele Bertola

 

Tracklist

1. Dirty

2. Wrong

3. Hyacinth girl

4. Pretend

 

Info:

http://www.stayertotalnoise.it/

http://www.myspace.com/stayertotalnoise

 

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