“Diario di un pazzo ‒ La vera storia” di Ah Q di Lu Xun: questo è il mestiere di vivere?
I giovani hanno da sempre cannibalizzato i vecchi, scavando dove quelli hanno costruito, giungendo a distruggerne le fondamenta. A volte però succede il contrario.

Quale narrazione di Lu Xun m’ha mutato di più, fra Diario di un pazzo e La vera storia di Ah Q? Passo alla seconda domanda. Quale motivo mi co-stringe, da anni, a tentare di intagliare, quasi fosse un idolo domestico, tipo i lari e i penati!, una mia reazione a qualsiasi opera letteraria da me ingerita, assimilata e infine espulsa? La risposta è covata in qualche angolo del Kósmo, nonché nel titolo del primo racconto di Lu Xun.
Chi m’obbliga? Il daimònion, sempre lui, l’infame che assurdamente mi spinge quasi ogni volta a elidere le vocali inutili. Ed è in quel quasi che io affido una fetta del mio destino. Non escludo che, in un immediato futuro, scioglierò nell’acido le e finali dei verbi: ci dovrei seriamente pensar! Scriver è una forma di pazzia! E legger lo è ancor di più. Gli icastici reggiani usano dire, a proposito di un giovane che non ne becca mezza, nonostante un’accurata preparazione professionale: a l à studiê trôp! Non è il mio caso, per fortuna. Però: a i ò leşû trôp! E so’ inscimunito. Per altro, la vita è un pronome clitico che rischia, talvolta, a diventare un conato eidetico, poco funzionale a livello pratico, ma essenziale nelle sue folli peregrinazioni.
Un termine reggiano per stupido è: nèsi, dal latino nesciens. Colui che non sa. In relazione a certe, pur banali, questioni dottrinali, del tipo: Dio esiste, ovvero no, un celebre filosofo affermava che lui sapeva di non sapere. Vorrei andar oltre, assurdamente: io non so nemmeno se, nell’alveo della mia psiche, so. Un detto campano che m’ha sempre colpito è: si veste da scemo per non ì a la guerra! Mi fingerei diversamente inabile se sentissi la necessità d’evitarla. Né m’uscirebbe l’ernia in tal caso, anche per via dell’età. Più essa avanza e più inabili siamo (e un po’ c’atteggiamo). Chi mi co-stringe (alla gola) a scrivere la mia reazione all’opera di Lu Xun? Tu, mio 26esimo e ultimo, infido lettore, mio folle, casuale epperò essenziale daimònion. Per te scrivo, mica per me! Se non ci credi sei un misero cretino (un pauvre chrétien), ancor più che un dissonante pazzo. Come sono io!
Due parole, anzi, tre su Lu Xun: è su linea. La quarta può essere: cèrcatelo. Al che aggiungo: ha una faccina simpatica, con quei baffetti!
Il primo racconto Diario di un pazzo, che consta di rade pagine, fu composto nel 1918, anno in cui diversi milioni di pazzi cessarono d’incanto d’ammazzarsi l’un l’altro. Presero una pausa, diciamo. La guerra è un cancro con metastasi e ricadute. L’umana pazzia non è da meno. Ci sono due fratelli, uno dei quali è ammalato, mentre l’altro crede d’essere sano. L’io narrante è amico d’entrambi. Quello sano mostra all’io narrante il diario del fratello, e ride, anche perché, in Cina, e lo conferma chi la frequentò, nonché dalle mie parti, pare che piangere faccia tre e ridere faccia tre.
Il titolo l’ha scelto, una volta guarito, l’autore (non del racconto ma) del diario stesso.
È un fatto vero? O è un’assordante fiction? O sono attestabili entrambe le teorie? Ogni disamina richiede due punti divergenti d’osservazione, un amalgama fra divergenti opposti.
“La scrittura era estremamente confusa e incoerente e l’autore faceva molte affermazioni pazzesche. Per di più non aveva annotato neppure una data e soltanto attraverso le differenze di colore dell’inchiostro e della calligrafia era possibile capire che non era stato scritto tutto di getto.” – bensì in vari rigurgiti. L’autore del diario ha però una fobia non del tutto inquadrabile. Nessuna lo è, d’altronde. Per motivi che sa solo lui (o che ignora persino lui), la copiatura delle pagine è necessariamente parziale. Ogni scrittura lo è. Sapessi, amico, quanto ho evitato di dire, e quanto ho cancellato di quel che ho scritto!
La lettera III inizia così: “Non dormo la notte. Ogni cosa deve essere esaminata con cura, se la si vuol capire.” – sto pensando a un collega che la sera, prima di uscire dall’ufficio, tornava ogni volta indietro a controllare il cassetto della sua scrivania: se era chiuso. Lo era. E il dubbio era ancora in lui allorché era lì lì per salire sul primo autobus che l’avrebbe condotto alla stazione delle corriere, in via Allegri. E avrebbe continuato a tormentarlo mentre il mezzo stava percorrendo la via Emilia. Non so se a casa sarebbe poi salito su un ascensore che l’avrebbe condotto all’uscio del suo appartamento. Lì avrebbe probabilmente percorso un corridoio che l’avrebbe condotto sa lui dove. E pure in quel fatale momento egli era probabilmente oppresso dal dubbio. Così m’andò narrando una grigia mattina.
Più o meno, è la medesima forma di pazzia che sta minando la mente dell’amico dell’io narrante. Talvolta è anche la mia. Due persone care diedero fuoco alla cucina poiché avevano lasciato acceso un fornello e poi s’eran recate dove dovevano recarsi. Anche il fuoco avrebbe seguito il suo percorso esistenziale. Danni ingenti occorsero in entrambe le situazioni. Il primo amico era assicurato, il secondo no, per cui i danni non gli vennero rimborsati. Non essendo io tutelato da alcunché, da un po’ di tempo do una seconda controllata che il gas sia spento, pur non scorgendo più alcuna fiamma. Al momento non ne do una terza, né torno poi in cucina a ri-controllare. Speriamo che il mio male di vivere rimanga stazionario!
Facciamola corta. L’autore del diario, che non è l’io narrante, che non è l’autore del racconto, si sente perseguitato. Da chi? Dall’uomo. Non esiste bestia che più dell’umana tenda a cibarsi dei propri fratelli di razza. Una volta lessi la cronaca di un assedio (il più celebre del XX secolo) a una gelida città, i cui abitanti erano ormai pelle e ossa, essendo rimasto in loco poco o nulla da mangiare. Uno di loro era rubizzo e in forma, nonché sorridente. Si scoprì poi che si cibava dei suoi concittadini, la cui carne magra, a suo dire, era deliziosa. Li invitava in casa a bere un caffè di cicoria. Fingendo d’offrigli lo zucchero, assestava loro, da dietro, una mazzata in testa. Ed è una metafora che può servire a comprendere l’incubo che attanaglia l’autore del diario, che non è l’io narrante e che non è nemmeno l’autore del racconto. Homo esuriens hominis!
Questo è il motivo che mi conduce ogni volta alla lettura. A Reggio Emilia dicono che ogni coglione ha la sua passione. A me non dispiace di nutrirmi dell’altrui esistenza.
Un detto pixuntiano è: quannu su muortu tinni fai nu tianu, quando sono morto te ne farai un tegame delle mie carni. Un bel dì mi cannibalizzerai, amato figlio mio!
A mero scopo statistico, indico che, nel racconto, i punti esclamativi sono meno rari di quelli interrogativi! Non ce ne sono tanti però come in Cassandra di Christa Wolf.
Passo al secondo, ben più esteso, racconto, dove i punti interrogativi sono assai più frequenti (ma anche in questo caso più sporadici che nel romanzo di Christa).
Chi è ‘sto Ah Q? È un uomo! Bella scoperta! È un uomo di cui non s’ignora compiutamente il nome. Ah Q è una sigla.
In che cosa crede Ah Q? In sé e poc’altro. Non ha diverse fedi, Ah Q? Se le ha, le tiene ammucciate dietro il suo sé, celate. In che modo interagisce con gli altri? Come gli riesce! Positivamente? Dipende, a volte vince e a volte perde: la società ha un’etica fondata sul conflitto, sulla competizione. L’esito, poi, quale sarà? Se Ah Q perde, cerca di darsi una giustificazione. Se vince? Se vince no. È una persona onesta? Cosa intendi quando dici onesta… sincera? Sì. Ah! Lo è? Lui immagina d’essere sincero, anche quando non lo è. Cosa gli manca per essere saggio? Faresti prima a chiedere cosa dovrebbe evitare d’avere per esserlo. Che cosa? La supponenza di chi crede di poter supporre! Non è come Socrate? Lui sa di credere di sapere di saper credere di sapere. Gli vuoi bene? Sì, essendo anch’io, talvolta, come lui. Anche oggi? Mah, meno di quand’ero giovane… Puoi migliorare? Forse, almeno finché non mi faranno fare la fine di Ah Q. Cioè? La fine che il narratore esemplifica al termine del racconto. Quando lo fanno fuori? Sì, mio spoiler. Cos’hai più apprezzato della vita di Ah Q? Mi pare sia… la consapevolezza che acquisisce allorché scopre di non essere capace “di disegnare un cerchio” – la nota dell’autore è che “gli tremava la mano”. Non tutti sono dei Giotto! Il difficile è accettare la realtà! Ma è così difficile?! Senti, amico, la vera “rivoluzione” è rendersi consapevoli dei propri limiti! Non è facile, vero? Per Ah Q andò diversamente.

Quindi, la sua tragedia inizia quando scopre di non essere affatto quel genio che s’illudeva d’essere? Sì! E lo salverà dalla fine atroce a cui è stato condannato? No. Allora? Non so. La consolazione che resta alla vittima dell’umana malvagità è forse di non essere come gli altri? Forse è proprio di capire di non saper disegnare un cerchio. É davvero così? Forse sì. Non capisco. Se tu capisci di non capire non sei lontano dalla verità. Le sono accanto? Non le sei troppo distante. Devo ancora camminare a lungo? Abbastanza. Ah! Camminare a lungo è lo scopo della vita di ognuno. Lo immaginavo! Passeggiare, da solo o al fianco di un filosofo, assorbire la saggezza altrui e talvolta dir la propria. Questo è il mestiere di vivere? É quello da esercitare fino alla fine. Alla fine di che? Dell’esistenza! Di doman non c’è certezza? Mi sa di no, ma non ci pensare più di tanto. Perché? Il perché non lo so, ma sento che è giusto, che è meglio così. Si tratta di una pura illusione? E chi può dirlo?!
E quel Cesare? Mah! Perché lo fece? Non lo so! Perché rinunciò anzitempo ai suoi due tristi occhi?! Volle forse evitare (per l’eternità) ogni sorta di domanda! Non ne capisco la ragione! Forse nemmeno lui! Quindi? Quindi tu non imitarlo… cerca piuttosto di tentare di comporre quel cerchio. Ci riuscirò mai? La risposta si sconta vivendo, mio caro.
Grazie! Di che? D’essere mio fratello. Se ci pensi è l’atto più semplice e problematico che c’è!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Lu Xun, Diario di un pazzo – La vera storia di Ah Q, Demetra, 1994