Contest di poesia e racconto breve “Versi di Sardegna Quarta Edizione”

“La Sardegna, terra di antiche tradizioni e straordinarie bellezze naturali, si distingue per la sua ricca produzione poetica. La poesia sarda, riflettendo le peculiarità linguistiche, culturali e sociali dell’isola, rappresenta un patrimonio inestimabile.” ‒ dalla prefazione di Franco Carta

Contest Versi di Sardegna Quarta Edizione
Contest Versi di Sardegna Quarta Edizione

Regolamento Contest “Versi di Sardegna Quarta Edizione”:

1. Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Versi di Sardegna Quarta Edizione” è promosso da Oubliette Magazine, dagli autori dell’antologia e dalla casa editrice Tomarchio Editore. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.

La partecipazione al Contest è gratuita.

Tema libero.

 

2. Articolato in due sezioni:

A. Poesia (limite 100 versi)

B. Racconto breve (limite 1000 parole)

 

3. Per la sezione Asi partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.

Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.

Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.

 

Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.

 

4. Premio:

N° 1 copia del libro “Versi di Sardegna Quarta Edizione” degli autori Alba Sanna; Annalisa AtzeniFabio MasalaFranco CartaItalo CappaiLaura Dessì;  Luisella Pisottu;  Maria Antonietta Manca;  Maria Cau; Maria Luigia UnidaOttavio CongiuRaffaele CiminelliTeresa Anna Coni e  Valerika Oliver (con Special Guest Marco Leonardi ed Aldo Turnu) ed edito a giugno 2025 da Tomarchio Editore (copertina di Simona Trunzo). Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.

 

5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 5 ottobre 2025 a mezzanotte.

 

6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:

Alessia Mocci (Editor in chief)

Franco Carta (Poeta e scrittore)

Giovanna Fracassi (Poetessa e scrittrice)

Simona Trunzo (Autrice illustratrice e collaboratrice Oubliette)

Rosario Tomarchio (Poeta ed editore)

Luisella Pisottu (Poetessa)

Maria Carmela Dettori (in arte Maricà, poetessa e scrittrice)

 

7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.

 

8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.

 

9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook.

 

10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.

 

11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.

 

Buona partecipazione!

 

67 pensieri su “Contest di poesia e racconto breve “Versi di Sardegna Quarta Edizione”

  1. Accetto il regolamento sez. a

    Il telefono del vento

    Ho messo all’orecchio
    una cornetta d’aria,
    credevo fosse vuota,
    invece parlavi tu.
    Il vento ti porta
    tra i rami e i tetti,
    sei voce, fruscio di foglie, è il tuo respiro
    che chiama il mio nome.
    Non serve linea,
    né filo né numero,
    solo restare in ascolto. Ti cerco,
    oltre il tempo e l’assenza,
    al telefono del vento
    il cuore ha sempre campo. Lorena Silvia Sambruna

  2. Accetto il regolamento, sez. b

    RaccontoLanzi e il manoscritto di Messer Matteo
    Manoscritto trovato dal Vice Commissario Lanzi dentro una anfora di argilla rotta da un agente sbadato durante la irruzione al domicilio di madama Kalima chiromante, presunta assassinata.
    Breve memoria scritta a difesa di Messer Matteo Sismondi dei nobili di Ferentino giureconsulto in partenza come console di Firenze presso il principe di Moldavia. Oggetto: la presunta interruzione della eulogia su Dante Alighieri poeta e filosofo autore della Divina Commedia tenuta alla biblioteca del convento delle Suore della Penitenza sito a Borgo Silva.
    Io, Folco Ludovisi scrivano di Messer Ranuccio Ghistolfi notaio in Firenze, ho fedelmente trascritto quanto narrato.
    “Io Messer Matteo Sismondi, prima di ritornare dalla Terrasanta, finito il mio impegno come Crociato, ricevetti da Mosè di Aleppo a cui avevo salvato vita e proprietà dalla violenza dei cavalieri di Fiandria, un manoscritto a sua detta troppo prezioso per cadere in mano ai musulmani.
    Detto manoscritto era scritto con caratteri così misteriosi che Mosè non sapeva leggerli. Pensava che risalissero ai tempi di Abramo. Così portai il manoscritto a un eremita siriano che viveva sui monti del Libano per timore di essere considerato eretico dai cristiani e anche eretico per i musulmani che avevano emesso una fatwa invitando i fedeli a stanarlo e ucciderlo.
    Il testo spiegava che per capire il grande segreto dell’universo, si deve considerare che non esiste un Creatore, ma un soffio vitale che si è generato da sé stesso. Soffio vitale che muove tutto e non cessa mai. Per l’uomo il segreto della esistenza è che dopo la morte del corpo, il soffio vitale si reincarna in un altro essere. Ogni uomo dopo morto si reincarna. Ma se rivivesse nello stesso modo vorrebbe dire che l’universo è immobile. Evento questo contradetto dai cambi fisici degli elementi che non permangono nel loro stato in eterno.
    I sapienti dei tempi di Abramo hanno capito che dopo morto ti reincarni in un nuovo corpo. Ecco dice il sapiente la visione nascosta di quanto comprese Abramo. Il soffio vitale che i cristiani chiamano anima viene trasportato in un luogo senza nome. Qui vengono raggruppati i buoni, gli ignavi mediocri, i cattivi. Tutti si reincarnano secondo i loro comportamenti ma nella vita futura possono cambiare. I buoni allettati dalla piacevolezza possono diventare peggiori. Gli ignavi comportatisi bene o male, e i cattivi avere la possibilità di migliorarsi. E quindi di nuovo quando morti cambiare categoria. Alcuni studiosi, come Ermete Trismegisto, hanno intuito questa verità e posta a base della alchimia per la trasmutazione della materia tramite affinamento.”
    “Di queste parole, esaltato nei pensieri da un buon rosso senese e dalla svelta figura di Angiolina servetta di tutti e nessuno, feci parte, stupidamente in una serata nella taverna di Mastro Pippo sulla strada di Val Sasso, a un giovane gentiluomo fiorentino che, sposo di una giovane di casa Donati, per contrasti di politica era stato esiliato da Firenze. Egli si recava a Padova per trovare lavoro. Il giovane Alighiero, Donante credo si chiamasse, aveva ascoltato quanto raccontavo del testo tradotto e mi aveva poi chiesto di poter prender appunti per i suoi studi.
    Ho saputo che questa indegna persona che aveva carpito la buona fede di un bravo uomo come me profittando che ero pieno di vino e svuotato di umori dalla bella Giannetta cortigiana di Piacenza, aveva trasformato il mio racconto in un libro titolato la divina commedia che gli aveva dato successo.
    Quando in seguito chiesi ragione, mi rispose sgarbatamente che, come giureconsulto, mi limitassi a operare giustizia spicciola in quella terra di Toscana, come avevo fatto a Borgo Silva e lasciassi la giustizia del creato ai poeti. Alle sue parole gli mostrai le fiche augurandogli di mai più rientrare vivo a Firenze.”
    A malincuore il Vice Commissario Lanzi, che sperava di aver scoperto un manoscritto alchemico o un documento Templare o almeno una mappa magica indicante la via al sacro Graal, dovette consegnare il reperto alla biblioteca nazionale dell’Ambrosiana che provvide con cura a catalogare e nascondere lo scritto affinché non offendesse, reso pubblico, l’immagine del Sommo Vate.

  3. IL PROCESSO
    La fiamma sventolava nella notte, come una bandiera. Colorata, splendente.
    La luce viola il buio, il calore inghiotte il gelo. Ovunque. Anche su quella piazzola in apparenza dimenticata dal cielo e dalla luna alle cui spalle si ergono i pini secolari di una pineta verde, bella e salutare di giorno, colma di vizi e misteri di notte.
    La luna è lei: avvolta in un abito rosso fiammante, scollato fino a mostrare buona parte dei seni turgidi e bianchi.
    Lei con le labbra rosso rubino, riscalda le sue membra di perla al calore di una fiamma.
    Quel fuoco corteggia la sua malinconia. La seduce. Le dona luce, la riscalda, La carezza con dolce malizia. Soprattutto le toglie la paura. Quella lingua di fuoco le corre sulla pelle. Le infonde sicurezza ed energia, ma le dona anche il brivido di emozioni istintive, ataviche.
    Rossa come il suo abito, calda come il suo cuore, si insinua nella terra di confine tra il timore e il desiderio di lasciarsi andare. Le restituisce la certezza che tra lei e il fuoco c’è una simbiosi, come ha sempre pensato, sentito, percepito nel profondo.
    Lei che ha sempre amato il sole, adesso, è costretta a vivere di notte.
    Appena arriva sul posto prepara una piccola catasta di legna e accende la fiamma.
    Allora tutto sembra più bello, quello squallido posto assume un fascino quasi magico.
    E questa sera la magia si sente più forte che mai.
    Un’auto nera si sofferma, prosegue, poi fa marcia indietro, per fermarsi davanti a lei.
    Lei si avvicina.
    Conosce l’uomo dell’auto nera. A lei piace, è diverso dagli altri.
    La prende con tenerezza fissandola negli occhi; senza violenza, quasi con rispetto. In quei momenti la sua mente vola, lieve e ebbra come una farfalla.
    Quegli attimi di felicità, in apparenza minuscoli, per lei sono rubini di colore rosso vivido, da stringere tra le dita e collocare uno ad uno nello scrigno del suo tempo più prezioso.
    Questa sera lui si offre di accompagnarla nel suo appartamento. Lei gli dice di sì. Sale sull’auto. I suoi occhi di gazzella brillano nello splendido ovale del volto dalla pelle di alabastro. La bocca rossa e carnosa, sensuale senza sfoggio e senza volgarità, invita ad essere baciata con calore, con passione. Tutto in lei è senso, voglia, passione. Attrae a sé, fa scattare la voglia di unirsi a quel corpo morbido e caldo. Lui si sente molto coinvolto. Rossana è diversa dalle altre. Questa certezza lui l’ha percepita prima ancora del pensiero, della riflessione. Perciò quasi ogni notte è costretto a cercarla.
    Quella fu una notte piena di fuoco. Rossana partecipò con tutto il suo ardore ai loro abbracci. Sentì di nuovo quel calore benefico: passione e amore veri, autentici, fame e sete di essere stretta a lui. Scopriva di avere un’anima, solo quando era con lui. E questo la faceva stare bene. Decise di rimanere con lui tutta la notte.
    Osservava i lineamenti del suo compagno che dormiva con il cuore contento, appagato, con gli occhi di come una sposa la prima notte di nozze. Poi si addormentò.
    Il treno fischiava, ma lei non lo sentiva. Continuava a camminare incoscientemente sui binari. Lo udì solamente quando ormai non era più possibile evitarlo. La prese in pieno. Lei si era seduta sui binari. Guardavvolare in aria i pezzi martoriati del suo corpo. Senza dolore, solo con stupore. Il solito incubo di sempre, pensò, mentre si destava. Cercò con la mano il bicchiere d’acqua sul comodino, ma il braccio le cadde giù. Il comodino non c’era più. Si accorse di essere in una stanza diversa dalla sua e si ricordò immediatamente dove fosse. Cercò il suo compagno ma il letto era vuoto. Sola in quell’ambiente nuovo, si sentì rabbrividire. Provò una sensazione di freddo intenso, nonostante fosse una bellissima giornata piena di sole. Cercò gli abiti e le scarpe senza trovarli. Nuda, si diresse verso la porta.
    Aprì e si ritrovò in un’enorme stanza rettangolare: un tavolone d’ebano la percorreva in tutta la sua lunghezza. Alcune panche, anch’esse di legno, erano disposte ai lati del tavolo. Un odore di incenso invadeva l’ambiente insieme ad un silenzio inquietante. Alle finestre c’erano delle tende nere, che impedivano l’ingresso della luce. Solo un cero acceso in un candeliere posto sopra un piccolo tavolo contrastava l’oscurità. Rossana si rannicchiò in un angolo della panca. Il suo bianco corpo nudo riluceva come il chiarore della luna. Poi il silenzio fu spezzato dal cigolio di una porta. Lei scrutava impaurita ogni movimento. La figura di un uomo incappucciato le si stagliò davanti, dall’altra parte del grande tavolo. Tutto era buio, nero, oscuro. Fuori e dentro di lei. Una cortina spessa di buio copriva la luce del sole e il lume della ragione. Evidenziando un enigma. L’oscurità era scesa anche nella sua mente, cancellando con una pennellata di pece densa qualsiasi pensiero le si presentasse. Avvertiva fortemente la mancanza del sole, il rosso di quel fuoco che per lei era linfa vitale. In quel momento si sentiva svuotata, priva di energia. Aspettava, seduta su quella panca nera. Guardinga, come un animale nascosto nel buio che ha paura di essere sorpreso da un altro più forte. La paura l’attanagliava. Tutto quel nero, inghiottiva il suo rosso, trascinandolo in un baratro senza fine. Un rumore forte la fece sobbalzare. La figura che in quel frangente lei poteva percepire come un’ombra incappucciata batteva sopra la superficie del tavolo con un martello. Poi cominciò a parlare – Che inizi il processo – Queste furono le parole che per prime infransero il silenzio! La figura continuò con la sua arringa per oltre mezz’ora buona, con voce cupa e perentoria, senza mai fermarsi. Lei sentì pronunciare diverse volte il suo nome “Rossana”. Comprese di stare assistendo ad un processo di cui era l’accusata. Che fosse un gioco? Un sogno? Rossana non riusciva a capire quella farsa. Era confusa, intontita ed anche spaventata. Quando fu chiamata al banco degli imputati, riconobbe il suo compagno mascherato da giudice. Aspettava che le dicesse – Rossana, è un gioco, uno scherzo. Ne aveva incontrate, lei, nel suo lavoro, di persone strane.
    Il gioco continuava. La colpa di cui era accusata era quella di essere una prostituta. Certo, lo era. Proprio per quel motivo si trovava in quell’appartamento. Non lo avessi mai fatto! – si trovò a pensare. Lui continuava a parlare. Alla fine, emise la sentenza – Morte! La pena giusta per una battona è solo la morte! – Ecco, adesso è finito, adesso, lui si metterà a ridere – Pensò ed aspettò.
    I passeggeri del treno delle sette erano seccati per quell’ennesimo ritardo, tutti i giorni c’era qualcosa che non andava.
    Angela aveva staccato da poco. Era stanca e desiderosa di riposo, e il treno non arrivava. Un ferroviere disse, che c’era stato un incidente sulla linea. Una ragazza era stata investita dal treno. Forse si era buttata sotto. Un altro ferroviere precisò che la ragazza era stata legata ai binari, con una catena.
    Angela trasalì.
    Mai avrebbe pensato che, Rossana, la sua collega, fosse la vittima.

    Serenella Menichetti
    accetto il regolamento sez. b

  4. MUTILATA COLOMBA
    Catturate dai rami del potere.
    Ciondolano a venti di guerra.
    Solo carne e ossa,
    piume e sangue.
    Sanguinano le ali
    negato il volo.
    Con la speranza nel becco
    mutilata, rimane a terra
    la bianca colomba.
    In attesa della resurrezione.

    Serenella Menichetti
    accetto il regolamento sez. a

  5. Ambrosia
    “Il cibo degli dei…”

    Esasperato dalla Morte, abbracciai
    la Vita in qualsiasi prospettiva.
    Pur rispettando la naturalezza
    della fine; di vivere decisi
    ciascun istante; ma senza ubriacarmi
    di euforia: dosando con saggezza
    il nettare che offriva l’esistenza.
    Ed ogni scheggia che avevo vissuto
    e che ancor dovevo vivere, l’avrei
    trascorsa assaporando quell’ambrosia.

    Alessio Romanini Sez. A Accetto il regolamento

  6. “POLVERE ERI E POLVERE RITORNERAI!”
    (GENESI 3:19)
    Provengo da una lunga tradizione contadina. I miei nonni e le mie prozie hanno passato tutta la vita sopra la dura zolla di terra. Perché la terra è dura in estate a causa dell’aridità dell’arsura estiva; quanto in inverno, quando il gelo rende i campi così freddi e duri da lavorare. Mio nonno sperava che io o mio fratello avremmo continuato la tradizione, ma purtroppo il suo sogno non si è realizzato: entrambi abbiamo scelto l’industria navale; molto diffusa nella mia città di mare[Viareggio(Lu)]. Mia zia, la sorella di mia mamma, anche se ad oggi ha l’età di 78 anni(2025) lavora ancora come coltivatrice diretta con il terreno che gli ha lasciato suo padre(mio nonno) e suo suocero. È da quando sono piccolo che incurva la schiena e si riempie le palme di calli e bolle per lavorare quella terra che ama come una figlia. Quando era più giovane, aveva un ottimo lavoro come impiegata in un ufficio di assicurazioni automobilistiche. Ha lavorato presso questa compagnia assicuratrice per diversi anni; finché il suo cuore decise di seguire le orme di suo padre e dedicare anima e corpo al lavoro nei campi. Ora sono anni che le nostre strade si sono separate a causa di incomprensioni familiari; ma gli voglio ancora bene e porto in cuore molti ricordi di quel vissuto.
    Ricordo le estati di vacanze scolastiche, lei ci portava al mare con i miei cugini. All’ora del desinare si tornava a casa; era solita fare un riposino meridiano, poi quando faceva meno caldo con suo marito(mio zio) andavano a lavorare nei campi all’aperto sotto il sole rovente o nelle afose serre. La sera, tutta vestita di abiti lunghi; prima del tramonto si incurva a cogliere gli zucchini; con i loro aghi pungevano le braccia e le mani. La mattina presto, quando fa più fresco,raccoglie i pomodori nelle serre umide o all’aperto quei pomodori che crescono in un secondo momento. L’estate si sa è il periodo più ricco di verdure; quindi il lavoro diventa molto impegnativo e faticoso: ci sono i vari tipi di insalate, fagioli a non più posso, peperoni, sedano, basilico… e le patate sotto l’arida terra ecc. Non posso fare l’elenco della spesa! Gli ortaggi sono molti e per farli crescere e poi raccoglierli ci vuole molto impegno. Bisogna innaffiare la terra con un imponente sistema di irrigazione, i pesticida ecologici e togliere le erbaccie… Senza dimenticare l’afa!
    Ma non era finito qui il lavoro di mia zia. Ogni mattina, la sveglia suonava prima dell’albeggiare: verso le quattro! Per prepararsi ad andare al mercato ortofrutticolo a vendere il ricavato del proprio sudore. A settembre era il periodo del granturco e della vigna! L’inverno non era da meno. Anche se le verdure sono inferiori, ci sono i vari ortaggi di stagione. Alcuni all’interno delle serre e altri all’esterno. E quando il gelo soffia con la tramontana, stare curvi sulla dura zolla ghiacciata rendeva mia zia un simulacro. Per quanto si poteva coprire, il freddo era lì che soffiava sulla pelle; rendendola secca, e facendole sgocciolare il naso. Io, in quel tempo che ho vissuto vicino a lei, non ho mai visto mia zia ammalarsi! Con quella vita dura, che lei ancora ama; si era creata una bella scorza. E l’ho sempre vista felice. Era soddisfatta di quella vita! Vita che gli ha permesso di costruire una casa senza la necessità di fare il Mutuo e dove il cibo di certo non mancava.

    Aveva anche le galline per le uova e i conigli d’allevamento
    per la carne che vendeva o la usava per cibarsi. E a settembre, si prendeva una pausa per recarsi in Trentino!
    Ogni tanto la incontro per le strade della città. Ha ancora l’Ape verde scuro, con cui porta le sue verdure ai venditori diretti. A fianco con suo marito, sembrano sempre giovani come lì ho lasciati. Non sembrano invecchiati di un solo giorno. Solo noi, purtroppo, da sedici lunghi anni non ci siamo più parlati. Ma questo è un altro racconto da raccontare in un altra occasione. Oggi sono qui per parlare di mia zia. Una donna che ho ammirato e ammiro; ed ho amato e amo come una madre. Perché mi ha insegnato molto: anche se a volte aveva dei modi bruschi di farlo. La terra forgia anche le parole; per poter insegnare che la vita non è una passeggiata, ma una dura terra da lavorare, in cui bisogna affrontare difficoltà e quindi bisogna essere “forti”. Come dicevo poc’anzi, anche l’agricoltura è cambiata. I mercati ortofrutticoli non sono più affollati come un tempo; la grande industria ha assorbito anche il mercato degli ortaggi. Quindi mia zia, con l’Ape carico di verdura; consegna a domicilio il suo raccolto al venditore diretto. Ma il duro lavoro che ha sempre fatto, quello non è cambiato: il corpo è l’unico strumento necessario per lavorare quella solida argilla da cui, come narra la “novella” della Genesi, un giorno ci ha “partorito”.

    “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.” [Dalla Creazione-Genesi 2:7]

    Alessio Romanini Sez. B Accetto il regolamento

  7. E se non fosse mare,
    ma amore
    l’immensa distesa
    di acqua e sabbia
    che ho timore
    di calpestare,
    ma dove ho lasciato
    affondare
    il mio cuore?

    © Daniela Giorgini – Sezione A – Accetto il regolamento

  8. Linea Sud
    (verso la Calabria)

    Il treno rallenta.
    L’odore del diesel copre quello del mare.
    Rumore di ghiaia che frana
    sotto i binari paralleli.

    Le case incompiute,
    sempre in piedi, sempre vuote,
    sono sentinelle di creta
    ad est e ad ovest del tuo sguardo.

    Osservano anche te che ora torni,
    e che già non sai
    se rimanere o ripartire.

    Il tempo passa quasi in contromano
    tra i tavolini dei bar del centro,
    nei viali alberati di cicale frinenti
    dove i ragazzi fumano a gruppi,
    appollaiati sulle moto vintage.

    Immagini al rallentatore.

    Questa terra ti ha annusato,
    ti riconosce
    anche se sei andato via da un secolo,
    ma non fa nulla per riprenderti.

    Non si concede,
    ti lascia nel dubbio quando ti seduce
    e lascia sanguinare le tue ferite,
    che si infettano di nostalgia.

    Ti abbandona a te stesso,
    al desiderio di indossare la sua aria,
    di tingerti dei suoi colori.

    E così muori ancora un po’.

    Il tuo viaggio è solo
    una breve illusione.

    ©Angela Maria Malatacca
    Sezione A – accetto il regolamento

  9. Arriva la notte
    Nuvole rossastre
    illuminate
    dal sole
    che si addormenta
    dietro un nitido orizzonte
    giunge la notte
    soave
    spietata
    delicata
    è una sera
    un po’ dolce
    un po’ austera
    misterioso
    il suo destino
    vago il suo cammino
    in questo istante
    profondo
    avverso
    intenso
    pare avvolgere
    il mio piccolo grande universo

    sez. a accetto il regolamento

  10. (Lacrime d’umanità)
    E fu notte nel giorno
    più luminoso,
    e fu l’alba nel giorno
    più scuro.

    Divenne pace
    una guerra efferata
    divenne odio
    una pace forzata.

    Non è pioggia
    che scende dal cielo,
    non è grandine che si schianta
    al terreno.

    Sono lacrime di umanità 
    svuotata,
    da una becera, massacrante,
    condanna.

    Sez. A – si accetta il regolamento

  11. VIAGGIO

    Fugace e meravigliosa è la gioia
    come ogni viaggio su mare,
    nel sentirsi superstiti all’opera
    del tempo che travolge la vita.

    Avvengo in un luogo riposto
    tra scogli e sabbie calde,
    a proteggere l’esultanza dell’attimo
    che domina ogni dimensione.

    E così partenza ed arrivo
    divengono medesimi,
    come un ciclo essenziale
    che rende tutto più forte della fine.


    ©️ Angelo Bonanno
    Sez. A – si accetta il regolamento

  12. ACCETTO IL REGOLAMENTO SEZ A
    TERRA AMARA

    Terra amara e di tramonti d’oro,
    terra selvaggia dagli infiniti contrasti,
    originale come un capolavoro,
    impossibile ignorarti.
    Qui dove il cielo bacia il mare,
    sei così bella da togliere il fiato
    e non riuscire a respirare.
    Terra di incantesimi verdi
    su distese di ulivi e mandarini,
    intrisi di sudore e mani sporche
    quelle ruvide e sagge dei contadini.
    Terra di fiumare, castelli e boschi secolari,
    di laghi splendenti e anfratti misteriosi
    rilievi rocciosi e fiumi impetuosi.
    Qui si intersecano Ionio e Tirreno
    mari cristallini dalle sfumature arcobaleno,
    complici di una bellezza sconvolgente,
    tra tarantelle, pescatori di pescespada
    e lampare accese
    fa capolino il Castello Aragonese,
    mentre a Gambarie tra le montagne
    puoi sciare su distese bianche,
    da lassù sembra impossibile, non sembra vero
    ma che si veda anche la Sicilia non è un mistero.
    Di posti belli ce ne sono tanti,
    che non si riesce neanche ad immaginarli.
    Miti e leggende
    si susseguono nel tempo,
    narrano di storie,
    di cultura, dialetti e tradizioni,
    rimani culla di mille antichi sapori.
    Calabria terra d’onore e di rispetto
    la ‘ndrangheta è il tuo unico difetto,
    ti ha sporcata umiliata e lacerata,
    che nata qui la civiltà se l’è dimenticata.
    E chi resta o chi parte
    ce l’ha nel cuore,
    questo rimane l’unico dolore.
    Patria di Papi poeti e combattenti
    Santi e uomini da premio Nobel eccellenti.
    La sua storia è senza fine ed imponente
    tra saraceni turchi svevi e normanni
    la Magna Grecia è sopravvissuta anche a tiranni.
    Non c’è terra così umana ed accogliente
    che ti porta sorridendo tra la gente,
    senti forte le sue essenze e i suoi profumi,
    intensi o delicati, dal vento trascinati,
    ginestre oleandri bergamotti e gelsomini
    riempiono le vie e i giardini.
    Si inchina l’Etna davanti
    ai Bronzi, giganti maestosi
    tra vasi di terracotta colorati
    colonne e marmi pregiati.
    Tra Scilla e Cariddi si celano
    storie di passione, amori non corrisposti
    e feroci vendette,
    a ricordarlo sulla piazza
    una splendida sirena si erge.
    E se arrivi in punta allo Stivale
    Reggio Calabria tra peperoncini e magnolie secolari
    imperterrita brilla sul suo mare,
    che sia il Kilometro più bello non c’è dubbio
    di questo se ne accorto anche D’Annunzio.
    Che dire allora di questa amara terra
    dono degli Dei o è una perla,
    certo non è perfetta ma che importa
    è un lusso naturale che ci circonda,
    che pochi possono vantare
    ma che tutto il mondo può ammirare.
    Terra Amara e di così grande cuore
    Calabria mia terra d’amore.

  13. Ronchi Donatella sezione A Accetto il regolamento
    Rimpianti
    Quanto può fare male,
    Non riconoscersi
    Mentre la tua stessa immagine
    Ti fissa dallo specchio.
    Quanto può fare male,
    Sentirsi estranea nel proprio corpo,
    Non trovare più
    Il legame che c era
    Fra te e la tua parte interiore.
    I pensieri non invecchiano,
    Mentre l involucro cede
    Ai rigori del tempo,
    Alla morsa della malattia.
    Quanto può fare male,
    Non poter esaudire i desideri e le passioni
    Che hanno lastricato
    Le tue strade nella vita.
    La lacrima che scende sul volto,
    Non riga lo specchio,
    Ma brucia dentro l anima
    Come una fiamma ossidrica
    Che non riesce più a saldare
    Le distanze e le crepe del tempo.
    Quanto è difficile
    Rassegnarsi all idea
    Che resterà solo il vento
    Ad accarezzarti la pelle mentre,
    Avvolta da una sottile veste di seta,
    Anelli brividi regalati
    Da abili dita di amanti distratti
    E sospiri di baci
    Perduti nei ricordi.
    Quanto dolore nei rimpianti
    Di momenti sfuggiti tra le pieghe della pelle
    Mentre non ti rassegni all idea
    Che la fantasia resterà solo fantasia.

  14. Come il tuo cuore

    Dove batte davvero il tuo cuore?
    Dove bussa la vita?
    Ora respiri il mare
    e non vuoi lasciarlo andare.
    Lo sguardo fisso
    all’orizzonte.
    Resterà appeso tra le ciglia,
    le tue lacrime salate
    appartengono a lui.
    Come il tuo cuore.

    © Daniela Giorgini – Sezione A – Accetto il regolamento

  15. ” Ad esistere” Diego Civita.
    E mentre la mente girava tra le rotaie e i prati del mondo,
    sempre riaffioravan ricordi
    nel labirinto aperto dell’ anima;
    e dal colore dei mari
    e dei boschi di terre
    vicine e lontane,
    antiche e nuove,
    s’ azzuffavano ad esistere:
    “le emozioni”.
    Sez.A.( Accetto il regolamento).

  16. Accetto il regolamento del bando, sez. a

    A sud del mio cuore
    Un vecchio seduto davanti all’uscio
    di casa
    nelle volute d’un sigaro stanco e
    rassegnato
    volge la schiena a una storia di ieri
    viva e resiliente all’oggi.
    Partito per la terra promessa
    con le nocche strette nella tasca
    d’una giacchetta rattoppata
    al rimpianto e alla rabbia di dover
    lasciare il profumo dei limoni
    d’una Calabria
    malconcia e tanto bella.
    La valigia di cartone, sua tenera
    e preziosa compagna, arranca a
    un nuovo mondo
    nei respiri e negli affanni a
    strozzare un pianto silente
    consegnato al gelo
    della notte straniera.
    Ah quante volte avrebbe afferrato cimeli
    e sarebbe tornato in quel profondo sud
    a cui l’anima aveva barattato.
    C’è la neve, del mare non ha odore
    e diventa ghiaccio nei cunicoli
    d’appartenenza.
    Ha trovato pane sciapo da masticare
    e stille amare da ingoiare…
    E quanta nostalgia su quel misero desco
    senza nome e senza affetti.
    Figlio d’un dio minore, orfano
    d’un biglietto di ritorno…
    Al sonno agitato piega le rughe
    ché, il tempo andato, a menzogna
    non rincasa.
    Il treno riparte, colmo di giovani aliti
    la storia si ripete e lui torna a sognare
    ripone il cappello delle sue stagioni
    d’acque natie e all’incanto sopravvive
    …azzurrissimo, come il ciel che
    l’accudisce.
    Terra bella assai… e maledetta.
    E intona una nenia fanciulla
    una carezza all’amore che scivola
    tra le dita… come granello di sabbia.
    Una vita intera a bramar terra
    di nessuno.
    A sud del mio cuore
    a sud d’un giro di boa
    che stenta dignità e gloria.

  17. ACCETTO IL REGOLAMENTO – SEZIONE A

    Fu una sera di quell’estate
    remota,
    che tu mi porgesti, allora fanciullo,
    la tua grinzosa mano
    per condurmi a vedere
    il pianto delle stelle.

    Seguivo fedele i tuoi passi,
    ma tremavo incerto nella rugiada,
    allora mi accolsero le tue anziane braccia
    mentre ci investiva, sommesso,
    il sibilo della brezza di mare,
    fresca di eriche e pinastri.

    E, nel silenzio, si aprì a noi la valle
    inondata dall’intermittente luccichio
    di minuscole lacrime d’oro:
    volteggiavano lievi nella volta buia
    per poi incastonarsi stanche,
    tra i teneri steli d’erba.

    Con gli occhi ancora rapiti
    da quel bagliore celeste,
    mi strinsi a te ancora più forte,
    rintanando il viso
    nel tuo scarno collo
    odoroso di terra, sole e fatica.

    Nulla valse poi, smaliziarmi a scoprire
    che quel portento fosse il vorticare danzante
    di lucciole in cerca d’amore.
    Quell’abbraccio,
    ancora sì vivido tra le pieghe del cuore,
    fu di te il mio ricordo più caro.

  18. ACCETTO REGOLAMENTO
    SEZ.B

    Cartoline da Gaza.(Panorami su rovine).
    Tra le macerie di case ormai scomparse, restano buchi neri silenziosi, orbite vuote, si aprono come tombe, finestre sfondate, sguardi ciechi sulle pietre fredde, testimoni di uno scempio che il tempo non cancellerà. Le pareti crollate sono labirinti di silenzio, bui e freddi come loculi abbandonati, dove il respiro si spegne tra le crepe, e il vento, voce dei morti, sussurra storie di un passato spazzato via per sempre. Un paesaggio di desolazione e sogni sepolti, ogni muro abbattuto è un pezzo di memoria che si dissolve, e le tombe a cielo aperto ci ricordano che la vita a Gaza non c’è più, resta solo la morte, silenziosa e senza fine, di bombe e di fame una scena che si ripete, senza pietà, sotto gli occhi di chi guarda “da fuori”. Spettatori impotenti, indifferenti o indolenti, assistiamo a questa scena senza poter cambiare nulla, il silenzio si fa pesante, come un muro invisibile, che ci separa dalla sofferenza, ci rende piccoli e incapaci, come spettatori di un film che non vogliamo vedere. Eppure, tra questa apparente indifferenza, il cuore si fa pesante, il dolore ci sfonda e ci lascia senza parole, creiamo corazze per proteggerci dalla dura realtà, ma un’ombra, come uno spettro, ci accompagna sempre, ricordandoci che dalla verità non si può fuggire.
    Luana Farina Martinelli

  19. Allo zoo

    «Quello è uno scimpanzé» disse la mamma
    al suo bambino accanto alla gabbia dello zoo.
    «È il nostro parente più vicino,
    l’animale più intelligente dopo l’uomo.
    Prima eravamo come loro;
    prendevamo gli oggetti pure con i piedi,
    ci appendevamo ai rami con la coda
    e avevamo tutto il corpo con i peli»
    «Com’era bello, allora!» disse il bambino
    «non c’era bisogno di appendere l’altalena
    al nostro albero del giardino»
    «Quello è un esemplare della razza umana»
    disse la madre al piccolo scimpanzé
    che guardava aggrappato alle sbarre
    dentro la gabbia dello zoo «Prima disegnava
    cervi e bisonti nelle grotte in cui abitava,
    ma adesso non usa neanche più il cervello:
    si serve di quello artificiale.
    E noi piano piano diventeremo come loro,
    un passo dopo l’altro nell’evoluzione.
    Scenderemo dagli alberi, cammineremo eretti,
    impareremo a scrivere, costruiremo ponti
    e grattacieli, inventeremo i moschetti
    e tante altre armi di distruzione»
    «Che bello, mamma!» disse il piccolo primate
    «Avrò il carro armato e la mitragliatrice
    e li faccio stare tutti a mani alzate»

    accetto il regolamento, sez. a

  20. Poi …

    Sul selciato
    Echi di passi svelti
    Si susseguono
    Senza sosta
    Verso la casa

    Poi
    Silenzio!

    La notte
    Buia tenebrosa
    Ostile
    Si nasconde
    Dietro alle nuvole

    Antonio Pittau
    Accetto il regolamento, sez. a

  21. LISBOA

    Potrei essere turista a Lisboa.
    Ma amo pensare, invece,
    che cercherò, prima di altri orizzonti
    e prima di altra avventura,
    un’Isetta azzurra in attesa.
    Essa percorrerà con me,
    leggera e meccanica,
    i vicoli stretti e i gradini precipitanti
    nel mare e sul fiume,
    per invitarmi infine,
    e con esausto sorriso,
    a camminare e svoltare
    l’ultimo angolo di strada.
    Là troverò la Rua Nova do Carmo
    e il suo marciapiedi ancora lucido
    di una pioggia vera ed antica
    che immutata resiste
    per ricordare un pensiero
    e le sue iterate parole.
    Allora un libro guida,
    di Pessoa e di Lisboa,
    rarefatto per un attimo soltanto,
    passerà attraverso il mio corpo
    per giungere, di nuovo materia,
    nelle mie mani in attesa.
    Sarò là ad aspettarmi
    nella Rua Nova do Carmo
    immaginata e fantastica
    eppure piena del mio osservare.
    Luogo/origine di un vecchio/nuovo sogno
    e di una ripetuta vita,
    specchio di antiche,
    e giovani a un tempo,
    emozioni.
    Accetto il regolamento. Sezione poesia

  22. La ballata degli oleandri

    Danzano gli oleandri
    al vento di primavera
    in prossimità del mare
    che sbuffa sulla scogliera.
    Ti rincorro con gli occhi
    mentre sulla sabbia voli
    insieme ai miei pensieri
    sparsi in mille rivoli.
    Ballano gli oleandri
    con i refoli di maggio
    tra tanti profumi sparsi
    per quell’ultimo miraggio.
    Ti condurrò dentro, in me,
    qual mitologica ninfa
    e come fiore d’agave
    ti donerò nuova linfa.
    Fremono gli oleandri
    al volo delle rondini
    nel mentre tutto dondola
    tra le siepi nei giardini.
    Non lo vedi nel silenzio
    battere il nostro cuore
    per poi scandire ancora
    nel tempo questo amore.
    Tremano gli oleandri
    anche adesso ch’è sera
    tra i troppi e più colori
    del tramonto la chimera.
    E tanto è il dolore
    per la paura di perderti
    tra le fessure del tempo
    senza più riconoscerti.
    Piangono gli oleandri
    gocce di lacrime lucenti
    nel mentre tutto finisce
    in quelle perle pendenti.
    Vanno pur sempre insieme
    per le incantate terre
    i nostri dolci sussurri
    senza lasciarsi sedurre.
    Ballano gli oleandri
    al rintocco di campane
    che va di ramo in ramo
    col tempo che ci rimane.

    Accetto il regolamento. Sezione A
    Michele Pochiero

  23. Accetto il regolamento. Sezione B

    Soprannomi maldicenti

    Per tutto il 1958 visse con i nonni materni nel paesino dove nacque. Alle pendici dell’Etna si estendeva su un’ampia superficie pianeggiante il modesto agglomerato di vie e viuzze che gravitavano attorno alla Chiesa madre e al vecchio municipio. La tradizione locale perpetuava dal tempo di una pericolosa eruzione che la lava si fosse arrestata all’ingresso del paese per intercessione miracolosa di San Giovanni, il Santo Patrono. Ne era derivato uno strano nome che obbligava a distanziare le parole che lo componevano per evitare equivoci e incomprensioni. Allora però per un bambino di sette anni aveva una scarsa importanza così come conoscere l’elenco di cognomi e soprannomi che venivano pronunciati giornalmente. Gli abitanti non si chiedevano il perché di alcune stranezze etimologiche o dell’origine delle infauste scelte per identificare i poveri infelici. Si sa che nei piccoli centri pochi erano coloro che venivano chiamati col loro vero cognome, mentre tutti sapevano riconoscere con motti salaci le vittime della perfidia popolare. Oggi si cerca di essere più rispettosi, anche se le origini del tale soprannome restano sospese come la spada di Damocle nella notte dei tempi. Fu allora che Bartolo verificò di persona l’omertà dei paesani e dei nonni che pronunciavano per tacito assenso, ma negavano per falso rispetto il malaugurato appellativo dato al figlio di un droghiere noto come Peppino Batticosce ( il pover’uomo, grasso com’era, camminava faticosamente sbattendo le cosce). Bartolo si convinse che poteva rivolgersi a don Bastiano, il figlio, come facevano coloro che dicevano ” Vai a comprare il pane da don Batticosce” o ” Fai segnare da don Batticosce i soldi della spesa sul quadernino nero”. Il salumiere non era certo nobile per via del “don”, ma l’aveva acquisto in segno di rispetto che i paesano portavano alle persone importanti, a quelle degne di stima e agli anziani. Lui era quel tanto istruito da saper scrivere e far di conto, riuscendo però a frodare con brillante acume e furbizia disonesta le donne che facevano segnare la spesa della settimana o del mese su un libretto per saldare poi il pagamento della somma quando i rispettivi mariti avrebbero ricevuto la paga per il loro lavoro “ a simana”. Per lo più erano braccianti a giornata o operai che faticavano molto e a cui capitava di pagare lo stesso conto per due o tre volte…
    Bartolo entrò nel piccolo vano della bottega dove sugli scaffali malandati facevano bella mostra i pacchi della pasta, le conserve,le forme di pane di casa, le bottiglie d’olio e i fiaschi di vino. A meno di quattro passi dalla porta d’ingresso fronteggiava il cliente il modesto bancone al di là del quale troneggiava il corpo robusto di don Bastiano che prometteva con il solito sorriso sulle labbra il segno del suo rispetto, falso o vero che fosse, a uomini, donne e bambini che , quasi in continuo pellegrinaggio, si recavano ad ungere con i loro debiti i meccanismi di quella macchina per far soldi che era l’abile uomo. Ricordava che sulla destra vi era un armadietto a vetri che conteneva i formaggi freschi e la mortadella ( così allora era nota e non come “ Bologna”) che era in quegli anni l’unica antenata del prosciutto cotto. Il pranzo dell’avventore di mezzogiorno, che lavorava e non aveva tempo per tornare a casa, era una mafalda farcita con una o due fette di quell’unico e saporito insaccato. Il profumo era così intenso per Bartolo che aveva sempre l’acquolina in bocca quando si trovava nella bottega. Don Bastiano girava la manovella dell’affettatrice e tagliava con cura meticolosa le fette, incideva a metà il panino con un lungo coltello affilato, e le disponeva quasi con eleganza di gesti prima di chiuderlo e avvolgerlo in un foglio di carta paglia. La sua affabile cortesia si scontrava con i rozzi modi di fare e di dire di sua moglie che divideva con lui lo stretto spazio sulla pedana dietro il bancone dal ripiano di marmo. Era sgarbata e frettolosa, quasi in gara col tempo, avida nell’intascare le monete o qualche banconota, restia a regalare un sorriso. Bartolo aveva varcato l’alto gradino di pietra lavica e aspettava il suo turno. Ripeteva a mente la breve lista di prodotti che avrebbe dovuto comprare per la nonna e osservava ammaliato i sorrisi di quell’uomo così gentile che sembrava dispensasse i doni del Paradiso a quella gente. Si riscosse dalla sua estasi sentendosi chiamare per nome ( don Bastiano lo conosceva e gli dava del tu, anche se aveva un occhio di riguardo in funzione del rispetto che nutriva per il nonno a cui si rivolgeva chiamandolo “ Cavaliere” ) e disse facendosi coraggio: – “ Buongiorno, don Batticosce, la nonna vuole…”. Non completò la frase perché la voce irata dell’uomo rimbombò nella bottega e l’eco lo inseguì, mentre spaventato e disorientato fuggiva in strada correndo verso casa. Non ricordò che fosse rimproverato dai nonni i quali gli spiegarono però che non si sarebbe dovuto rivolgere a don Bastiano, chiamandolo per soprannome. Capì che era offensivo e così lo tenne per sé. Forse suo nonno si scusò con il bottegaio, ma sebbene riluttante, Bartolo continuò a recarsi in quella bottega senza subire danni. Cosa ne poteva sapere lui degli imbrogli dei grandi! Il buon uomo divenne sempre più ricco e dopo tanti anni si trasferì in un negozio molto spazioso, fornito di alti scaffali, affettatrice elettrica e bancone frigorifero. Quando Bartolo, ormai grande e laureato, a volte,ritornava a far visita ai nonni, non mancava l’occasione per ritrovarsi con don Bastiano che gli dava del lei e lo chiamava con fare untuoso “ Dottore”.

  24. Accetto il regolamento. Sezione A

    Diffusa l’ombra
    Diffusa l’ombra

    Dal monte terre dormienti arano i venti,
    uomini d’arme che assaltano spighe d’oro.

    Diffusa l’ombra protegge e nulla distingue,
    si azzuffano in cielo le ultime stelle confuse.
    Lo sguardo apre nuove vie, ragnatele leggere,
    scopre conche colme di rugiada che ridono.

    Sul monte crea spazio per sè la luna d’ambra,
    nasconde i segreti tra litanie di paese,
    spia le fredde zone d’ombra e sorprende dolori.

    Rami protesi afferrano le preghiere degli avi,
    sottili legami che sorreggono croci di sughero,
    ritagliano la notte in cupe nuvole cinerine.

    Sa l’amore confondere i tristi presagi dell’alba,
    chiude porte scardinate dai ricordi di offese,
    liscia i candidi tessuti che vestono spose,
    purifica acque che lucide razziano doni.

    Dal monte rauchi gridi urlano i venti,
    cavalieri ciechi che scrollano delle querce
    i lamenti.

  25. Accetto il regolamento sez. a
    Figlia

    Vado a orecchio
    e racconto del momento ormai lontano,
    di quando ti sentivo minacciare
    la mia etica pietosa e distruttiva
    che chiudeva le porte alla salvezza,
    mia e non mia,
    di una sorella
    portata da Dio —
    anche se un dio,
    a cui oramai
    non confidavo più.

    Paradossale ritrovarmi
    ad aprire la porta alla scommessa
    grazie all’amico
    vicino
    e diverso,

    che tutto ha fatto nella vita
    tranne concedere al cielo
    una speranza di aggiustare,
    in qualche modo,

    ciò che per sempre
    sarebbe stato
    irrimediabilmente interrotto.

  26. CU-CU, CUCÚ

    Lieto mareggia il grano,
    adagio adagio,
    tra i sonnacchiosi papaveri
    e l’incarnato brivido dei fiordalisi,
    tutto il calore riverberando
    della cocente estate.

    Mi disperdo nell’eco vivo
    d’un trafitto silenzio,
    tra i gemiti lunghi e stanchi
    d’un colpo di vento,
    frinente cicale morente.

    Solo una lagrima s’affaccia
    muta, ridente maligna
    d’ansia e di pietà che divora,
    a poco a poco bagnando
    l’ultima malinconia.

    E m’abbrivida la debole carne
    il cu-cu, cucù sonoro
    d’ozioso canto novello,
    che a picciol volo e passo breve
    dai dorati mannelli dilegua.

    Allor, sparpaglio, qua e là,
    al turbinoso vaporar d’incensi
    del mio cuore di donna,
    in cerca d’affannoso ritornello
    che in rondò focoso d’amore
    soave all’anima spiri.

    Sandra Ludovici
    Sezione A
    Accetto il regolamento

  27. SEZIONE A

    VITE STESE

    Il tanto caldo
    il caldo troppo
    caldo confuso
    sui cui amate stendervi a brodaglia;
    lo stesso caldo
    a me deforma
    a me confonde
    a me contorce
    m’ accartoccia.

    Il Nulla
    su cui mettete a stendere le vostre vite inutili,
    annegate i vostri pensieri abbozzati
    sgozzate la Sola Verità;
    lo stesso Nulla
    in me fa un rumore strano.
    Quasi m’incanta,
    rimbomba d’un’eco vellutata
    mi aderisce, perfettamente.

    Bramavo tanto e forse troppo
    l’assoluto, l’universale,
    l’Eterno.

    I molti colori dell’inganno mi han fermato prima
    Mi han bloccato qui.

    Accetto il regolamento

  28. Alla vigilia
    Traduzione dal russo di Stefania Sini

    A Francesco Sanvitale (fondatore dell’Istituto Nazionale Tostiano a Ortona)

    Non vi è traccia di sforzi titanici.
    Di tutto Giuseppe è contento, abile sventato.
    Non ha nemici nel Regno delle Due Sicilie,
    né piaghe o ferite su entrambe le gambe&
    Non più di un coltellino ha in tasca Giuseppe:
    non vi erano squali nelle distese di Azov.
    Il mondo non seppe della repubblica di Piratini:
    tutto è calmo al momento sul Rio Grande-do-Sul.
    Non ha piani Mazzini di invasioni in Savoia,
    Non s9affretta Oudinot a impadronirsi di Roma,
    E non si tesse la stoffa per le camicie rosse
    che imbevute di sangue saranno in battaglia.
    Non si trovano camelie per Anita fiorite.
    E Anita stessa non è ancora fiorita.
    Non si nutrono speranze in Vittorio Emanuele,
    ma non scarseggia affatto la speranza nel veliero
    che giammai devierà dal deciso sentiero.
    Capitan Garibaldi è grintoso e severo.
    Bruscamente Dio volge la vita al giusto fine
    appena la nave “Clorinda” entrerà in Taganrog.

    accetto il regolamento, sez. a

  29. Accetto il regolamento in toto.
    Sezione A

    Scrivere

    Qualche virgola di troppo,
    come monadi d’agosto
    tra filari di stelle,

    solcando idee,
    certezze che fan male
    o forse dubbi,
    disposti all’irreale.

    Codici, assiomi,
    sprazzi di vita
    segnati di rosso e nero,

    nemesi
    di storie in sintesi,
    frammenti dai colori pastello
    d’un giorno banale,

    la sua incontrastata
    od inconsistente logica,
    di fluide trasparenze,
    asimmetriche.

    Qualche virgola di troppo,
    poste a caso,
    fingendo vite
    irrisolte od infinite,
    brama s’un foglio bianco
    d’una meta mai raggiunta,

    dov’eri
    ad inseguir parole,
    vengon fuori
    ad incider formule.

    Ma è carta straccia,
    brucia allo specchio,
    l’identico all’inverso
    nel dar via l’istante,
    di quel che è stato
    e fluisce,
    nel tornar sospeso
    e folle.

    Funamboli senza rete
    nell’improvvisare in rima,
    acrobati
    da inchiostro e penna,
    su poche righe
    che portan via lontano.

    Un punto,
    a capo,
    poi ricominciare.

  30. Accetto il regolamento – sez. A

    Una madre, un figlio

    Parlami di te,
    d’un sogno
    od altro ancora,

    non m’importa
    se d’uva ad ottobre
    e del mosto in fermento,
    che ammanta cristalli
    di ghiaccio e sale.

    Di volti, luoghi,
    il tuo nome,
    in stive di velieri antichi,
    sempre più
    tra nebbia e neve,
    messaggeri, al tempo,
    d’eccessi e rime.

    Dov’eri iride
    d’una sorgente d’acqua,
    a volte roccia
    di trame oscure,

    d’occhi socchiusi
    nel respirar d’estate,
    il tuo profumo
    che mi porto addosso.

    Illudimi nei tuoi anni,
    dei miei son stanca
    ed in solenni e poche righe
    m’han detto Alzheimer,
    ma non fa niente.

    È un ritrovarsi
    ad inseguir parole,
    in quest’astronave
    che chiamavi Terra,

    complice d’un giogo
    una musica distante,
    ad un passo, una danza
    e tra le dita un bicchiere.

  31. Sez. A ( accetto il regolamento)
    A Gaza è Genocidio
    A Gaza il cielo non ha più colore
    è fumo e fuoco, è pianto e terrore.
    Non è guerra: è carneficina,
    è il grembo che urla di una bambina.
    Case spezzate come vetro sottile
    le madri scavano sotto il missile.
    Ogni bambino è un nome reciso
    una voce muta, un sorriso ucciso.
    Non c’è rifugio, non c’è perdono
    quando la vita vale un bottone.
    Un click lontano, un drone che vola
    e cade un sogno, cade una scuola.
    Le ambulanze gridano invano
    se il mondo guarda, ma non dà mano.
    I cuori battono dentro la sabbia
    ma l’eco è spenta, la pace è gabbia.
    È genocidio, non lo chiamate
    con altri nomi, parole ornate.
    È morte scelta, fredda, lucida
    non è un errore, non è accidentale.
    Scrivilo forte sui muri del tempo
    con sangue, con voce, con ogni lamento:
    che Gaza resista, che il mondo risponda
    perché ogni silenzio è un’altra bomba.
    Raffaele Di Palma

  32. sezione B
    (accetto il regolamento)
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    I RAGAZZI DELLA SEZIONE ‘E’
    Gino aveva pensato a tutto… proprio a tutto.
    Compatibilmente con gli impegni del lavoro e della famiglia, li aveva contattati tutti, o quasi, tranne quelli di cui si erano perse le tracce, ed era rammaricato per questo.
    Chi? Ma chi aveva contattato?
    I suoi compagni di scuola, quelli delle superiori… ‘quelli della sezione E’, con i quali aveva condiviso gli anni di scuola superiore. Erano passati 40 anni, e non si erano più rivisti, tutti insieme, e Gino si era preso la briga di organizzare una cena tutti insieme, in un suo vecchio casolare di campagna che potesse contenere una trentina di persone.
    Si era dato un gran da fare, Gino : cercarli tutti, stilare la lista, prendere i contatti, cercare una data disponibile per tutti, fare gli inviti… aveva pensato a tutto… tranne a una cosa, ma non poteva certo saperlo o immaginarselo.
    Ma andiamo con ordine, e partiamo dalla sera in cui Gino mandò gli inviti.
    ‘Speriamo di non essermi scordato di nessuno !”, pensava Gino tra sé e sé a voce alta ; già, perché temeva di non avere messo in lista qualcuno… sai che figuraccia ! Riguardò la lista più e più volte ; sembrava ci fossero tutti quelli che era riuscito a contattare : Marco, Giuseppe, Gabriele, Gabriella, Ilvia, Lorella, Loretta, Cristina, Claudio, Mauro, Patrizia, Rita, Ornella, Manuela, Rossella, Tiziana, Fabrizio, Lori, Luisa, Roberto, Laura, Donatella, Rino, Vincenzo, Alberto, Pierluigi, Piergiorgio, Luigi, oltre a lui ovviamente, Gino.
    La cosa ‘curiosa’ che gli saltò subito agli occhi è che nella lista non c’erano omonimi. Tra tutti quei ragazzi amici di scuola nella seconda metà degli anni ’70, non c’era nessuno col nome uguale ; ma fu un pensiero di pochi secondi… doveva fare presto per spedire gli inviti a tutti perché arrivassero in tempo, per la cena di ritrovo del 2 Giugno ; era il 20 di Maggio, e non c’era più tempo da perdere, gli inviti dovevano arrivare in tempo e poi doveva ancora pensare all’allestimento della stanza per la cena, nel suo casolare in campagna !
    Aveva già stampato le buste con gli indirizzi ; imbustò le lettere e le spedì. “Anche questa è fatta!”, pensò Gino, soddisfatto del grande lavoro che aveva fatto per organizzare quella serata unica e speciale.
    Prese la macchina e dopo qualche decina di minuti arrivò al casolare di campagna dove si sarebbe svolta la cena ; era una casa colonica, con una grande stanza centrale, che si prestava benissimo ad un ritrovo e cena per così tante persone, ma non pensava certo che in una cena con gli ex-compagni di classe, mai rivisti dopo 40 anni, potesse accadere quello che invece si verificò proprio la sera della cena.
    E quindi arriviamo alla fatidica serata ; Gino aveva pensato a tutto, anche al catering (ovviamente con la premessa che si sarebbero divisi tra tutti le spese; non era da poco organizzare una cena per così tante persone !
    Gino aveva dato a tutti appuntamento alle 19 ; erano le 18,30 e tutto era pronto ; allestimento della sala, catering, aperitivo, piccolo omaggio per i partecipanti… aveva anche ingaggiato un trio di musicisti con la chitarra, dei tipi strani… col cappello, che avrebbero fatto dei pezzi durante la serata… non si fidava molto dei tre, ma ormai li aveva ingaggiati!!!
    Tutto era decisamente pronto, ma c’era un piccolo particolare; il fatto che da quarant’anni suonati, nessuno di loro si era più visto, nemmeno per sbaglio !!!
    Questo Gino, lo aveva potuto appurare nei vari contatti telefonici con ciascuno degli ‘ex-compagni di classe’, ed allora, per gioco, si era inventato una cosa simpatica, che aveva già condiviso con tutti, scrivendolo nell’invito : nessuno dei partecipanti alla cena doveva rivelare agli altri la propria identità, ed ognuno, via via che i partecipanti sarebbero arrivati, doveva riconoscere tutte le persone del gruppo.
    Gino era confidente di questo, nella maggior parte dei casi, ma… chissà se ci sarebbero stati degli arrivi…’non riconosciuti’!
    Sono le 18,50, e le prime cinque macchine arrivano nel resede sterrato della casa colonica.
    Appena scendono di macchina, si riconoscono tutti ; Marco, Gabriella, Claudio, Fabrizio e Lorella ; si riconoscono tra di loro e loro riconoscono subito Gino e si abbracciano tutti.
    Qualche battuta di Gino per rompere il ghiaccio ed ecco che arrivano altre sei macchine : scendono Loretta, Gabriele, Rino, Ilvia, Cristina ed Alberto ; anche loro si riconoscono, si abbracciano, scambiano qualche battuta con chi era già arrivato ed anche con Gino, tranne Alberto che sfoderava sorrisi e pacche sulle spalle, ma non parole, in quanto (e gli amici lo ricordavano) era muto dalla nascita.
    Ed ecco una fila di altre 8 macchine : scendono Giuseppe, Tiziana, Lori, Ornella, Mauro, Patrizia, Rita e Laura; solito scambio di battute, si riconoscono tutti… baci, abbracci, sorrisi…
    Ed ecco le ultime 9 macchine : Manuela, Rossella, Luisa, Roberto, Donatella, Vincenzo, Pierluigi, Piergiorgio e Luigi ; sorrisi, battute, tutti si riconoscono.
    “Allora, ci siamo tutti !“ esclamò Gino, soddisfatto che tutti avessero risposto alla chiamata, ed anche perché il gioco del ‘riconoscersi’ aveva funzionato, e tutti si erano riconosciuti – “Andiamo dentro, che prendiamo l’aperitivo e poi facciamo una bella cena tutti insieme… son passati 40 anni ; ne abbiamo di cose da dirci, no?!?”
    E così, tutti si incamminano per andare nel salone dove Gino aveva preparato l’aperitivo e la cena ; Gino ovviamente fa gli onori di casa, ed aspetta che tutti entrino per chiudere l’antico portone di legno massiccio, ma…. non si accorgeva di una cosa… una cosa importante: stava per arrivare un’ultima macchina.
    “Stappiamo qualche bottiglia di prosecco!”, esclama Gino, felice della serata che stava prendendo corpo così come se l’era immaginata – “Auguri a tutti i ‘ragazzi’ della sezione E ! ”
    “Auguri!” , rispondono tutti in coro, quando… nel silenzio immediatamente successivo, mentre tutti bevono l’aperitivo, si sente bussare al portone, con insistenza…
    Gino pensa… “Saranno quei tre musicisti col cappello!…”
    “Ma allora… aprite anche a me, si o no?”, sentono urlare da fuori… una voce di donna…
    Gino pensa tra sé e Sé : “Oddio, non sono i musicisti… che figuraccia… ho lasciato fuori qualcuno…” ; poi ripensandoci, conta tutti presenti (che erano rimasti impietriti dalla veemenza della richiesta ad aprire), e con se stesso erano in 29… nessuno mancava all’appello !!!
    Intanto fuori del portone, l’insistenza della donna si fa davvero pesante… “Allora, non volete aprirmiiii?”
    I commensali invitati erano tutti veramente molto imbarazzati.
    “Scusa Gino” (dice Gabriele rivolgendosi al padrone di casa…) ma non è che ti sei scordato di invitare qualcuno che l’ha saputo ‘per vie traverse’, e che quindi reclama di entrare?”
    “Potrebbe darsi, ma non lo so”, disse Gino guardandosi intorno… ci siamo veramente tutti, non saprei chi possa essere, ma lo scopriremo presto… vado ad aprire e vediamo chi è !”
    Patrizia e Lorella da una parte, e Ornella e Luisa dall’altra (quest’ultime, all’unisono) gli ricordarono che se fosse stata una ‘ex-compagna’ della sezione E, nessuno doveva chiedergli il nome, per il gioco che avevano fatto appena arrivati (di riconoscersi l’un con l’altro), ma un gioco che pensavano di aver già concluso ormai !
    Chi era la donna che con tanta insistenza bussava al portone?
    “Scusa, Gino, vai ad aprire no? Che aspetti ???” esclamano in coro Marco, Ilvia, Rita, Mauro, Donatella, Vincenzo, Pierluigi, Fabrizio, Giuseppe, Cristina, Roberto, Rino, Claudio, Rossella, Laura, Tiziana, Lori e Manuela…
    E così, (anche se un po’ titubante) Gino va verso il portone di legno massiccio, mentre da fuori l’ultima arrivata continuava ad urlare : “Apriteeeeee!!!”
    Gino arriva alla porta ; tira un lunghissimo fiato e… gli si presenta davanti una bellissima donna, probabilmente della sua età, o forse più giovane… bella, elegante ed affascinante, e con uno splendido sorriso.
    “Ma che, non mi volevi fare entrare, Gino?” esclama la donna; e facendosi spazio tra il portone e Gino, un po’ perplesso, entra in casa, avanzando dal corridoio verso il salone.
    (“Mannaggia”) – pensa Gino (“lei mi ha riconosciuto… chissà che non sia veramente una nostra ex-compagna della sezione E???”) e preoccupato, fa una corsa per raggiungerla nel salone, dove è già arrivata…
    “Buongiorno a tutti”, esclama la donna ; “dalle vostre facce non mi sembra che mi abbiate riconosciuto, ma io mi ricordo di Voi… di tutti Voi. Tutti … uno per uno !”
    Tutti i presenti, ancora col calice di prosecco in mano (meno Piergiorgio e Luigi che l’avevano fatto cadere all’unisono…), si guardano tra di loro, e scrutando da cima a fondo la bellissima donna che avevano davanti, si vedeva da un miglio e lontano che erano tutti quanti, ma proprio tutti perplessi… nessuno, compreso Gino, l’aveva riconosciuta !!!
    “Eppure”, continua la donna, sorridendo a tutti, “io mi ricordo di tutti voi ! Abbiamo riso e pianto insieme; abbiamo giocato e studiato insieme; abbiamo avuto le prime felicità e delusioni insieme… possibile che proprio non vi ricordiate di me? Dai facciamo un gioco ; ora toccherò le vostre mani, le mai di ciascuno di voi… vedrete che vi succederà qualcosa di straordinario! Su avanti, non abbiate timore ! Datemi le mani…Comincia tu Gino, forza!!!”
    Gino avvicina le mani alla bellissima donna che lo guarda negli occhi, sorridendo. Come le mani si toccano, Gino sente un piacevole calore alla sue mani, e in un momento, ma proprio in un istante solo, gli vengono in mente tanti, tanti e tanti ricordi con tutti i suoi compagni di classe. Ricordi di tutti gli invitati, nessuno escluso.
    E così la stessa cosa fanno tutti i presenti più o meno un po’ tutti titubanti per la stranezza della cosa… e tutti provano le stesse sensazioni di Gino ; calore piacevole alle mani e tanti, tantissimi ricordi di tutti, ma proprio di tutti i presenti invitati.
    “Allora?” esclama la donna, accennando un lieve sorriso… “Sapete dirmi cosa vi è successo in questi pochi secondi ?”
    E La risposta di tutti, anche se con parole diverse : “Un piacevole calore, si… e poi tanti ricordi, con tutti loro, ma proprio con tutti, anche cose che non ricordavamo più!”
    Loretta e Gabriella, si guardano e viene loro in mente la stessa cosa : “Ma scusate… abbiamo visto in un flashback tantissime cose che non ricordavamo più, ma che riguardano tutti noi, tutti insieme, nessuno escluso…….. eccetto Lei, Signora che è arrivata per ultima e che ci ha fatto questo meraviglioso ‘gioco’ delle mani e dei ricordi… Io in tutti questi ricordi non la ho vista mai, ma proprio mai !”
    “E’ vero… neanche io!”, cominciarono a dire gli altri invitati, quasi in coro…
    Nessuno, in questi flashback mentre la Signora teneva loro le mani, l’aveva vista in questi ricordi.
    C’erano tutti… tutti, tranne lei, la Signora arrivata per ultima.
    “Scusi”, dice Gino alla Signora… “noi non vogliamo infrangere le regole del gioco, e quindi non le chiediamo chi sia… però ci deve dare un indizio… qualcosa per riconoscerla…
    “Dovete sapere, che io sono stata sempre con Voi, sempre… abbiamo condiviso tutto, e da ora in poi condivideremo sempre tante altre cose, ora che, grazie a Gino, ci siamo ritrovati tutti… Ma adesso è ora di andare; vi lascio alla cena e divertitevi ; aggiungo io una clausola al bel gioco che ha inventato Gino : SE UNO DEI PRESENTI NON VIENE RICONOSCIUTO, SE NE VA . Che ne dite, accettate?”
    Tutti i presenti, spaesati a dire il vero, si guardano e annuiscono.

    Forse passano delle ore, o forse pochi minuti, o qualche secondo, non si sa… ma tutti si ritrovano in terra, addormentati.
    Tutti addormentati !
    E la bellissima donna non è più tra loro !
    Svegliandosi quasi tutti insieme, come insieme si erano addormentati, tutti cominciano a farsi delle domande :
    “Ma quella donna chi era? E dove è andata adesso?”
    “Cosa è successo?”
    “Ma possibile che ci siamo addormentati tutti ? Gino, ma che hai messo nel prosecco?”
    “Hai architettato tutto tu?”
    “Che spiegazione ha tutto questo?”

    “Ragazzi”, esclama Gino… “io non so perché ci siamo addormentati tutti… e non so assolutamente chi era quella donna, non credo di averla invitata. Ma di una cosa sono sicurissimo : che lei ci conosceva bene e conosceva molto di noi…. ma… ma… scusate… c’è una lettera sopra il tavolo, io non ce l’ho messa… apriamola su… l’avrà lasciata lei, no?”
    Gino prende la lettera, la apre, e comincia a leggere :
    “”
    “Ciao a tutti ragazzi… siete tutti un po’ cresciuti, ma per me siete sempre ragazzi, con i vostri occhi uguali a quelli di tanti e tanti anni fa…
    Voi oggi dopo tantissimi anni Vi ritrovate, come se nulla fosse cambiato, l’ho visto dai vostri volti, dalle vostre espressioni, da quello che vi dicevate… siete stati, siete e sarete amici per sempre, e gli amici non si perdono mai, se c’è qualcosa che li unisce.
    Voi non mi aspettavate, ma io dovevo essere tra di voi stasera, perché sono stata io a farvi stare insieme negli anni della scuola… sono un po’ più giovane di Voi tutti… ho 40 anni, ma stasera dovevo essere comunque con tutti Voi per permettere a Gino di continuare i suoi sforzi per tenervi insieme e perché non vi perdiate mai più di vista.
    Mai più.
    p.s.: io sono quella che vi ha unito, vi unisce oggi e vi unirà per sempre.
    Firmato : L’AMICIZIA “”
    ————-

    Gli sguardi di tutti si incrociano…
    Chi piange…
    Chi ride…
    Chi brinda alla vita…
    E chi brinda a quella splendida donna, chiamata AMICIZIA che li ha fatti ritrovare.
    Per sempre, Amici.

  33. Accetto sezioni A

    Il desiderio di essere
    Leggera vola l’anima, stamane,
    tra brezze lievi e soglie lontane…
    Non è presenza, non è abbandono,
    ma un respiro sospeso… o forse un suono.

    La vita… la tua, la mia,
    la poesia…
    scivola via come melodia,
    resta o svanisce, sogna o diserta…
    è un’onda che danza e poi si disperde.

    Come rugiade che si offrono al primo chiarore,
    in un oblio che sa d’amore…
    Follia? Equilibrio?
    Chi può saperlo
    dove finisce il cedere,
    dove il volere…

    L’amore profondo è un punto d’ombra,
    è luce che cade, è stella che sgombra.

    E forse è solo voler essere al mondo,
    nell’andirivieni dell’infinito fondo…
    tra dolcezza che scalda e amarezza che resta,
    tra cielo che sfuma e terra in protesta.

    Gioia che canta,
    dolore che geme…
    la parte che brilla o quella che teme.

    Apparire o dissolversi in un sogno,
    fiorire nel giorno o svanire nel sonno…

    La vita non ha verità da offrire…
    solo il dono fragile di esistere,
    e noi quello di sentire.

    Alice Silvia Morelli

  34. ULISSE.

    Ritornano corolle di zagare
    accese nell’ombra indifferente
    dei tuoi sandali.

    Piccole tracce impolverate,
    a rivelare l’ oro dei tuoi occhi
    chiusi in preghiera.

    Toccare sponde sdraiate
    sul vento sottile
    di una pioggia che rischiara.

    Raccogliere verde smeraldo
    di coppe tra germogli erbosi.

    Arrotondare la pienezza
    del giorno attuale
    ricordando il sillabare della mia allegria.

    Ma adesso, mio Ulisse,
    ho ricucito le foglie a rami verdi:
    mai più cadranno su deserto nero.

    Io , piccolo fuoco smarrito
    con la coda che danza
    _ io unghie laccate e zolle consumate
    nelle rughe della tela riciclata-
    oziosamente bevo
    esplorandoti il cuore
    senza più incastri di parole.

    Liberato il sogno tanto appeso,
    pensieri imbarco dove tu
    mai più accosterai l’ inganno delle vele.

    Carmela Laratta
    Sezione A. Accetto il regolamento.

  35. ALLA FINESTRA
    Ho visto scivolare giù delle gocce sul vetro,
    sembrava che disegnassero perdite
    e l’incedere triste del tempo,
    ma fuori era stranamente sereno
    nonostante lampi di memorie dolorose,
    il vento freddo di medici e infermieri
    accalcati negli anditi odorosi di disinfettante,
    sentenze che sembravano tuoni…
    “Non ce la farà, è finita”, dissero senza garbo,
    senza manco un abbraccio.
    C’era del ghiaccio persistente sul davanzale,
    il sole torrido illuminava i campi
    ma io morivo dentro,
    e dopo una lunga e interminabile notte
    il tic tac dell’orologio si fermò.
    Un silenzio eterno e composto pervase l’aria.
    La bufera è passata
    ma nel riflesso del vetro lo vedo ancora,
    quel giovane fiore caduto dal ramo.
    Enrico James Scano
    Sezione A
    Accetto il Regolamento.

  36. L’uomo che viaggiava con la morte in tasca
    Efis Pistis aspettò che scendesse la notte tra i rami aggrovigliati di un fico. Da lì poteva controllare agevolmente la casa.
    Il padrone era già rientrato a casa da un po’ quando decise che fosse venuta l’ora di avviarsi. Il notaio infatti lo aspettava.
    «Vossignoria mi ha mandato a chiamare» disse all’uomo che si era affacciato alla finestra che dava sul retro della casa.
    «Raggiungimi all’ingresso di servizio» gli disse indicando il cancello di ferro.
    «Perché mi avete fatto chiamare? chiese il bandito senza preamboli, appena furono in casa.
    «Devi portare questa lettera a Siliqua» rispose porgendogli una busta.
    Il bandito si rigirò la busta tra le mani. Da una parte figurava una scritta, dall’altro lato un timbro di ceralacca sigillava i due lembi nell’apice di chiusura.
    «A chi la devo consegnare?» chiese Efis Pistis.
    «Al Pretore di Siliqua.» rispose il Notaio. Efis aspettava in silenzio.
    «Questi sono dieci scudi d’argento. Quando avrai fatta la commissione, te ne darò altri venti».
    Efis intascò velocemente il sacchetto e la lettera. Il notaio fece per avviarsi.
    «Si risparmi la strada e mi faccia luce qui da basso» disse il bandito indicando la finestra. Con un agile balzo Efis Pistis si lanciò di sotto e sparì come inghiottito dalle ombre della sera.
    L’indomani Efis viaggiava verso Siliqua. Scelse di passare per “Santu Pedru”. Il tragitto era infestato da briganti ma era più difficile incontrare i Carabinieri. La prima sosta la fece a “S’Acqua Cotta”. Accucciato tra le rocce, mangiò il pane e il formaggio che si era portato appresso. Mentre mangiava continuava a fantasticare su quella lettera. Ci aveva pensato tutta la notte. Perché il facoltoso mittente non l’aveva affidata alle Poste? Conteneva forse la mappa di un tesoro? Delle informazioni compromettenti? Il notaio Puxeddu era uno degli uomini più ricchi del circondario e non tutte le sue attività erano legali.
    Ci si stava ancora arrovellando quando vide avvicinarsi alla fonte un porcaro con la sua mandria. Efis Pistis lo aveva incontrato altre volte, in giro nei campi. Si chiamava Crallucciu e i porci non erano suoi. Da giovane si era sperperato tutti i suoi averi. Per campare aveva dovuto interrompere gli studi e si era messo a servizio di un lontano parente.
    Quando il mandriano fu a portata di voce, Efis aveva maturato la sua decisione.
    «Salute Crallucciu! Come andiamo?»
    «Salute a te. Lo vedi? Pascolando porci» gli rispose il porcaro indicando i maiali, che già grufolavano tutt’attorno, alla ricerca di qualche ghianda da sgranocchiare.
    «E tu?» chiese a sua volta Crallucciu.
    «A me gira bene» disse lanciando in aria uno scudo d’argento.
    «Gruxisi o crastusu?» gli chiese acchiappando la moneta che aveva lanciato in aria.
    «Gruxisi» rispose pronto Crallucciu.
    «Lampu! Ti ho fregato» disse Efis mostrandogli l’effige di Carlo Felice. «Però può essere ancora tua» aggiunse mostrandogli la croce dei Savoia che scintillava nell’altra faccia della moneta.
    «In che modo?» chiese il porcaro, con gli occhi che gli brillavano.
    «Mi dovresti leggere una lettera che ho ricevuto.»
    «Affare fatto» rispose il porcaro allungando la mano.
    «Al tempo. La lettera non è qui con me. Ma se mi raggiungi al Nuraghe “Su Sonadori” potrai guadagnarti lo scudo promesso.
    «I miei maiali sono troppo stanchi e assetati. Perché non vai a prenderla tu? Con il cavallo non ci metterai tanto ad andare e tornare» propose Crallucciu, preoccupato che l’uomo potesse tendergli qualche imboscata.
    Efis fece un largo giro. Lontano da occhi indiscreti ruppe i sigilli della lettera e si rimise il foglio che conteneva in tasca, disperdendo i frammenti della busta. Dopo un po’ di tempo, ritornò dal porcaro che lo aveva atteso all’ombra di un leccio. Efis pendeva dalle sue labbra in attesa dell’esito della lettura. Vide il viso dell’uomo di fronte a lui impallidire. Crallucciu lo guardava senza parlare.
    «Che hai da guardare? Cosa c’è scritto? Parla di un tesoro non è vero?» gli chiese in sequenza.
    «Non posso dirtelo. Non ti piacerà» disse l’uomo con voce tremante.
    «Che scherzi sono mai questi? Parla, maledetto» disse Efis afferrandolo per il collo.
    «C’è scritto…c’è scritto…che il ricevente ha il dovere di giustiziare il latore della presente…»
    «Cosa? Tu menti per tenere il tesoro tutto per te! Ma io ti ammazzo» replicò Efis saltandogli di nuovo addosso.
    Ma per quanto lo scuotesse e lo minacciasse il porcaro non ne volle sapere di cambiare la sua versione. La lettera parlava chiaro. E c’era il nome del notaio Puxeddu in calce. Quest’ultima annotazione convinse Efis che l’uomo diceva la verità. Nessuno gli aveva detto che la lettera provenisse dal notaio Puxeddu. Quindi era tutto vero. Quel maledetto lo voleva morto.
    Con il sangue che gli ribolliva, Efis Pistis riprese la via del ritorno. A casa del notaio ci sarebbe entrato di soppiatto. C’erano altri venti scudi d’argento da incassare e un uomo da giustiziare. Gli avrebbe prima consegnato la sua stessa lettera, e poi l’avrebbe giustiziato.
    La sete di vendetta gli fece però dimenticare la prudenza. All’imbrunire si ritrovò davanti un suo collega con un fucile spianato che gli intimava o la borsa o la vita.
    Il suo istinto gli suggerì di buttarsi sulla sinistra. Ma lì lo attendeva un complice che lo accoppò senza pietà. E se si fosse buttato a destra avrebbe impattato con il terzo complice, che adesso si era riunito agli altri. Il terzetto si divise il ricco bottino: tre scudi d’argento a testa. Il fucile, il cavallo e la pattadese se li divisero tra buoni fratelli. Ma c’era ancora quella lettera indecifrabile ma sicuramente preziosa.
    Nessuno dei tre sapeva leggere, ma grazie ai loro sforzi congiunti, riuscirono a comporre la parola notaio e la data. Poteva essere quindi un testamento, o un attestato di proprietà. Di sicuro qualcosa di prezioso. Se la giocarono a sorte. La vinse Pabeddu, il più lesto dei tre nel gioco della morra. Con orgoglio e soddisfazione la ripose nella tasca interna della sua giacca. Si separarono. Adesso, un altro uomo viaggiava con la sua morte in tasca.

    Accetto il Regolamento – Sezione B

  37. Seconda Visione di Isaia

    Io, Isaia, udite, ho fatto un sogno:
    che le genti del mondo erano in pace
    e che, non avendone più bisogno,

    aveano fuso dentro la fornace
    l’ armi, per forgiare nuovi strumenti
    più consoni al bue mite che al rapace!

    Ecco, alla fine del mondo le genti
    tutte affluiranno al Tempio del Signore,
    non più con la guerra e con gli armamenti

    ma adottando la giustizia e l’amore!
    Venite dunque, popoli e città!
    Saliamo al Monte del Divin Chiarore!

    Lasciamo ogni odio e le iniquità
    e marciamo nei sentieri di Dio!
    Isaia sognava in verità

    È solo diletto lo scritto mio.

    Sezione A – Accetto il Regolamento

  38. L’AMORE E NON ALTRO ODIO ESTINGUERA’ IL MALE

    Non so se domani
    il mondo sarà più bello
    o più brutto di adesso,

    ma io spero in bene,
    anche se c’è tanta gente
    molto cattiva e prepotente

    in tutto il pianeta di oggi,
    senza contare in naturale
    caos della natura selvatica.

    Chi promette mari e monti
    di solito è in mala fede,
    ma io voglio continuare

    a sperare in un mondo buono,
    prima che tecnologico,
    perché l’amore fa girare bene

    il mondo e l’universo tutto,
    che senza pietà e umani diritti
    sarebbe certo molto peggiore.

    Sezione A (poesia). Accetto il regolamento.

  39. IL GIOVANE PERSEGUITATO

    Conobbi una storia triste, ma interessantissima.
    Viveva in un Paesino sperduto tra i monti un giovanotto un po’ matto che veniva da una famiglia proletaria in cui c’erano stati altri casi di mezza pazzia.
    Questa famiglia era rispettata come onesta da tante altre famiglie e persone, ma alcune famiglie e persone invece odiavano tutti i componenti di quella famiglia perché dicevano che erano pazzi criminali, stupidi, trasandati e gente da carcere, o da ricovero.
    Questo giovane era sempre deriso e insultato dagli alcuni giovani del Paesetto e aveva preso anche il complesso di inferiorità, l’incertezza psicologica e la fobia di passare davanti al bar di piazza quando c’erano i giovani più scalmanati e viveva della bassa pensione di invalidità che aveva, nonostante alcune famiglie che odiavano la sua lo avessero ostacolato quando fece la domanda di pensione all’INPS, perché non volevano che si sapesse che era insultato e ricattato da diverse persone cattive in Paese, che erano i soliti prepotenti che comandano in ogni quartiere, o Paesetto ed erano uomini adulti e anche giovanotti, oltre ad alcune delle loro mogli che non erano migliori di loro.
    Il ragazzo a 18 anni prese la patente di guida dell’auto e la famiglia glie ne comprò un’utilitaria di seconda mano. Quando in Paese si seppe della patente i soliti malvagi maldicenti si scatenarono contro il povero giovanotto e lo insultavano di più dicendogli che era un criminale a guidare l’auto con la pazzia che aveva e invece aveva il certificato medico psichiatrico e il permesso della scuola guida.
    Ne lui, né la sua famiglia avevano mai avuto guai con la legge e quindi poteva avere la patente di guida.
    Dopo avuta la patente questo giovane portava con sé i suoi in auto per andare nei Paesi vicini a fare la spesa, per una gita di un giorno un po’ più lontano e qualche volta per andare a passeggio nella città vicina.
    I malvagi caporali che lo odiavano avevano fatto tanta maldicenza cattiva contro di lui che le ragazze avevano paura di accettare la sua corte e così non aveva mai filato con nessuna, né in Paese, né nei comuni vicini.
    Quando passava con la sua piccola utilitaria per il Paese spesso qualcuno dei cattivi prepotenti lo perseguitava insultandolo frequentemente e per questo preferiva guidare verso i Comuni vicini, dove conosceva poca gente e i prepotenti che lo odiavano erano pochi.
    Però questi continui insulti avevano fatto peggiorare molto la sua stabilità mentale, già compromessa fin dalla nascita per ereditarietà e lo psichiatra gli aumentò le medicine per stare tranquillo.
    Un brutto giorno guidava molto agitato dopo essere stato insultato per l’ennesima volta dai caporali locali e per malaugurato errore travolse e uccise una donna del Paese.
    Il verbale dei Carabinieri fu preciso e gli tolsero la patente per due anni, ma era stato un delitto colposo.
    I soliti maldicenti del Paese dicevano sempre in giro che era stato invece un criminale e non era solo un errore, perché i mezzi matti non devono guidare, ma tacevano sempre che erano stati loro a farlo sbagliare alla guida quel maledetto giorno di primavera.
    Quindi il giovane andò in depressione e le cure psichiatriche furono più frequenti, ma sempre con la mutua. La sua famiglia già soffriva per gli insulti che i maldicenti del Paese facevano sempre contro il giovane e anche contro di loro, suoi parenti stretti, quasi come fossero gli scemi del villaggio.
    Quando la cura antidepressiva dette i sui frutti ed era passato qualche mese dal funerale della povera donna travolta il giovane non si ricordò di non passare a piedi davanti il solito bar centrale di piazza del Paesetto antico e ovviamente i giovanotti lo insultarono come sempre con mezze parole e anche con parolacce intere.
    Stavolta però, dopo tanto tempo che era chiuso in casa, speravano di averlo allontanato dalla vita civile del Paese e si arrabbiarono molto vedendolo passare per piazza come fosse un ergastolano pericoloso e mezzo matto evaso dal carcere di massima sicurezza.
    Così due o tre giovinastri lo avvicinarono e a spintoni lo minacciarono di rinchiudersi in quella fogna che era la sua tana-casa, insieme con i suoi familiari brutti, cattivi e mezzi matti.
    Allora il giovane perse le staffe e dette uno schiaffo a uno dei giovani prepotenti che lo spintonavano. Non lo avesse mai fatto. I giovani teppisti cominciarono a picchiarlo selvaggiamente e senza pietà e la vittima cadde a terra cercando di ripararsi dalle percosse. Uno dei picchiatori gli diede un calcio sulla testa mentre era a terra dolorante e lo uccise sul colpo.
    I giovani picchiatori scapparono e qualcuno chiamò un Medico e i Carabinieri, ma il giovane perseguitato era già morto.
    La famiglia della vittima pianse molto e fu aiutata un po’ di più da alcune famiglie buone del Paese.
    Al processo i giovani furono quasi tutti condannati a pochi mesi ed essendo incensurati con la condizionale uscirono subito di prigione, meno che il ragazzotto che aveva sferrato il calcio mortale che fu condannato per omicidio preterintenzionale e con le attenuanti andò per quindici anni in prigione, ma per buona condotta uscì dopo solo 10 anni e si diceva in Paese che era stato raccomandato da persone ricche e potenti, come anche gli altri picchiatori scarcerati subito, anche se erano tutti e quattro solo operai e di famiglie proletarie come quella del semi pazzo perseguitato e poi ucciso in atto di rabbia in una colluttazione.

    Sezione B (racconto breve). Accetto il regolamento.

  40. Lo scialle.

    Ogni filo un pensiero
    ogni nodo una preghiera
    lavoro di mani antiche
    pazienti e fiere.

    Battito segreto del cuore
    orgoglio di sposa promessa
    che taceva e custodiva,
    ma con gli occhi cantava.
    Posato come ala silente,
    sulle Spalle nelle ore solenni
    più forte del nome
    più vicino del sangue

    Ora che il respiro è spento
    veli la quiete del volto
    memoria di lei
    più duratura della carne.

    Accetto il regolamento, sez. a
    Federica Canepa

  41. Sardegna velata

    Sull’isola dormiente vagai
    come donna celata
    profumata più che mai,
    di dolce sonno a punta La Marmora.

    Ora nell’accabadora,
    non vidi l’ora di lenire
    il folle volo del divenire,
    così presi la cera dell’era.

    Sardegna mia velata
    non reprimere la speranza,
    veglia la cara degna sorte
    pencola il giorno con la notte.

    Isola magica della gemma
    corredi il rito della stella,
    vinto dai quattro mori in vela,
    succinto pensiero alla scogliera.​

    Accetto il regolamento, sez. A
    Jonny Souto

  42. THE LAST SUPPER
    Si era ritirato in quella tenuta isolata, appena dentro al bosco verde smeraldo d’estate e irto ed appuntito di rami secchi d’inverno.
    Aveva dovuto prendersi una pausa da quel suo assurdo lavoro di alchimista, trasformatore di materie prime nobili e ricercate, in piatti fantasiosi. Faceva lo chef in un ristorante stellato, ma lo stress lo aveva abbandonato in balia della sua pignoleria eccessiva e di quel perfezionismo che l’avevano fatto ammalare.
    Un esaurimento, una crisi di nervi che si era manifestata d’un tratto, mentre preparava un secondo con lumache e crema di parmigiano. Si era avventato sul suo sous chef, brandendo un coltello, lo aveva ferito ad un polso per poi tentare di ucciderlo.
    Non aveva mai pensato di poter arrivare ad uccidere qualcuno, ma se non lo avessero fermato, lo avrebbe fatto certamente. La cosa più sconcertante fu capire che il gesto non era un colpo di matto del momento, ma che ucciderlo lo avrebbe fatto sentire bene, inebriato da quella sensazione paragonabile alla soddisfazione dei sensi che provava chi degustava i suoi piatti elaborati.
    Creare piatti fantasiosi, precisi, perfettamente impiattati e decorati, lo aveva portato a perdere la ragione, a mettere il suo lavoro su un piano più importante della vita degli altri o della propria.
    Ma in fin dei conti, la cucina non era sadica di per sé? Tagliuzzare, affettare, bruciare, scotennare, arrostire nelle fiamme purificatrici, infilzare, impalare…. Tutti gesti che lui conosceva bene. L’unica differenza era che tutte queste azioni le effettuava su qualcosa di morto, inerte, inanimato. Qualcosa a cui lui doveva creare un’anima, un significato. Questa ricerca di ridare vita a ciò che non l’aveva più, gli aveva fatto perdere la ragione, i punti di riferimento sociali, i propri stessi valori, per spingerlo in una dimensione diversa.
    Era la stagione in cui il bosco si vestiva del verde acceso come colorato dalle piogge abbondanti che si alternavano ad un sole che acquisiva altezza e calore sopra all’orizzonte. Il viale principale della villa, fino al cancello pesante e cupo in ferro battuto ma che rimandava ad un epoca austera, con il suo ghiaino grigio ed uniforme, staccava sul verde della selva. Se fosse stato un pittore avrebbe aggiunto del rosso carminio a quel paesaggio che vedeva dalla grande vetrata del soggiorno.
    Cosa si ricerca mentre si assaggia qualcosa di nuovo, di sconosciuto, qualcosa su cui non abbiamo le conoscenze adeguate per avere delle aspettative? Tutti avevano imparato a distinguere i suoi piatti, tutti ossequiosamente dicevano di amarli. Molte volte si era chiesto se ciò fosse a causa del prezzo. Chi spende qualche centinaio di euro per un risotto non può dire che non gli piace, non può dar a vedere una qualche delusione, già solo per avere la possibilità di poterselo permettere.
    Chi assaggia un piatto mai assaggiato prima deve essere sorpreso, deve appagare la voluttuosità, quel desiderio completo di profumi, sapori, morbosità, sesso.
    Così appartato, aveva iniziato a cambiare i paradigmi della sua scienza. Perché non pensare ad un avventore esso stesso piatto di portata o addirittura cibo?
    Aveva iniziato con i suoi vicini di casa, una coppia anziana, li aveva invitati a cena e dopo averli sedati con una dose massiccia di Fentanyl, dose che comunque li teneva svegli ed alternatamente coscienti. Aveva usato le loro stesse carni come piatto principale e le aveva servite una all’altro.
    L’uomo lo aveva cotto con scaglie di cioccolato fondente al settanta percento, dopo averlo insaporito con salsa alla diavola e il fondo di tartufo.
    Con la donna aveva fatto un filetto alla Wellington, avvolgendolo nel prosciutto crudo e poi nella pasta sfoglia. I due erano stati immobilizzati e gli era stato servito il piatto come pietanza contenente la parte dell’altro.
    Poi aveva continuato con una donna vegetariana che lo aiutava a tenere pulita la grande casa. Dar da mangiare se stessa ad una vegetariana, era stata una mossa ironica e cinica allo stesso tempo.
    In quella tenuta viveva rigorosamente da solo, continuava a studiare l’abbinamento dei gusti, a ricercare il profumo adatto, l’abbinamento con il vino più consono.
    Uccidere non era più un tabù, specie in quel modo, dove le persone prima di essere finite definitivamente con una potente dose di tetrodotossina, scoperta studiando il modo orientale per preparare il pesce palla. 25 mg avrebbero steso chiunque, lasciandoli coscienti, intaccando il sistema nervoso e paralizzandone pian piano tutti i muscoli, compresi quelli della respirazione.
    Morivano così, cianotici, con un ghigno sulla faccia, forse coscienti di morire mangiando se stessi.
    Non era matto, non vi era un’altra metafora più potente della vita stessa. Siamo piccole formichine che adempiono ai loro compiti, piccole ruote degli ingranaggi di una macchina molto più grande chiamata società, che decide cosa’è o cosa non è consono a se stessa, che decide guerre, meriti, gioie e dannazioni per le sue stesse rotelline, pene, umiliazioni e per i più fortunati l’Olimpo del riconoscimento. Aveva assaporato già tutto questo. Sparire in una sua dimensione intima, era la sua ricerca, facendola espiare alle rotelline dell’ingranaggio che lo aveva tritato e ridotto così. Per essere perfetti ingranaggi consumiamo noi stessi, incastrati in relazioni umane talmente invadenti da scartavetrare parte di noi per far spazio e girare meglio nel marchingegno.
    Scarlet l’aveva trovata al mercato, stava ordinando dei carciofi al banco della verdura. Era bella, godeva di quell’età in cui ad una donna si può perdonare tutto, anche la mancanza di acume e l’intelligenza.
    L’aveva vista da distante e con occhio clinico stava già scegliendo la verdura dal banco con cui l’avrebbe servita.
    Iniziò così l’avventura di una nuova mortale ricetta, scelse un mango maturo, poi del frutto della passione, un limone dalla scorza gialla e spessa da fare candito, i pomodori per il contorno da preparare con la skordalia di mandorla, il tartufo nero, la noce moscata e l’olio alle erbe.
    L’aveva abbordata parlandole della differenza tra le mamme romane e il carciofo di sant’Erasmo di Venezia, l’aveva sedotta con la sua parlantina e la sua passione nel descrivere la combinazione di elementi per una cena che solo pochi avrebbero potuto assaggiare, ed ancora meno cucinare.
    Scarlet pendeva dalle sue labbra, era bellissima incorniciata in dei capelli biondi lisci che con il loro volume la facevano brillare tra le vie bagnate del mercato. Lui vedeva in lei il piatto perfetto, la cena ideale per essere “unvergesslich” indimenticabile, come dicevano i tedeschi. Negli occhi di Scarlet si notava una forte luce intelligente ed allo stesso tempo la placidità bovina della vittima. In lui il desiderio voluttuoso del sesso era stato sostituito dal piacere per la ricercatezza della cucina perfetta, dove il piatto è costituito da materia viva e dove chi lo assaggia mangia un po’ di se stesso.
    Quella sera era arrivata alla tenuta, fasciata di un vestito rosa, increspato sui fianchi con un’unica bretellina che si legava allo scapolare sinistro e che lasciava le gambe toniche ed abbronzate di Scarlet quasi completamente alla sua vista. Le aveva servito un ottimo Don Perignon con una dose di Fentanyl per rilassarla e renderla inoffensiva. L’aveva adagiata sul divano che teneva in cucina per farle vedere tutta la preparazione studiata e voluta solo per lei.
    La cucina con le sue luci intense che delimitavano esclusivamente i piani di lavoro in acciaio, pulitissimi, era intarsiata di radiche preziose, in ordine c’era la linea di materie prime che avrebbero fatto parte degli ingredienti di quella cena, tutti gli ingredienti che avrebbero accompagnato Scarlet lentamente alla morte.
    La linea dei coltelli, fatti affilare da un artigiano giapponese tutte le settimane e capaci di sezionare carpacci finissimi quasi trasparenti. Tre taglieri di ulivo, intagliati, erano stati messi proprio di fronte a Scarlet, che stesa sul divano sbavava dall’angolo della bocca, quasi costretta ad osservare la preparazione di se stessa.
    Dagli angoli bui della cucina apparve lui, vestito da schef, in una divisa di raso di cotone nera, bordata di bianco, con gli alamari dei bottoni sul petto ricamati a mano. Aveva scelto il nero perché comunque lui rappresentava la parte creativa ma anche l’undertaker, il becchino, che avrebbe accompagnato Scarlet nei suoi ultimi istanti.
    Lo aveva anteceduto solamente la primavera di Vivaldi che scorreva dall’impianto di filodiffusione. Scarlet quasi non batteva ciglio, immobile fissava la
    Luce bianca asettica illuminare i taglieri di ulivo e lo
    Chef. Forse aveva fatto in tempo a capire cosa stesse succedendo, ma nessuno avrebbe potuto dirlo con precisione.
    Lui iniziò affettando con cura, lentamente, come
    Per prolungare l’agonia della ragazza, concentrato com’era la osservava solo ogni tanto, come si osserva un ingrediente.
    La musica sembrava perfetta, per la stagione, per la freschezza del piatto e per il momento, che, per come la vedeva lui, era più gioioso che triste.
    Preparò la salsa di mango, il tartufo, la
    Skordalia di mandorle, pronto a creare l’entrèe, il contorno, il dolce per poi passare ad usare la stessa assaggiatrice come piatto principale.
    Le si avvicinò piano, le sfilò il vestito rosa pesca, le accarezzò i capelli biondi e lisci, la guardò negli occhi sbavare sul bracciolo, le sfilò l’intimo elegante e la osservò cercando di capire come impiattare la sua ospite, come renderla perfetta per la cena.
    Le sue nudità avvolte dal cuoio del divano, con l’abito e la borsetta infilati come spinte e contrappoggi per tenerla dritta e farle osservare la sua arte, ne davano una scena rassegnata, la vittima che va al macello.
    Lui prese il coltello per disossare, le si avvicinò, era divertente pensare che la lama per disossare così fina è corta avrebbe allungato la vita di Scarlet il tanto che bastava per mangiare se stessa. La ragazza iniziava ad avere dei movimenti volontari, leggeri ed ancora intorpiditi dal Fentanyl. Era il momento esatto in cui le avrebbe asportato il polpaccio destro, recidendone prima il tendine di Achille per poi salire e separarlo dal muscolo plantare lungo, dal tibiale posteriore e dai flessori delle dita e dell’alluce, fino al muscolo popliteo. Le avrebbe pulito i setti muscolari con cura, fermando l’emorragia delle vene profonde e separando il tessuto connettivo che riveste le strutture anatomiche e che risulta fibroso al palato.
    Le accarezzo la pelle dolcemente studiando quale fosse l’incisione iniziale più conveniente e, proprio quando aveva alzato il coltello per iniziare il lavoro, Scarlet in un movimento rapido e neanche poco accurato gli infilò un punteruolo nell’orbita oculare, con forza, fino al manico. Lo portava sempre con sé in borsa per difendere la sua bellezza.
    Nei pochi istanti che gli rimanevano mise a fuoco la musica classica che lo circondava e vide Scarlet piegarsi ancora sbavando su di lui ed azzannarlo ad una guancia, ritraendosi sporca di sangue come un animale predatore che affonda le zanne nel pasto tanto agognato. Vide Scarlet masticare con calma e con il preciso istinto di difendersi da lui. Pensò con ironia al fatto che il Fentanyl fosse chiamato anche la droga degli zombi, il sangue caldo scorreva
    Copiosamente sul suo corpo ed in quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per la tetrodotossina, per finirla il prima possibile, per sgonfiarsi come fa il pesce palla e fuggire la vita.

    PS.: se foste curiosi potrei darvi la ricetta per la salsa al mango… ma non tutti gli ingredienti sono sicuramente morti…

    Accetto il regolamento sezione B

  43. Voglio un amore maiuscolo

    Voglio un amore maiuscolo
    intingolato di palpiti
    che quando mette una virgola
    prende respiro e risale.

    Voglio un amore anormale
    che lancia in aria foreste
    voglio un amore che strugge
    il più immodesto e sfrontato
    che avvolge mani alla schiena
    la graffia senza sintassi
    e si addormenta soltanto
    per risvegliarsi vicino.

    Voglio un amore che canti
    in contrappunto col vento
    un carillon di corolle
    un cataplasma di miele
    che mi ubriachi qui, adesso
    come il frinire molesto
    di grilli che ho per la testa
    che perdo un po’ troppo spesso.
    Roberto Marzano – Accetto il regolamento, sez. A

  44. Io sottoscritto/a, Jean Bruschini, partecipando al concorso “Versi di Sardegna” organizzato da Oubliette Magazine, dichiaro di aver letto attentamente il regolamento del concorso e di accettarlo in ogni sua parte. SEZ. B racconto 998 parole.

    L’inganno
    Hans Müller aveva conosciuto la gloria sulle scene del teatro di Berlino, tra applausi e luci che trasformavano ogni respiro in eternità. Poi, le leggi razziali lo avevano esiliato, rendendolo invisibile agli occhi del mondo che lo amava. Ebreo, e quindi colpevole di esistere.
    Negli anni Trenta, il nazismo di Hitler aveva imposto terrore e propaganda ovunque, dai teatri alle scuole. La supremazia della cosiddetta razza ariana doveva essere esaltata, mentre chi era diverso veniva emarginato, perseguitato e spesso condannato a morte. Per Hans, la vita era diventata una recita quotidiana in cui il nemico era ovunque e il pericolo invisibile.
    Non poteva rinunciare all’arte. Si rifugiò tra le Alpi, dove il silenzio dei boschi cancellava il passato. Lì lasciò crescere la barba e tinse i capelli, che apparivano biondi alla luce del sole, sufficiente a trasformarlo in Franz Bauer, contadino e attore autodidatta, figura semplice pronta a ingannare chiunque.
    Quando si presentò al Teatro Nazionale di Berlino, il direttore lo scrutò con uno sguardo che penetrava come lame. Fumava un sigaro, e ogni sbuffo di fumo si riversava sul volto di Hans come se lo interrogasse senza parole.
    «Buongiorno, signor Bauer. Mi dica, da dove viene?»
    «Da un piccolo villaggio della Baviera, alle pendici del Großer Krottenkopf, signore. Sono autodidatta,» rispose Hans, modulando un accento rustico, sicuro e tremante al tempo stesso.
    Il direttore annuì, osservandolo attentamente mentre il fumo gli avvolgeva il viso.
    «Un attore per hobby? E come ha imparato a recitare?»
    «Ho sempre amato i libri e le storie. Recitavo per me stesso, poi per gli amici… qualche spettacolo nel villaggio. Mai una vera formazione, signore,» mentì Hans, piegando l’umiltà come un’arma.
    «E quali autori predilige?»
    «Goethe, Schiller… Brecht e Mann,» disse, scegliendo le parole come pietre da lanciare nel cuore del direttore.
    Il direttore sbuffò di nuovo, e il fumo del sigaro formò un piccolo vortice tra loro. «Molto bene,» disse, con voce calma e glaciale. «Reciti una scena da uno dei suoi autori preferiti.»
    Hans scelse Faust, la contrattazione dell’anima con il diavolo. Ogni parola era carica di memoria e dolore, ogni gesto un ricordo dei sogni infranti. Quando finì, il silenzio pesò sul direttore, mentre il fumo sembrava sospendere il tempo.
    «Bravo! Un talento naturale!» esclamò il direttore, sbuffando fumo verso Hans come a testarne la reazione. «Vuole far parte della mia compagnia? Sarà protagonista nella mia nuova opera: L’amore vince tutto. Venga, le mostro ora l’attrice con cui dovrà lavorare… la nostra bella Ewa.»
    Hans avvertì un gelo attraversargli la schiena. Il nome gli gelò le parole sulle labbra, e quando voltò lo sguardo, il cuore gli esplose nel petto.
    La voce di Hans vacillò appena, ma riuscì a controllarsi:
    «È… un onore conoscerla, signorina… Ewa?» disse, mascherando il tumulto che gli bruciava dentro.
    Ewa lo guardò appena, un lampo di riconoscimento nei suoi occhi, rapidamente celato da freddezza calcolata. «Piacere di conoscerla, signor… Bauer. Spero che lavorare insieme sarà… fruttuoso,» disse, modulando la voce con cura. «Mi chiamo Ewa, Ewa Weber.»
    Il direttore, il sigaro ormai ridotto a un mozzicone, notò la tensione tra loro e la interpretò come scintilla artistica.
    «Benissimo! Vedo già un’intesa,» disse, con un sorriso calcolato. «Farete scintille insieme!»
    Ewa, la donna che credeva morta, era davanti a lui, accompagnata da un ufficiale delle SS, suo attuale marito. Non era ebrea, e Hans l’aveva conosciuta prima che l’odio razziale cambiasse la loro vita. Un giorno era uscita per fare compere e non era più tornata. In pieno centro, un bombardamento aveva trasformato la città in macerie, e Hans aveva pensato che fosse stata uccisa. Ora era lì, fingendo di non conoscerlo, ma Hans capì subito che lo aveva riconosciuto. Il cuore gli batteva all’impazzata, la voce quasi inciampava, poi si riprese.
    Hans sentì il peso del mondo su di sé: menzogna, paura, amore, intrecciati come fili di un arazzo troppo complesso da districare. Pensava alle strade di Berlino, alle sirene, ai soldati, alle leggi che avevano cancellato la sua esistenza. Il teatro era rifugio e insieme campo minato; ogni applauso poteva nascondere una trappola mortale.
    Quando firmò il contratto, un uomo in uniforme comparve all’improvviso: il comandante delle SS, Ernest Schmitt. I suoi occhi erano gelidi.
    «Lei è uno degli attori principali, vero?» chiese, scrutandolo da capo a piedi.
    Hans deglutì e rispose con cautela: «Così dicono, signore. Sono nuovo… Franz Bauer, dalla Baviera.»
    Schmitt fissava Hans con occhi gelidi, mentre l’altra mano sfiorava un registro consumato. Le pagine contenevano nomi, alcuni forse associati a famiglie ebree. Le dita del comandante sfogliarono lentamente le pagine, come se ogni foglio potesse decidere il destino di chi vi era annotato. Hans sentì il cuore fermarsi: la sua vita, fragile, pendeva da un filo pronto a spezzarsi.
    Con calma calcolata, Hans estrasse dalla tasca interna della giacca la sua falsa identità. «Signore… è un cognome comune,» disse, cercando nella voce la sicurezza che il cuore non aveva.
    Il comandante rise fragorosamente, riponendo il registro con gesto lento e calcolato. «La vita è una grande farsa, signori. Bisogna saper recitare,» disse, lasciandolo andare.
    E così Hans Müller, ebreo perseguitato, continuò a camminare sul filo del destino, recitando come Franz Bauer, con Ewa accanto, sotto lo sguardo gelido del marito ufficiale delle SS. Ogni giorno sul palco era un atto di sopravvivenza, ogni scena un rischio, ogni applauso un respiro rubato al terrore.
    Eppure, tra menzogne e paura, il loro amore sopravviveva, fragile e incandescente come la fiamma di una candela nel buio. E in quella recita senza fine, l’arte restava l’unica libertà rimasta.

  45. Io sottoscritto, Jean Bruschini, dichiaro di aver letto attentamente il regolamento del concorso e di accettarlo in ogni sua parte. Dichiaro inoltre che le opere da me inviate sono originali, inedite e di mia esclusiva proprietà, e che autorizzo la pubblicazione delle stesse qualora risultino selezionate dai giurati.

    Là dove resta l’amore – Poesia, sez A
    (Dedicata all’amore che vive oltre l’assenza)
    di Jean Bruschini

    L’ho inciso sul bordo di un coccio spezzato,
    non per gridarlo,
    ma per tenerlo nascosto al mondo,
    come si nasconde una ferita che sa ancora di vita.
    Ti ho riconosciuto
    prima che il silenzio si prendesse il suono delle nostre dita.
    C’era già una fine nel modo in cui mi guardavi,
    una fine che sapeva di principio,
    come se il tuo andare fosse solo un altro modo di restare.
    Non è una lettera,
    è un solco lasciato dalla vela nella tempesta,
    è l’impronta di ciò che ha resistito al vento,
    la linea invisibile
    che unisce ancora le mie notti alle tue.
    Parlava di te,
    non come centro, ma come nodo:
    un punto dove ogni cosa si spezza e ritorna,
    dove i giorni si aggrappano come bambini alle ginocchia del tempo.
    Tu eri il luogo.
    Eri il perché che non chiede risposta.
    Eri il gesto semplice con cui la realtà prendeva senso.
    Adesso,
    in questa saggezza bastarda che brucia come neve sulla pelle,
    io imparo a respirarti nell’assenza,
    a camminare dove non sei
    ma hai lasciato la traccia.
    E mentre tutto cade,
    mi resti tu:
    non nella voce,
    ma nel modo in cui il silenzio mi ascolta
    quando pronuncio il tuo nome.

  46. Verso la luce sez A
    Ero seduta su quel sasso, le mani tese verso la luce.
    Avevo perso tutto, o almeno così credevo.
    Il vuoto pesava, un’ eco senza fine.
    Poi, ho visto un gabbiano volare.
    Non un volo qualsiasi: una danza, una sfida al vento.
    Ha girato su se stesso, incrociato le nubi
    e, per un attimo, ho creduto di vederlo
    sorridere.
    Mi sono alzata.
    Ho capito.
    Non importa quanto in basso tu cada, il segreto
    non è la caduta in sé
    Il segreto è l’atterraggio.
    È farlo con stile, con la stessa gioia di quel gabbiano, per poi, finalmente risalire.

    (Accetto il regolamento)

  47. Senza
    Altri
    Ragguagli
    Degna si
    Erge con
    Gran
    Naturalezza sulla sua
    Ampia bellezza

    Nel giorno in cui fu creata,
    chi la plasmò restò estasiato

    davanti alla sua opera.

    Le sue montagne dalle cime brulle
    di cui massi enormi levigati dal vento,

    si erigono gli uni sugli altri

    sfidando ogni principio fisico

    e come sculture forgiate dalla natura,

    si vanno comparando con quelle

    tondeggianti di Botero.

    Il mare le lambisce i fianchi

    con acque smeraldine e turchese.

    Lingue di sabbia, le cale baciate

    dalla bellezza dai colori delicati

    sembrano lembi di abiti gitani,

    di veli trasparenti di odalische,

    che ornano le onde per le sue dolci rive…

    perciò si domandò se fosse stato lui a crearla!

    Con il pensiero tormentò la sua mente

    per trovarle un nome.

    Furono tante le domande che egli si pose:

    un solo nome sarebbe stato degno
    di rappresentarla?
    Cercò e trovò una sola risposta
    che rimbombò
    Come l’ eureka di Archimede,
    decise con fermezza e disse:
    Sì, sarà degna di portare questo nome!
    E fu così che nacque il nome suo:
    Sardegna.
    Accetto il regolamento

  48. Accetto il regolamento, sez. a, poesia

    Luci

    Non vedevo oltre
    la mano del cielo
    graziosa
    e tenue
    Eravamo noi
    Eri tu
    Ero io
    nella luce
    qualcosa di grande ci aspettava
    eravamo noi
    nella luce

  49. Quel che resta – accetto il regolamento

    Quel che resta sono pagine bruciate di parole mai pronunciate
    Quel che resta sono pietre al sole mai lanciate
    Quel che resta sono parole corrose dal rancore di uno sguardo
    Quel che resta sono lacrime di piacere miste a dolore
    Quel che resta sono impressioni di settembre in volti di novembre
    Quel che resta sono emozioni sensibili di polvere
    Quel che resta sono case disabitate in paesi devastati
    Quel che resta sono distanze incolmabili
    Quel che resta sono difficoltà dalla mattina alla sera
    Quel che resta sono baci al sapore di cannella
    Quel che resta sono immagini confuse di alberi
    Quel che resta sono due mani che si cercano.

  50. Accetto il seguente regolamento

    Le mie lacrime non sono mie

    Quel giorno di settembre
    le mie lacrime non furono mie
    esaltavano la risposta alla domanda
    c’è ancora un domani?
    Quel giorno di agosto
    le mie lacrime non furono mie
    rispondevano alla domanda
    ci sarà ancora settembre?
    Oggi le mie lacrime non sono mie
    mi ricordano di agosto e settembre
    delle domande che mi ponevo
    delle risposte che non ho mai ricevuto
    Ed ancora una luce arriva il mattino
    a decretare il domani
    ed ancora il buio arriva alla sera
    a decretare il domani
    ed ancora le mie lacrime non sono mie.

  51. Nero intorno

    Nero intorno
    strade persuase di odori
    Nero intorno
    nuvole illogiche
    Nero intorno
    rumori sagaci ed inaspettati
    Nero intorno
    finestre chiuse
    Nero intorno
    una porta che si apre
    Nero intorno
    un canto che si espande
    Nero intorno
    la tua voce che sale al cielo
    Nero intorno
    il tuo corpo che resta a terra
    Nero intorno
    le mie lacrime che scendono
    Nero intorno
    Nero intorno
    Nero intorno

    accetto il seguente regolamento

  52. Luminosa estate

    Era quel giorno di luglio
    in cui tu mi donasti una rosa
    una rosa estiva – la chiamasti
    Era proprio quel giorno
    della luminosa estate che
    ci aspettava ridente e splendente
    Non ero ancora certa del tuo amore
    nè del mio per te eppure
    sì eppure
    qualcosa in quella giornata della luminosa estate
    mi destava dal torpore del pensiero dubbioso.
    C’era nel profumo della rosa
    un ricordo sottoforma di petalo.
    Più cercavo di coglierlo e più la mia mente si alleggeriva.
    Era una vita lontana.


    Simonetta Casu, accetto il regolamento

  53. Anna Minith

    Poesia: Amore

    Ti amo amore
    di un amore puro.
    Ti amo amore
    di un sapore puro.
    Ti amo amore
    di un suono puro.
    Ti amo amore
    di un gusto puro.
    Ti amo amore
    di una carezza pura.
    Ti amo amore
    di un passo puro.

  54. Angelo Napolitano
    Accetto il Regolamento

    AROMA GUERRIERO
    Tutto dipende da cosa scriviamo
    sui fogli bianchi che ci sono dati.
    Con te la Bellezza
    ha saputo di chiamarsi Bellezza;
    la Donna di chiamarsi Donna.
    Non c’è nulla che abbia più di te;
    di tutto hai tutto,
    e Tutto si compiace in te.
    Generi e regali frumento
    del quale tu stessa ti nutri;
    le tue mani preparano
    pane e regni,
    offerti per cene che durano una vita.
    Il vino speziato dei tuoi occhi
    riempie il vaso d’argilla
    così come la coppa dorata.
    Passano i venti e le tempeste
    e nulla di te portano via,
    né l’acqua che ti scorre nel sorriso,
    né la spuma dall’aroma guerriero
    che feconda la tua vita.

  55. “Una virgola per cambiare tutto”
    «Era solo una virgola. Ma bastò a stravolgere un’intera vita.»
    Il messaggio era arrivato alle 18:47.
    Breve, netto, come una decisione presa di pancia:
    “Ti amo non posso più far finta di niente”.
    Luisa lo lesse mentre aspettava il semaforo verde. Cuore impazzito, respiro trattenuto.
    Chi è? Perché ora? Perché così?
    Guardò il numero. Sconosciuto. Il mittente non firmava. Ma quelle parole… erano per lei? Era un errore? Uno scherzo?
    Passò il verde, ma lei restò ferma.
    Un clacson dietro la riportò alla realtà. Ingranò la prima, ma nel petto sentiva già qualcosa cambiare. Come se una breccia si fosse aperta in un muro.
    A casa, seduta sul divano, lesse e rilesse quel messaggio. Senza virgole. Tutto d’un fiato: “Ti amo non posso più far finta di niente”.
    Chi poteva essere?
    Un ex? Un amico? Qualcuno che covava un amore silenzioso da anni?
    E soprattutto: cosa avrebbe fatto lei, se lo avesse scoperto?
    Passarono giorni.
    Luisa non rispose. Non fece ricerche. Si limitò a sentire.
    E lentamente, qualcosa in lei si allentò. Il nodo al collo, la tensione negli occhi, il grigiore dei giorni in fotocopia.
    Cominciò a sorridere senza motivo.
    A indossare vestiti che non metteva da mesi.
    A truccarsi le labbra. Non per qualcun altro. Ma per sé.
    Un giorno, decise di inviare una risposta.
    “Anche io non voglio più far finta.”
    Non ricevette mai replica.
    Ma ormai era tardi: qualcosa dentro di lei era già cambiato.
    Nel frattempo, in un’altra città, Marco malediceva il correttore automatico.
    Il messaggio che voleva inviare era questo:
    “Ti amo, non posso. Più far finta di niente”.
    La virgola cambiava tutto.
    Quella piccola, microscopica virgola tra “ti amo” e “non posso” separava la confessione dal rifiuto.
    Marco, innamorato di una collega sposata, aveva deciso di confessare e allo stesso tempo chiudere. Dire tutto e andarsene. Ma la virgola non c’era.
    E il messaggio finì per diventare una dichiarazione aperta, senza freni.
    La collega lesse. Non rispose. Poi lo evitò. Poi si licenziò.
    E Marco non seppe mai perché.
    Luisa, intanto, aveva iniziato a vivere.
    Aveva cambiato lavoro, tagliato i capelli, scritto una lettera alla sé bambina. Aveva capito che bastava una frase per risvegliarsi da un torpore lungo anni. Una frase senza firma. Un errore.
    Un dettaglio.
    Un anno dopo, Marco la incrociò per caso in una libreria. Non si erano mai visti prima, eppure si sorrisero.
    Lui stava per chiederle qualcosa. Lei lo precedette:
    «Sai che una volta ho ricevuto un messaggio che mi ha cambiato la vita?»
    «Anche io», rispose lui.
    Sorrisero. Nessuno dei due indagò oltre.
    Si diedero appuntamento. Il primo di una lunga serie.
    La virgola mancava.
    Ma a volte, per fortuna, anche gli errori sanno condurci esattamente dove dobbiamo andare.

    accetto il regolamento, sez. b

  56. La strada.

    A scendere dalla silenziosa frazione in cui abito, non serve illuminazione, sul finire del giorno: un giorno incerto, tra pioggia e sole.
    Il cielo, sempre più azzurro nel pomeriggio, si riempie ad ogni curva di nuvoloni neri: alcuni, fermi sulle alture, sono poggiati come berretti fuori stagione sulle chiome insofferenti dei lecci; altri, di passaggio sugli ulivi – che ancora non è il momento di brucare – si infilano nelle reti, avvolte sotto le chiome cangianti.
    Scendo piano, curva dopo curva, abbasso il finestrino per annusare il sentore di umido, sentire il suono sincopato dell’acqua di torrente che mi accompagna per un tratto.
    L’aria calda e ferma non promette nulla di buono: bene ho fatto a lasciare la bicicletta per l’auto, nonostante non ami guidare. La luce si alterna al buio incombente con sprazzi intensi di giallo, sparato dal sole al tramonto sul mare, di sbieco, verso i tetti delle case.
    Mi aspetta una cena con due amiche d’infanzia: un anno a separarci, in scala, io la più vecchia, un numero che non riconosco ancora mio, ribadito dal compleanno recentissimo. È stato bello: auguri, pensieri, ricordi, espressioni diverse di affetto, anche inattese, gratificanti.
    Le chiacchiere davanti alla pizza intrecciano i fili illogici dei ricordi che sbucano indistinti per una, precisi per l’altra, assenti per l’altra ancora. A turno.
    Eravamo così piccole! Ci siamo viste crescere, un anno dopo l’altro, io la meno costante, nonostante la mia indole; inquieta, nonostante le apparenze; distratta da una miopia che a lungo gli occhiali non hanno corretto.
    Del mare poco distante si sente appena il fruscio sommesso sulla battigia. Lo andiamo a vedere, una passeggiata che è un rito. Torniamo verso le nostre case e mi sembra di vivere in una pagina della storia che ho scritto, ambientata qui, dedicata a questo nostro luogo.
    Ciao, alla prossima. A presto.
    Risalgo in auto e ripercorro il tragitto nel buio della sera inoltrata.
    Vado piano: l’attenzione è alta perché di notte la miopia è un intralcio; tengo i fari bassi sulla strada, intenta a guardare che dai cigli non sbuchi qualche animale selvatico.
    Vado sicura, però, e tranquilla: una sensazione di fiducia, di pienezza, di padronanza di me e delle mie capacità mi avvolge nitida come poche volte mi è capitato.
    Guarda – mi dico – dove sono ora, dove voglio essere ora, dove vorrò andare domani quando guarderò (spero) il sole sul mare. Disegnerà una strada come quella della notte di luna lucente che mi era sembrata giusta. Vedi – mi dico – non ho sbagliato strada.

    accetto il regolamento Amelia Belloni Sonzogni, sez. b

  57. Lei – Sez. B – Accetto il regolamento

    Il torrente scorreva placido.
    Le nuvole inargentavano la luce del sole,
    che si rifletteva scagliata sull’acqua.
    Tutt’intorno arboscelli e alberi adombravano
    i ciuffi d’erba che sbucavano come fiori
    sulla terra oramai ridotta a una scurissima mota bagnata:
    era caduta molta pioggia nei giorni passati.
    Seduti in riva a quell’affluente del fiume Aniene,
    Chiara si lasciava accarezzare i capelli.
    Mi perdevo in quelle innumerevoli sfumature di colore,
    dai toni scuri a quelli più chiari,
    quasi fossero mesciati. Eppure, non lo erano.
    “A volte mi capita di vedere il vento.
    Non i suoi effetti sulle cose, ma il vento stesso.
    Vedo la trasparenza.
    Mi immergo nell’invisibile e incontro creature strane,
    bizzarre, loro appartengono al Piccolo Popolo.
    Traghettano la mia anima.
    La conducono in regni talmente diversi dal nostro,
    che mi ci vuole un po’ di tempo
    per mettere a fuoco tutto e per comprendere
    quello che ho di fronte.
    Ciò che vedo lì, non somiglia a niente di tutto quello
    che esiste nel nostro mondo ordinario”.
    Rimasi ad ascoltarla rapito.
    Nessuno aveva mai creduto alle sue parole,
    tant’è che smise molto presto di provare a raccontare
    quanto le accadeva.
    Si chiuse in un mutismo protratto,
    fino a quando non ci incontrammo e mi rivelò tutto.
    Chiara era l’evidenza
    che la realtà fosse per sua stessa natura stratificata,
    multidimensionale e immensamente,
    inesorabilmente misteriosa.
    Quando scurò, tornammo a casa a piedi.

    La notte di Halloween rimasi in casa.
    Il vento guaiva e scoteva
    le assi di legno della mia abitazione che scricchiolava
    imperterrita e sinistra come fosse infestata.
    I corrimano delle scale esterne
    che mettevano nel giardino furono rapidamente
    attraversati da un’ombra.
    La vidi scorrere repente dalla finestra della mia stanza.
    Parvero dita scheletriche o zampette
    simili a quelle delle scolopendre.
    Chiusi gli occhi e li riaprii un momento dopo.
    Al centro del mio giardino,
    di fianco al rododendro, epifanica, una figura nera.
    Così immobile, monolitica,
    da suscitare un effetto straniante, alienante.
    In quel momento, la realtà che stillava dalle labbra
    di Chiara sembrava lontanissima.
    La luce rutilante dei lampioncini trasformava
    le foglie delle siepi in rubini.
    Quello scenario meraviglioso cozzava violentemente
    con la figura nera apparsa in giardino.

    Aprii gli occhi di scatto.
    Mi ero addormentato. Fuori dalla finestra nessuno.
    Il vento si era calmato. Nemmeno un suono, non un guaito.
    Toc toc.
    Quel rumore secco sulla porta di legno
    m’inquietò all’istante.
    Scesi le scale. Spalancai l’uscio. Chiara stava per bussare di nuovo,
    quando mi vide, e sorrise.

    “Ho sentito che eri in pericolo. Ti dispiace se entro?”,
    “No, certo, entra pure”.

    “Chi c’è stato qui dentro poco fa?” disse,
    “Nessuno!” risposi,
    “Ti dico che è entrato qualcuno Daniel, non mi credi?”,
    “La porta era chiusa a chiave.
    Se qualcuno fosse entrato, avrei trovato segni di effrazione”,
    “Dimentichi l’invisibile. Le leggi dell’invisibile”.
    Rabbrividii.

    “Se vuoi che non torni più,
    devi variare ogni giorno l’arredamento della casa,
    quadri, mobili, poltrone, televisione.
    In questo modo la disorienterai. Questo tipo di spirito
    ha un punto debole:
    può manifestarsi solo evocando ciò che già conosce.
    Se stravolgi la casa lei non sarà in grado di manifestarsi”.

    Con queste parole Chiara si congedò.

    Così, ogni mattina cambiavo l’arredamento
    della mia abitazione.
    Funzionò.
    La figura nera che avevo visto nel giardino non si ripresentò.
    Almeno fino a quando mi svegliai una notte,
    catturato da alcuni rumori che provenivano dalla cucina.
    Rumore di stoviglie.

    “Devi cambiare anche la disposizione
    delle stoviglie, della biancheria nei cassetti,
    degli abiti nell’armadio. Ricorda, non fornire lei
    nessun dettaglio identico a quello del giorno in cui l’hai vista.
    Lei si presenterà lo stesso, in modo sottile,
    ma non potrà agire, e non potrai vederla.
    Tutte le notti memorizzerà la nuova configurazione della casa.
    Per questo devi modificare l’arredamento ogni giorno”.

    Fu un’impresa titanica.
    Ma adesso qualcuno (forse un beffardello)
    stava riorganizzando l’interno della mia abitazione.

    Silenzio.

    Il mio intuito mi diceva che l’arredamento era di nuovo
    quello del giorno fatidico,
    in cui avevo scorto dalla mia stanza lei.
    La luna chiareggiava appena da biancare la soglia
    della finestra.
    Quella luce fantasmatica aveva un sapore mortifero.
    Spinsi lo sguardo verso il giardino.
    Monolitica, stilizzata come la Morte,
    accanto al rododendro, ferma tra le siepi, lei mi fissava.

  58. L’ora delle streghe – Sez. B – Accetto il regolamento

    Tick tock
    Tick tock
    Tick tock…

    Si, non c’era dubbio, qualcuno stava davvero piangendo! A sentire meglio sembrava piuttosto una specie di flebile lamento e Fabio continuava a udirlo sempre più forte. Guardò l’orologio che aveva al polso e, alla fioca luce della lampada accesa sul comodino si accorse che era proprio mezzanotte…
    “L’ora delle streghe…” pensò tra sé!

    Era una donna? Una donna che piangeva?! Il lamento sembrava provenire dall’esterno della vecchia locanda sul lago, dove soggiornava da un paio di giorni, in vacanza.
    Fece per alzarsi dal letto, ma non aveva ancora poggiato il piede sinistro a terra che… un lievissimo sussurro lo fece tremare e il suo sangue si ghiacciò di colpo…
    “FABIO…!”
    Lui non rispose, pietrificato… ma il richiamo si udì di nuovo: “Fabio sei sveglio?”
    “Micky! Che paura!” sospirò di sollievo il ragazzo.
    “Fa… lo senti anche tu?” chiese Michela spaventata.
    “Si! Dammi la mano, avviciniamoci alla bifora!”
    Si alzarono così con cautela e raggiunsero, sfiorando il pavimento, il cunicolo che si affacciava sul lago. A fatica riuscirono a schiudere la stretta apertura nel muro e guardarono fuori impazienti e preoccupati…
    Non riuscivano a credere ai propri occhi: la superficie lacustre rispecchiava la tonda luna, e sul dirupo prospiciente videro una donna… avvolta in quello che poteva apparire un antico sudario!
    Sembrava fosse china ad abbracciare qualcosa o qualcuno… Era lei che urlava e piangeva fino all’esasperazione, e quel lamento aveva qualcosa di così sinistro, di così pauroso e disperato che, in cuor loro, Fabio e Michela si augurarono di non udirlo mai più finché fossero vissuti.
    Ma la donna era troppo vicina all’orlo del precipizio e Fabio si preoccupò che potesse cadere in acqua se non si fosse immediatamente tirata indietro, così urlò: “Stia attenta o cadrà in…”
    Non ebbe il tempo di finire la frase: misteriosa ed eterea, la donna si lasciò ingoiare dalle profondità delle acque lacustri, cinta alla cosa che stringeva a sé:

    “Nooooo!!”

    Con gli occhi sgranati dal terrore e il cuore che le martellava nel petto, Michela non poté evitare di lanciare un urlo raccapricciante, mentre si rifugiava istintivamente nell’ abbraccio di Fabio e nascondeva il volto tra le pieghe della sua felpa.

    L’avevano appena incontrata: La dama dal bianco sudario!

    Ma non immaginavano che l’avrebbero presto raggiunta in fondo al lago!

    La leggenda parlava chiaro:
    “A mezzanotte
    Incontri la morte
    Nel lago
    Se ne senti il lamento
    Straziato!”

  59. Il silenzio dopo l’amore

    Resterai sola come un lupo
    e le tue lacrime spezzeranno in due
    il cuore della luna

    imparerai ad ululare piano
    non sentirai più quel fremito nelle viscere
    ma una vibrazione nuova

    ti percorrerà una scarica elettrica
    e sopravviverai al dolore

    il tuo sorriso sarà il mistero più grande

    un’ombra tremerà sulla tua bocca
    e cercherai gli spazi segreti dell’anima
    dove la pioggia batte forte

    la gente ti temerà per paura di bagnarsi
    e si brucerà gli occhi al sole

    tu invece tra gli oggetti della tua stanza
    riconoscerai i ninnoli
    i balocchi della tua malinconia

    accetto il regolamento
    sez a

  60. Lombardo Serena
    Sezione A Poesia
    Accetto il Regolamento del Concorso Letterario ” Versi di Sardegna Quarta Edizione”

    La Dea Ombra

    Io sono l’Ombra,
    figlia del crepuscolo languente,
    generata prima che Chronos contasse i giorni.
    Quando gli uomini
    confidavano ai sassi il segreto del sangue,
    io mormoravo ai venti boreali,
    vestita di silenzio e profumata di bruma,
    svelando le verità taciute nei secoli.
    Sono la Dea del non detto,
    del passo esitante sul ciglio dell’abisso,
    del pensiero che si dissolve
    come neve sul palmo caldo dell’anima.
    La mia effige giace, consunta,
    tra le radici del bosco vetusto,
    coperta di muschio e d’oblio,
    mentre gli Dei fulgidi brillano nei canti,
    nutriti da libagioni e preghiere mielose,
    come Apollo nei templi d’oro.
    Io sono la madre del dubbio,
    la voce che nasce quando il silenzio è troppo greve,
    quando le Moire sospendono il filo della vita
    e il destino attende, incerto.
    Vedo i sogni che non osano germogliare,
    le lacrime che non trovano fonte,
    i desideri che fremono sotto la pelle.
    Non invoco culto, né incenso, né altari.
    Solo il poeta mi basta:
    egli mi ode, mi accoglie,
    e nei suoi versi mi fonde
    al respiro segreto delle Figlie della Memoria
    consegnandomi al fulgore dell’eternità.

  61. NESSUN ABBANDONO

    Parole
    di cera disciolta
    fondono l’anima
    e si attaccano
    al volo del vento.

    Allevia
    il nostro dolore
    penoso cammino
    su cicatrici piagati
    chiusi in noi.

    Sapienza cos’è
    candele accese
    lontani simboli
    coperti
    dal tafano bruciore.

    Etica
    invisibile tocco
    tu che appari
    alla coscienza del mondo
    sorreggi la tacita forza.

    Spettri
    lucro cessante
    nessun abbandono
    a questo futuro
    alla mia specie
    il dono appartiene.

    Sezione A
    Accetto il Regolamento
    Rocco Luigi Carlo

  62. Milena Musu, sezione A, accetto il regolamento.

    La Kambusa di Calasetta

    Ritorna
    forse l’ultimo
    traghetto al molo.
    Ancora notte non è.
    Piccole stropicciate barche
    sul liminare acqueo,
    oscillano.
    Rauchi uomini
    degnamente indossano
    un solo tatuaggio
    al braccio sinistro,
    coperto pudico
    dalla camicia chiara.

    Torna a Carloforte
    il traghetto bianco
    e l’uomo magro
    a casa.
    Qui non si mangia più
    la cucina è bruciata.

    Non ci resta che sale secco
    tra le ciglia scure
    e amaro gusto
    dell’ultimo sorso di birra,
    che non ritorna.
    Così ondeggiano al molo
    e anche oggi tramonta l’ovest.

    Qui abbiamo ballato
    prima del fuoco
    e c’erano ciglia d’altri
    e denti di perla.
    Qui le urla di gabbiano
    ci hanno baciati in viso
    qui ci hanno spezzato il pane
    e offerto il vino
    della tregua.

    Ora ballano drappi di stoffa
    aggrappati agli alberi delle barche
    e il silenzio non muore
    autentico soffia
    sul cemento dell’approdo.

    Annuiscono le palme
    al vento
    e le donne lente annuiscono
    e gli uomini secchi di sole
    con il mento alzano
    increduli ricordi.

    Brezza di malinconia,
    arsa d’incendio
    nella sera sventola
    scompigliate teste
    di mori.
    Piangono salati i capelli
    occhi asciutti di mare
    occhi asciutti di cielo
    e partenze
    e arrivi
    e tra mare e cielo,
    cenere.

  63. Sez. A – Poesia
    Titolo: Nel silenzio che rimane
    Autore: Jean Bruschini
    Accetto il regolamento e l’uso dei dati personali ai fini dello stesso.

    Ora che i giorni mi scivolano
    tra le mani,
    senza rumore,
    come sabbia spinta dal vento
    oltre il margine del ricordo,
    inseguo ombre di sogni
    che ancora non ho osato chiamare per nome.

    Ogni granello perduto
    è una ferita che non si vede
    ma brucia
    nel silenzio che rimane.

    Il dolore
    non grida,
    scava.
    Scuce l’anima,
    filo dopo filo,
    fino a lasciarla nuda
    davanti all’attesa.

    Eppure,
    con le mani vuote
    e il petto aperto
    continuo a correre
    verso qualcosa
    che somiglia
    a me.

  64. FINALISTI
    Sez. A
    Antonio De Serio con “Scrivere”
    Angela Maria Malatacca con “Linea Sud (verso la Calabria)”
    Serena Lombardo con “La dea Ombra”
    Antonio Dell’Isola con “Lacrime d’umanità”
    Donatella Ronchi con “Rimpianti”
    Alice Silvia Morelli con “Il desiderio di essere”
    Federica Canepa con “Lo scialle”

    Sez. B

    Peter Hubscher con “Lanzi e il manoscritto di Messer Matteo”
    Serenella Menichetti con “Il processo”
    Ignazio Salvatore Basile con “L’uomo che viaggiava con la morte in tasca”
    Jean Bruschini con “L’inganno”
    Alberto Diamanti con “I ragazzi della sezione E”
    Amelia Belloni Sonzogni con “La strada”
    Michela Giorgio con “L’ora delle streghe”

    ***
    Si ringraziano tutti i partecipanti del Contest e si invita al nuovo contest letterario gratuito di poesia e racconto breve: https://oubliettemagazine.com/2025/10/11/contest-letterario-di-poesia-e-racconto-breve-il-sogno-del-brigante/

    ***
    I finalisti e vincitori saranno contattati via e-mail.

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