“Il vecchio incendio” di Élisa Shua Dusapin: l’amor(t)e che vivifica

Nove giorni. Nove giorni per scottarsi con le braci del passato, nove giorni per diradare la cortina fumosa del presente, nove giorni per ricostruire, dalle ceneri, il futuro.

Il vecchio incendio di Élisa Shua Dusapin
Il vecchio incendio di Élisa Shua Dusapin

È in questo arco temporale, scandito cronologicamente ma sparigliato dai ricordi, che favilla sotto la coltre silenziosa degli alberi, negli anfratti labirintici delle grotte, nel guscio di una casa e nello scheletro di una piccionaia arsa dalle fiamme, in cui sovrabbondano memorie di esistenze, il residuo materiale e immateriale di una famiglia che non si è saputa farsi tale.

Non ci è dato sapere quale sia il nome della voce narrante ne Il vecchio incendio di Élisa Shua Dusapin.

Sono gli indizi disseminati con sapienza dall’autrice a gettare una tenue luce nell’oscurità, a ordire una frammentaria trama della sua identità: trasferitasi, ancora adolescente, negli Stati Uniti, è diventata voce, come sceneggiatrice, delle storie altrui. E, dopo la morte del padre, è costretta a tornare, il 6 novembre di un anno imprecisato, alle soglie dell’inverno, nella casa in cui aveva vissuto da piccola, per svuotarla di ogni cosa.

Una sceneggiatrice che, paradossalmente, non è in grado di dipanare la dolorosa matassa della propria, di vita; una professionista della parola che si trova, nuovamente, a confrontarsi e scontrarsi, in una tensione continua, con l’afasia indecifrabile della sorella Véra.

“Non ricordo con precisione come è iniziata. Véra aveva sei anni. Eravamo a tavola, mio padre, lei e io. Nostra madre era via per lavoro. Mio padre ha fatto una domanda a Vèra, che non ha risposto. Dobbiamo aver creduto a un capriccio. Mio padre si è spazientito. Véra si è messa a soffiare forte, con il volto distorto. Strani suoni hanno cominciato a uscire dalla sua bocca, un misto di lamenti e gorgoglii. Uno strangolamento. Da allora, mai più una parola.”

Se, durante l’infanzia, era la sorella a farsi mezzo di comunicazione tra lei e il mondo, ora Véra parla unicamente attraverso la scrittura, come contaminata dalla “grafiosi”, il fungo che ha distrutto gli olmi della tenuta di Pigéon Froide (“piccione freddo”) entro la quale si trova la casa della narratrice: “Pare una malattia della scrittura”.

Eppure è Véra, in apparenza rinchiusa, uccello senza canto, nella gabbia dell’afonia, a (ri)costruire legami, a ritessere le fila, a dare espressione autentica – “vera”, come il suo nome – al dedalo di sentimenti e risentimenti, silenzi e distanze, rancori e dolori che risorgono, come araba fenice, dal ricongiungimento delle sorelle, costrette a condividere gli angusti spazi della casa di famiglia e a liberarsi del loro passato.

A non saper dire, oggi, è la sorella: “Mi incolpi di non confidarmi con te, Véra, di sfuggirti. È che non so cosa dire. Non sai quante volte ho parlato per te, perché la tua vita fosse più facile. Sono incapace di parlare con te perché non ho avuto la forza per restare”.

Quasi che il ghiaccio su cui pattinava da ragazzina, durante gli allenamenti, fosse penetrato nelle sue membra, fino ad annidarsi nel cuore, la protagonista avverte con ogni fibra del corpo il rigore della morte: quella del padre, quella del bambino che portava tacitamente in grembo, quella delle migliaia di famiglie di volatili arse nel “vecchio incendio” a cui si richiama il titolo.

Non si è mai saputo perché l’edificio avesse preso fuoco, ma il padre delle sorelle, che con la sua assenza è una presenza costante, lascia in eredità un racconto che dà risposta a domande esistenziali: “I piccioni erano radi. Si spegnevano rapidamente, la morte di uno provocava quella di un altro che si lasciava morire di dolore. Poiché la forza della vita supera tutto, la specie trovò un nuovo modo per sopravvivere. Durante gli avvicinamenti amorosi, a furia di carezze, prendevano fuoco. Nell’ardore non sentivano il dolore e si consumavano fino a morire, l’uno contro l’altra, lasciando ceneri fertili e un intrico di ossa. Per secoli, le uova sono nate da queste ceneri. Penetravano il guscio per nutrire il piccolo di piccione, che ne assumeva il colore. I riflessi violacei sul collo dei nostri piccioni sono le vestigia del fulgore delle fiamme.”

Élisa Shua Dusapin citazioni Il vecchio incendio
Élisa Shua Dusapin citazioni Il vecchio incendio

Un grande amore, un’amor(t)e, può divampare fino alla distruzione, ma ciò non toglie che sia foriero di vita. È questa luminosa consapevolezza che, a poco a poco, riesce a sciogliere il gelo che attanaglia la protagonista. Sgombrata la casa di ogni cosa, le sue mura verranno riutilizzate per ristrutturare la piccionaia, che darà rifugio a nuove famiglie.

“Dovremo partire, lasciare dietro di noi questa casa con la porta solo accostata, senza persiane né tende. La nostra casa non è una rovina. Non lo sarà mai. Le sue pietre continueranno ad essere ciò che sono sempre state: un rifugio. E mentre ce ne andiamo, lo stagno riflette la piccionaia come se fosse un faro, sorretto da quelli verso cui ci voltiamo ancora una volta per dire loro addio.”

Anche se “vivere sotto il cielo richiede una forza infinita”, i fiori, come scrive Véra, crescono anche in inverno.

 

Written by Michela Pistidda

 

Bibliografia

Élisa Shua Dusapin, Il vecchio incendio, Elliot, 2025

 

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