“La Spoon River dei braccianti” di Antonello Mangano: dormono, dormono sulla collina?
Il titolo, nella prima di copertina, è: La Spoon River dei brac/-cianti.
Immagino che lo spezzamento della parola, non mantenuto poi nelle altre pagine dell’opera La Spoon River dei braccianti, sia metaforico. Me lo confermi, Antonello Mangano?
Conosco la silloge di poesie di Edgar Lee Masters e ho letto anche la seconda, meno celebrata, raccolta Il nuovo Spoon River. Adoro la versione musica di Fabrizio De André Non al denaro non all’amore né al cielo.
Il titolo del tuo romanzo-saggio-verità serve a dare l’idea delle anime che, esistendo, sono sempre, senza eccezioni, esemplari. Vi sono delle differenze di poetica però, in ognuno di noi. Diversamente saremmo tutti quanti omogenei.
Il tuo è un racconto cronachistico, quasi giornalistico, di quel che accadde a quei poveri braccianti, quasi sempre ma non sempre immigrati, quasi sempre ma non sempre in nero, anche in grigio, cioè denunciati al Centro per l’Impiego, ma la cui contribuzione non era rapportata a quanto sancito dalla legge: il numero di ore effettivamente lavorate equamente rapportate ai termini contrattuali di riferimento.
La Previdenza Sociale permette a chi ha lavorato di gestire serenamente gli anni in cui nessuno gli affiderà un impiego, poiché anziano… anche se a volte, non spesso, forse lo desidererebbe. Conosco da vicino un uomo che a sessantacinque anni chiese alla sua amministrazione di rimanere in servizio, ma tale assurdo privilegio gli fu negato. Ne conosco un altro, ancora più da vicino, che non appena poté, a sessantadue anni e mezzo, fuggì dall’obbligo (per lui alienante) del lavoro, sfruttando quello che taluno ha definito una porcata: la legge che istituì quota 100: sommando età e contributi, con un minimo in entrambi i livelli. Il lavoro non è necessariamente un peso da cui ci si vuole liberare via il prima possibile, ma talvolta lo è. Rolando, mio padre, iniziò in regola a 14 anni (prima lavorava d’estate in nero, portando conigli ai ristoranti o acqua a chi costruiva le strade), e proseguì fino a 61 (1 anno lo fece da consulente). Dopo di che egli sentì che qualcosa s’era fatalmente concluso, e ci soffrì. Occorre rispetto per ciascuna sensibilità, non solo per la propria. Chi definì porcata quella legge, andò in quiescenza a 59 anni, sfruttando la possibilità che era stata offerta ai lavoratori cosiddetti precoci. Tale chance non l’ebbe chi cominciò magari più giovane ancora, ma non assunto a norma di legge.
Tutti questi sono bei discorsi, ma non toccano l’essenza di questo libro La Spoon River dei braccianti, i cui protagonisti sono giovani, alcuni giovanissimi, altri più maturi, tutti al di sotto dei sessant’anni, una forza lavora essenziale per l’economia. La loro voce è riportata a volte in prima persona (come nei libri di Masters e nelle canzoni di De André), ma soprattutto in terza persona.
La vittima del lavoro è spesso lui, lei, l’Altro. Non è un difetto del libro, ma una sua caratteristica giustificata. Si tratta di un’opera che è mirata alla divulgazione di fatti noti solo ad alcuni, che in genere si scordano non appena se ne ha notizia. Quando mai, in una cena fra amici, si discorre su quello che è occorso a quei disgraziati annegati nel mar Mediterraneo, a pochi chilometri da Lampedusa, oppure in Area SARC libica (in quei 97 chilometri intorno alla costa africana)? Non sono argomenti da salotto, ma orribili eventi da assorbire, tentando subito di pensare ad altro. Diversamente ci si rovina la giornata.
La tragedia occorsa una mattina dell’8 agosto 1956 nella miniera di carbone di Marcinelle in Belgio non è un mai stato un argomento da salotto. Si tende a non pensarci mai, forse perché molti di noi non erano ancora nati o troppo piccoli per averne provato emozione. Nessuno di noi aveva un congiunto morto in quel frangente, diversamente non sarebbe nato! In quell’ormai sepolto caso, i defunti da Spoon River erano per lo più italiani, del nord, del centro e del sud.
Torniamo però al tuo libro, Antonello.
Ho fatto alcune sottolineature che preferisco ignorare. La cronaca non ammette troppi riporti. Sarebbe un tacere del resto, un ignorare l’insieme dei fatti. Il mondo descritto è quello che noi non ci riusciamo proprio a immaginare. Noi che abbiamo studiato fino a una certa età e che poi abbiamo trovato un lavoro sicuro, anche se, talvolta, tanto sicuro non era, diventando precario, a causa della crisi. La crisi è il momento in cui l’ammalato è in bilico fra la guarigione o il decesso. In quegli ambienti essa è spesso monca, non essendo prevista alcuna salvezza, semmai un’incerta sopravvivenza.
Chi ha svolto certi lavori in determinate zone, giungendo poi in altre, essendo stato assunto per mansioni da quelle che aveva sognato da giovane, può arrivare a dire che nel nuovo ambiente si sta abbastanza bene. Ho conosciuto due fratelli ghanesi che dicevano di essere laureati in ingegneria (e non ho elementi per dubitarlo), che, al momento, erano occupati nella movimentazione merci per conto di una cooperativa… Piuttosto che raccogliere pomodori sotto il sole infuocato di zone infestate dal caporalato… Tutto è relativo.
Mentre lavorava in un ufficio brevetti, Albert Einstein sognava di diventare uno scienziato memorabile. Franz Kafka, addetto (non troppo felice d’esserlo) in una compagnia assicurativa, immaginava di trasformarsi in un geniale anche se oppresso coleottero…
Al termine di un pranzo domenicale, nemmeno diciassettenne, il sottoscritto sbigottì i suoi genitori dichiarandosi ingegnere del nulla, avendo come unico scopo nella vita di non lavorare manco mezz’ora. Infatti faticai non più di 41 anni.
Leggo a pagina 127 de La Spoon River dei braccianti: “Qui si muore di polmonite o in bici per strade non illuminate…” – il che mi rammenta quando, nel Cilento, al termine di una vacanza estiva, solevo partire, diretto al nord, intorno alle 4 di mattina. Nei pressi di Battipaglia, ogni tanto incrociavo alcuni immigrati (più scuretti di me, che avevo una tintarella di serie b) che sgognavano in bici. Şgugnêr in reggiano significa pedalare con foga. Ma che turni di lavoro c’erano in quelle assolate serre?
Il tuo romanzo corale, Antonello (chissà che ne penserai di questa mia definizione!) sconfina spesso e volentieri nel giornalismo, nel saper trasmettere, fra una narrazione e l’altra, i dati oggettivi di quanto accadde a quei lavoratori, la cui sorte fu la medesima: il decesso sul campo, inteso in senso tragicamente reale, spesso per mancanza di soccorso: “forse per un malore. Questo termine è un grande contenitore dentro cui scompaiono e si archiviano troppi casi di sfruttamento.” – e questo mi fa venire in mente, assurdamente!, la battuta fatalistica tipica del mio gallico-latino-gotico idioma: l ē môrt perché a gh’ē gnû mânch al fiē, è morto perché gli è venuto meno il fiato.
Leggendo la Conclusione – Ecco il ‘Made in Italy’, più che il corpo del libro, che è così tragico da togliere la favella, mi sorgono in mente dei commenti.
“Un’alternativa non c’è.” – allo sfruttamento spietato del lavoratore, per lo più di quello straniero, in quanto egli è, per lo più, sprovvisto di assunzione regolare e di possibilità di scelta. In certe zone non c’è quasi mai una copertura legale per tali occupazioni lavorative. In altre invece, c’è, anche se incompleta.
Se un ispettore del lavoro s’imbatte in un lavoratore sprovvisto di permesso di soggiorno, magari intento a lavare i piatti, è tenuto a chiamare la forza pubblica. Quando, con i miei amici, frequentavo le terme di una città romagnola, nell’andare allo stabilimento, ci si imbatteva, intorno alle nove di mattina, in un’infinita serie di meretrici, per lo più di origine africana. Quando mi recavo di sera a giocare a biliardo con un certo Corrado, la strada era colma di passeggiatrici, per lo più, almeno così ci parevano, provenienti dall’Est europeo. Solo noi ce ne accorgevamo? La forza pubblica no?
Antonello, a pagina 141 de La Spoon River dei braccianti parli di “caporalato” e di “agenzia interinale” – che trasmette dei lavoratori alle varie ditte, con un discreto vantaggio economico. Non so che altro aggiungere.
Negli appalti a cascata, un’azienda grande non occupa propri dipendenti nella movimentazione merci, bensì operai di una ditta, che ha subappalto la commissione fatta a un’altra, che ha sub-appaltato la commissione fatta un’altra, che ha sub… okay, ci siamo capiti. In caso di inadempienze contributive esiste l’obbligazione in solido per tutte le società coinvolte, ma prima di arrivare in vetta… Non ci sono dubbi in proposito, vero?
“Momo trattiene una parte delle paghe o semplicemente fa transitare le quote per le bollette e l’alloggio decurtati dai padroni?” – pecunia non olet!
Ove occorre un’infinita ingiustizia, le persone più scevre da colpe sono le più sfruttate! Trovare un innocente diventa come trovare un ago in un pagliaio, o un quadrifoglio in un campo di pomodori!
A pagina 147 de La Spoon River dei braccianti parli di quel proprietario terriero che dichiara di lavorare “dieci ore al giorno, sabato e domenica inclusi.” – e per cui “Il lavoro è una religione.” – ma un Credo immune da colpe non c’è mai stato, se non ne l’espace d’un matin (come scrisse Françoise de Malherbe). Ed è subito sera (come ammonì Salvatore Quasimodo).
Non credo esista termine più schifosamente umano di “trickle-down, lo sgocciolamento dall’alto verso il basso. Occorre arricchire i ricchi in maniera che i soldi sgoccioleranno fino ai poveri.” – e pensare che fu ideato da chi scriveva i discorsi di quel celebre personaggio democratico che fu ammazzato a Dallas!
Per quanto riguarda la Riforma dell’indennità di disoccupazione – che tu propugni, ti ricordo che, come requisito occupazionale, si passò da un minimo di 51 a quello di 102 giornate, al fine di ostacolare le finte assunzioni mirate al conseguimento di prestazioni previdenziali. Ci si riuscì?
Proponi un Indice di congruità, che “incrocia la quantità di prodotto di un’azienda con i contributi pagati ai lavoratori. È un controllo relativamente semplice, ormai si può effettuare anche per via informatica.” – non mi pare sia davvero semplice, ma mi limito a dirti che, solo per l’agricoltura, la legge lo prevede da alcuni decenni. Mi diceva un ispettore, ora quasi ottantenne, che un tempo non si multavano le aziende con un numero minimo di lavoratori in nero (fino a tre, mi diceva). Il trattamento minimo delle pensioni risale a una legge del 1952, sancita per proteggere i lavoratori sommersi, di tutt’Italia, che non trovarono che per alcuni anni una loro regolarizzazione. Questa parola, sommersi, mi fa venire in mente il romanzo-saggio-verità di Primo Levi: I sommersi e i salvati.
Ti offro una mia teoria (e tu accoglila con beneficio d’inventario, in quanto io stesso non ne sono del tutto certo): il cosiddetto grigio reca più evasione previdenziale e fiscale del cosiddetto nero. Le sanzioni amministrative a esso mirate sono minori e, come si dice ad Amalfi, l’importante è fare ‘a parata, la dignitosa messinscena.
Come di certo sai, il visto turistico, in Italia, non consente di svolgere attività lavorativa, se non illegalmente. Si può rivedere la legge? Siamo certi che quel visto non risulterebbe idoneo a individuare la giusta ratio nella concessione di un, pur temporaneo e vincolato, permesso di soggiorno?
Esiste una legge del 7 dicembre 1989, la 389, che rapporta le ore lavorate alla paga oraria indicata nei contratti collettivi più significativi (senza che sia chiaro quali essi siano). Può essere utilizzata nel calcolo delle spettanze di tutti, compresi i nostri parlamentari? O si tratta di una folle utopia?
Chissà chi potrebbe rispondere, ai tuoi e ai miei interrogativi?
Questo forse lo so: una legislazione che fosse umana, democratica. In una sola parola: giusta.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Antonello Mangano, La Spoon River dei braccianti, Meltemi, 2024