Derek Raymond è uno scrittore noir perché ha scelto l’oscurità?
“Gli scrittori di noir devono essere pronti a spogliarsi davanti alla verità. Non basta descrivere un atto di violenza gratuita; la sfida sta nell’analisi dell’orrore della vita reale. Una volta intrapreso questo cammino, la verità costerà cara.” ‒ Derek Raymond, “Stanze nascoste”
Se la contiguità fra vita e testo è ricorrente negli scrittori di noir (le esistenze di Jim Thompson e James Ellroy sono lì a dimostrarlo), il percorso terreno di Derek Raymond (pseudonimo di Robert William Arthur Cook, Londra 1931-1994) rappresenta plasticamente il prototipo della biografia autoriale borderline.
Cresciuto in una famiglia facoltosa dell’alta industria londinese, Robert conduce l’infanzia tipica del giovane rampollo, fra la villa di Baker Street e la grande casa vittoriana chiamata Patteridge Place, a cinquanta chilometri dalla capitale (dimora in cui trascorre il periodo in cui infuria la Seconda guerra mondiale). Ben presto lo spirito ribelle e anarcoide che risuona in lui come il riff interiore di uno strumentista jazz lo spinge a rifiutare il torpore amniotico della borghesia metropolitana, con i suoi privilegi, il suo snobismo e i suoi meschini orizzonti, e nonostante all’età di tredici anni il padre lo iscriva al prestigioso Eton College, il suo istinto nel prendere le distanze da qualsiasi sospetto di normalità, per non essere trasformato in quello che non avrebbe mai voluto essere, lo porta a scappare, e a dare inizio a un personale percorso di iniziazione che lo condurrà a girare il mondo e a svolgere innumerevoli mestieri, spesso oltrepassando i limiti della legalità.
“Guardare una bufera di neve da una stanza ben riscaldata non è come trovarsi nella tormenta; ciò che non vive, perché non è stato mai vissuto, muore rapidamente sulla pagina, come un fiore in un vaso.” ‒ da “Stanze nascoste”
In Spagna, a Salamanca, si dedica al contrabbando di auto. In Algeria, a Tangeri, vive di espedienti. A New York, dove si sposa, svolge piccoli lavori in campo editoriale e commercia materiale pornografico. Lo troviamo ancora a Londra, prima tassista, poi prestanome nel campo dell’edilizia di una nota famiglia di malviventi, i gemelli Kray, “padroni” dell’East End. Si stabilisce in Francia, a Le Bourg, dove lavora nelle vigne per circa dieci anni, quindi a Parigi.
Infine, il ritorno a Londra, dove trascorre l’ultimo periodo della sua vita in un piccolo appartamento nel West End.
Un improbabile curriculum vitae, simile a quella di uno dei suoi riferimenti artistici, il pittore “maledetto” Francis Bacon, e il contatto con gli outcast del palcoscenico della vita, oltre a segnare il suo percorso esistenziale, disegna anche la geografia della sua produzione letteraria. In tutti questo tempo, infatti, tranne che in alcuni anni del periodo francese, scrive racconti e romanzi influenzato del suo nume letterario, Charles Baudelaire (proprio colui aveva sostenuto che il più grande inganno del diavolo è quello di aver fatto credere all’uomo di non esistere, e che era ben conscio del forte potere di attrazione che esercita il male).
Con la libertà morale e la franchezza degli outsider, in diciassette anni, dal 1976 al 1993, Derek Raymond compone i sei romanzi della “Factory” che lo renderanno famoso: “E morì ad occhi aperti”, “Aprile è il più crudele dei mesi”[1], “Come vivono i morti”, “Il mio nome era Dora Suarez”, “Il Museo dell’inferno” e “Quando cala la nebbia rossa”.
I personaggi della serie popolano una Londra cupa e nebbiosa come uno scenario di Caspar David Friedrich, circondati da una atmosfera impregnata da un ineludibile male metafisico sempre sul punto di materializzarsi in qualcosa di fisico, molto fisico. In questo climax, prende forma un mondo popolato da predatori deprivati di ogni sentire empatico, un mondo dominato dall’assenza del bene e in cui la malvagità attecchisce come una seconda pelle.
Il protagonista dei sei romanzi è un Sergente senza nome (come il Continental Op del maestro dell’hard-boiled Dashiell Hammett) della sezione A14 della Stazione di Polizia di Poland Street, la così detta Factory, quella degli omicidi di persone marginali e sconosciute.
La Factory gode di cattiva fama a causa dei maltrattamenti inflitti ai malviventi arrestati durante gli interrogatori. Il Sergente, voce narrante e coscienza del racconto, è un solitario a cui non interessa far carriera e che agisce senza socializzare coi colleghi. È tormentato dai fantasmi di un passato segnato dalla tragedia: sua moglie Edie è infatti internata in un ospedale psichiatrico per aver ucciso la figlia undicenne Dahlia.
Nel corso dei vari capitoli della serie, il Sergente, dolente prototipo dell’antieroe, si imbatte in pericolosi assassini psicopatici, ma i vari Billy McGruder, Ronald Jidney, oltre al bestiale serial killer di “Il mio nome era Dora Suarez”, non sono semplici predatori inter-specie da assicurare alla giustizia, ma anche gli specchi che riflettono i demoni di un’anima tormentata dal dolore, per troppo tempo a contatto con il male per non venirne risucchiata essa stessa.
Nel libro “Stanze nascoste”, sorta di testimonianza-confessione, Derek Raymond ci conduce nel suo universo più oscuro facendoci partecipi di un personalissimo percorso umano alla ricerca del nucleo più profondo del proprio malessere. Ma è anche una personalissima riflessione sul genere noir, la sua:
“Non avrei mai creato personaggi tormentati o malvagi se non avessi dovuto io stesso lottare contro il male. Ho condiviso le pulsioni dell’assassino che, una volta dominate e accompagnate dal terrore che ho vissuto con la vittima, mi hanno permesso di identificarmi con entrambi i personaggi, e diventare sia l’uno che l’altro.” ‒ da “Stanze nascoste”
Il quarto capitolo della serie, “Il mio nome era Dora Suarez”, è sicuramente il suo scritto più personale e sentito. Tratto da un reale caso di omicidio, il romanzo ha un inizio disturbante, che non si dimentica.
“Interrotto dalla vecchia, venuta a vedere che cosa stava succedendo nella stanza accanto mentre lui doveva ancora finire con la ragazza, l’assassino le saltò addosso senza una parola, la sollevò come fosse un sacco dell’immondizia e le fece sfondare la pendola accanto alla porta d’ingresso con una forza che neanche lui sapeva di avere. Non avrebbe potuto fare di meglio, constatò: era morta sul colpo.” ‒ da “Il mio nome era Dora Suarez”
Nelle prime quaranta pagine, vengono minuziosamente descritti gli efferati omicidi dell’ottantenne affittacamere Betty Carstairs e di Dora Suarez, una bella prostituta bestialmente dilaniata a colpi d’ascia. Sul luogo del delitto, il Sergente rinviene il diario della vittima. Leggendolo, coglie l’essenza di un’anima dilaniata prima ancora che lo diventi il corpo. Chi era Dora? Come aveva potuto perdersi in quel modo, senza alcuna protezione? Il Sergente instaura un legame dalle forti tinte emotive con la vittima, riuscendo progressivamente a penetrare nella sua mente, mentre, su un binario parallelo, procede il viaggio nella psiche dell’assassino, nella tipica simmetria assiale protagonista/antagonista, uno psicopatico serial killer che si autopunisce in modo violento per espiare il male commesso.
“Era l’imprevedibilità di un jolly nascosto nel mazzo della società a renderlo così pericoloso.” ‒ da “Il mio nome era Dora Suarez”
Alla fine, la sua ostinazione, la sete di vendetta, l’amore per la vittima e il senso di colpa per non essere riuscito a salvarla gli permettono di risolvere il caso. Non prima, però, di essersi immerso nei gorghi della pazzia e della malvagità.
“Mettete a nudo l’orrore; affrontatelo senza difese. Non nascondetevi, non fuggite, e troverete la pietà, anche se ha dovuto attraversare l’inferno.” ‒ da “Il mio nome era Dora Suarez”
Alla fine del romanzo lo scrittore è esausto, come svuotato di ogni energia. Nei diciotto mesi passati in solitudine alla stesura del libro precipita in un abisso oscuro.
“Se scendi nell’oscurità, ti lasci addosso delle tracce quando torni in superfice, se mai ci ritorni.” ‒ da “Stanze nascoste”
L’editore si sente male dopo aver letto il romanzo.
“Ho baciato i tuoi capelli e l’unica cosa che so è che sono legato a te, Dora. Non so fino a che punto della notte dovrò inoltrarmi per trovarti, ma cerca di aiutarmi, non dileguarti. Fa’ tutto il possibile per aiutarmi.” ‒ da “Il mio nome era Dora Suarez”
Derek Raymond utilizza un tempo post-mortem per cristallizzare l’orrore e permettere al corpo della vittima di essere osservato, compreso e infine amato. È la lenta ricostruzione del corpo di Dora, un corpo che non ha mai conosciuto, un corpo che prende forma nella sua mente in un disperato tentativo di protezione. Perché poi nessuno è morto finché qualcuno ti pensa, o ti evoca.
Dopo aver scritto il romanzo, lo scrittore deve prendere le distanze dall’impianto mimetico che lo ha portato a una rara immedesimazione e a una pericolosa empatia verso la vittima.
“Quando ne esci non sei più lo stesso. Hai ascoltato note che non esistono quassù, sulla terra, la scala non è la stessa. Dora continua a risuonarmi dentro perché i miei sensi si sono alterati, ora sono accordati diversamente. Ero stato risucchiato da ciò che descrivevo, e c’erano periodi in cui non riuscivo a distinguere il male in me dal male che avevo creato sulla pagina. Il confine fra me stesso e ciò che avevo evocato diventava sempre più incerto.” ‒ da “Stanze nascoste”
E come tenere gli occhi fissi sull’abisso finché l’abisso non ti restituisce lo sguardo, suggerendoti che un punto di fuga prospettico dal tuo orizzonte è necessario. Uno slittamento interiore, per esempio. Ed è qui che Robert Arthur Cook scompare e prende carne Derek Raymond (nomi di due amici di infanzia dello scrittore). Un cambiamento identitario che è come una sorta di scudo di Perseo, come lo stesso autore riconosce, un estremo tentativo per evitare di fissare negli occhi il male-Medusa e allontanare i demoni che gli avevano fatto visita durante la stesura del libro, e che lo stavano conducendo alle soglie di un pericoloso stato psicotico.
“Dora Suarez è stato il compendio di tutto il terrore che sono riuscito a concepire e a esprimere attraverso la scrittura. A volte sento ancora le sue suppliche; chiudo gli occhi e vedo le sue braccia protese verso l’ascia nel tentativo di far ragionare il suo assassino.” ‒ da “Stanze nascoste”
In “Il mio nome è Dora Suarez” Derek Raymond non si è limitato a descrivere il male ma ha dovuto immergersi in esso, attraversarlo, per potercelo infine restituire in una progressiva sottrazione di significato e poi lasciarlo lì, evidente, implacabile, ineluttabile nella sua banalità. Se può esserci una luce in tutta questa oscurità, essa è rappresentata dal trasporto empatico che l’autore ha per Dora e il suo tragico destino. Raymond prova un intenso affetto per il personaggio, emblema della più sfortunata marginalità. Dora è amata da Derek perché è lo stesso Derek, il marginale, a voler essere amato. Tuttavia, non ci potrà essere redenzione, solamente oblio.
Il noir può quasi considerarsi affine alla metafisica: una sua parte, e nemmeno la meno importante: “se cominci a scrivere di noir hai scelto l’oscurità. Ti liberi di ciò che una volta ti serviva per vivere nella luce e ti fai strada verso scale fredde e buie, finché non raggiungi una porta che apri e richiudi alle tue spalle. È una porta interiore in cui dividi la luce dall’oscurità, adesso ti trovi nel lato buio dell’esistenza.” ‒ da “Stanze nascoste”
È l’amore di verità quello che spinge lo scrittore a inabissarsi nell’oscurità. E alla verità, si sa, spesso si arriva per contrasti. Perché, come afferma ancora Derek Raymond: “non si può comprendere il valore della tenerezza se non si è sperimentato la brutalità”.
Written by Maurizio Fierro
Note
[1] N.d.E. Riferimento al primo verso de “The Waste Land” di Thomas Stearns Eliot che riprende il prologo della Primavera de “The Canterbury Tales” di Geoffrey Chaucer.