“Le case dei miei scrittori” di Évelyne Bloch-Dano: cercare le parole nello spazio

Il pellegrinaggio letterario nasce nel XVIII secolo con Voltaire e Rousseau; le dimore come santuari. Gli scrittori vi hanno celebrato una liturgia; e questa ha effuso su di loro la grazia della parola. Un’esperienza mistica, la visita; nell’epoca della tecnologia è diventata un circuito turistico. L’intimità si è persa; ma i letterati continuano a parlare nelle loro case, attraverso le loro cose.

Le case dei miei scrittori di Évelyne Bloch-Dano
Le case dei miei scrittori di Évelyne Bloch-Dano

Évelyne Bloch-Dano è un’autrice di biografie e saggi; studiava Lettere Moderne, quando visitò la prima casa. Quella che Proust descrive a fondo in Dalla parte di Swann; la casa di zia Léonie. Da allora ne ha visitate oltre centocinquanta; dall’esperienza di viaggiatrice nasce Le case dei miei scrittori (ADD Editore, 2019, pp. 271, trad. di Sara Prencipe e Michela Volante).

Il saggio Le case dei miei scrittori non è una guida turistica; l’intento dell’autrice è quello di collegare una casa con l’universo letterario di uno scrittore, di cogliere il legame tra un luogo e un’opera. Viaggeremo nel cuore del Vecchio Continente; scenderemo in Africa; ci spingeremo oltreoceano. Sentiremo il profumo delle erbe aromatiche di Les Charmettes; gli odori intensi e selvaggi della fattoria di Karen Blixen. Saremo flagellati dal vento di Normandia; accarezzati dalla brezza del Limousin. Siete pronti? Allora andiamo.

“Avevo diciotto anni, tornavo dal Portogallo. Sulla spiaggia deserta avevo letto d’un fiato Alla ricerca del tempo perduto e con la mente avevo viaggiato da Combray a Balbec, da Venezia al faubourg Saint-Germain. Era impensabile tornare a Parigi senza passare da Illiers, che non si chiamava ancora Combray, più per prolungare il sogno che per un’autentica curiosità. Così è cominciato il viaggio nelle case dei miei scrittori…”

Anche se lo scrupolo della biografa spinge Évelyne Bloch-Dano, ne Le case dei miei scrittori, a scovare il particolare realistico, il suo sguardo interiore segue la sua pista e rincorre le parole, i libri. L’intero universo simbolico dello scrittore prende corpo in un’atmosfera, nell’incendio dei muri rosa ai primi raggi del sole a Roma, nel vento delle stradine di Nizza popolate di fantasmi, nella bruma salmastra che avvolge la costa dell’Acadia, dove viveva Marguerite Yourcenar; nelle grida dei gabbiani a Étretat, nei canti dei galli a Key West, nello sferragliare dei treni ai piedi della tenuta di Zola a Médan. Talvolta è un oggetto, a richiamare un mondo: la minuscola scrivania di Balzac, la poltrona di Mallarmé, la macchina da scrivere Corona di Karen Blixen, il giardino d’oro e di porpora di Colette, il semplice tavolo su cui Alexandra David-Néel trascriveva i suoi resoconti da Llhasa, i mobili e i tappeti della casa di Dickens, il castello del Conte di Montecristo di Dumas.

Il nostro viaggio inizia a Épineuil. Spingiamo il portone della scuola; entriamo nel cortile. Henri (Alain) Fournier ha cinque anni quando arriva dalla Sologne; il suo unico romanzo, Il grande Meaulnes, è stato a lungo associato a questa regione. Entrambi i genitori sono maestri elementari; Monsieur Fournier è preside della scuola maschile, nel 1893 a Madame viene affidata la classe dei piccoli. Fino al 1898 Henri frequenta le lezioni del padre; siede nel primo banco accanto alla finestra. Essa affaccia sul giardino e sui campi; facile udire l’eco degli zoccoli nel cortile. Da quella vetrata, una sera d’inverno, il narratore François spia Augustin; il grande Meaulnes imbocca il sentiero bianco di brina. Nel 1994 un imponente restauro ha interessato l’abitazione dei Fournier, i granai e gli altri edifici; i lavori si sono avvalsi dei consigli di Andrée e Henri Lullier. Anziani maestri di Épineuil, essi succedettero ai Fournier nell’incarico; appassionati dell’opera del figlio, ne hanno alimentato la memoria. Per anni la scuola è rimasta vuota; i Lullier l’hanno ravvivata con parole e letture. Nel 1972 è stata riconosciuta come sito d’interesse culturale; la ricostruzione nelle aule è molto fedele. La casa invece fluttua tra memoria e immaginazione; una scelta volontaria che rispecchia l’intendimento di Alain-Fournier. Un andirivieni tra sogno e realtà; questo doveva essere Il grande Meaulnes.

Ci spostiamo sulla Loira. La Grenadière è un racconto intenso; così breve che si perde nell’immensità della Comédie humaine. Honoré de Balzac ne fa un crogiolo; vi racchiude i tratti salienti della propria vicenda biografica. La casetta del racconto si trova a Saint-Cyr-sur-Loire; qui il piccolo Honoré viene dato a balia appena nato. Vi resta quattro anni. La madre Laure gli nega l’amore; egli lo cerca altrove. Lo trova presso la sorella, Laure; poi presso l’amante, un’altra Laure. Nel 1830 soggiorna con lei a La Grenadière; quattro anni dopo decide di comprare la dimora. Con la morte della donna, Balzac rinuncia all’acquisto; tuttavia La Grenadière ricomparirà in un altro racconto. Essa esiste ancora; tutto è uguale, tutto è cambiato. C’è la scala in legno marcio, i camini, l’edificio sulla sinistra; ma i vigneti sono scomparsi. Lo sguardo non si perde più nell’azzurro della Loira; urta contro il cemento di Tours, oltre il fiume. A Saché nulla limita la vista; il paesaggio ha conservato la poesia e la purezza. Ventitré ore di carrozza sono estenuanti; l’anfitrione non è molto simpatico. Ma Balzac è disposto al sacrificio; tanto ama la quiete di quel luogo. Saché concilia l’estro creativo; Monsieur Margonne gli mette a disposizione una stanzetta al secondo piano. E Balzac compone; inizia alle prime luci dell’alba, prosegue fino alle cinque del pomeriggio. La stanza è rimasta come allora; un letto di campagna a baldacchino, un mobilio austero. Qui Balzac scrive Louis Lambert, concepisce Papa Goriot; qui riprende coraggio dalle sventure. A Parigi i cambi di indirizzo tracciano un itinerario inquieto; inseguito dai creditori, nell’ottobre 1840 affitta un appartamento a Passy. Ottimo affare, Monsieur Balzac; cinque stanze, al pianterreno. Doppio ingresso; meglio poter contare su una facile via di fuga, se le cose si mettessero male. Astuto, Monsieur Balzac; affitta l’appartamento sotto falso nome. A Passy vive per sette anni; oggi la casa ospita il Musée Balzac. Il luogo ha una triplice vocazione; casa, museo e centro di ricerca. Vi sono custoditi mobili e oggetti; ma l’unica stanza ricostruita è lo studio. Cosa significa? Che a Passy dobbiamo cercare lo scrittore, non l’uomo. Lo scarto tra l’esiguità delle cose e la grandezza dell’opera rispecchia il suo modus operandi; il mondo che stende sulla carta balza dalla camera oscura della sua mente.

Ripartiamo. Destinazione: Meyrignac-l’Église, nel Limousin. Ogni estate la famiglia Beauvoir lascia l’appartamento di Montparnasse; per due mesi e mezzo la piccola Simone vive l’incanto della “natura dalle innumerevoli pieghe”. Meyrignac, la casa dei nonni paterni; il paradiso perduto. Nella memoria di donna, si staglia la figura del nonno; appassionato di botanica, aveva progettato un parco panoramico. Grazie a lui, la bambina apprende i nomi degli alberi, dei fiori, degli uccelli; li ricorderà nelle Memorie di una ragazza perbene. Nel descrivere Meyrignac, le vecchie sensazioni si ridestano; Simone sospende l’analisi intellettuale e si lascia invadere dall’emozione. La felicità dei piccoli piaceri campestri; la libertà che a Parigi le è negata. In quella casa coperta di glicine, ha una stanza tutta per sé; dalla finestra aperta, assapora le notti estive. La bambina diventerà una donna; la donna una scrittrice. Simone de Beauvoir non tornerà più a Meyrignac; ma il suo amore per la vita è nato lì.

Ripartiamo. Destinazione: Ussy-sur-Marne. Samuel Beckett non era un uomo simpatico; rifuggiva la società, e il genere umano. Di certo non avrebbe apprezzato una targa commemorativa; specie se posta sul muro che cinge casa sua. Lo ha fatto costruire lui stesso; “voglio essere lasciato in pace”, il messaggio è chiaro. La villetta è un edificio cubico; quattro mura, tre finestre, una porta. Scarna; essenziale; il ritorno al linguaggio. Non eccelle per l’estetica; eppure non potrebbe essere diversa. Non potrebbe essere un’altra, questa casa voluta da Beckett; perché allora Beckett dovrebbe essere un altro. Una vita solitaria; di giorno i lavori campestri. Di notte scrive; chino sulla scrivania di quercia in soggiorno, concepisce molte delle sue opere.

Ripartiamo. Destinazione: Nairobi. Quella di Karen Blixen è una villa più che una fattoria; abbastanza bassa, rivestita di legno scuro, sorprende per la sobrietà. Nel 1914 Karen Dinesen arriva in Kenya per sposare un cugino; questi ha appena acquistato una piantagione. L’operazione si rivela un insuccesso; la fattoria è a 1.800 metri, troppo in alto per il caffè. Il marito va a caccia per settimane; la tenuta è nelle mani di Karen. Poco alla volta, ella scopre la realtà in cui vive; piante, animali, persone. La mia Africa è la storia di questa scoperta; dell’impegno di Karen per salvare la fattoria; degli indigeni, cui ella dedica tempo e attenzioni. Il restauro ricrea l’atmosfera intima della casa; oggetti originali dialogano con quelli ricostruiti. Sulla scrivania in biblioteca, la macchina da scrivere Corona; quasi magica agli occhi degli indigeni. Nel 1986 viene aperto il museo Karen Blixen; l’evento coincide con l’uscita del film di Sidney Pollack. Karen lascia la fattoria nel 1931; la porta alle sue spalle resta spalancata. Saluto e auspicio dei servitori.

Le case dei miei scrittori - Photo by Tiziana Topa
Le case dei miei scrittori – Photo by Tiziana Topa

Ripartiamo. Destinazione: Berlino. Il 22 ottobre 1948 Bertolt Brecht e Helene Weigel tornano a Berlino; hanno trascorso quindici anni in esilio. Nel 1953 Brecht affitta una casa in Chauseestrasse; l’edificio affaccia sul cimitero francese. La macchina da scrivere è sistemata su un tavolo accanto alla finestra; Brecht ama posare lo sguardo sulle lapidi. Negli anni ’50 egli si dedica alla difesa della sua concezione del teatro; lavora con la sua compagnia, ne diventa direttore artistico. Helene Weigel è amministratrice e prima attrice; la casa di Chausseestrasse è un centro di lavoro collettivo, incontri e discussioni. Brecht occupa il primo piano, Helene il secondo; al pianoterra si trovano le stanze comuni. Due universi; due modi di intendere la casa. L’ambiente di Helene ha un che di rococò e sentimentale; quello di Brecht è ispirato a raffinatezza e stilizzazione: ogni dettaglio ha senso e bellezza. Il suo studio è l’ex laboratorio di grafica; nove metri per nove, ben dieci tavoli. La disposizione dello spazio lascia la libertà di circolare; e di pensare.

Ripartiamo. Destinazione: Parigi; Centre Pompidou. Nel 2002 la mostra “La Révolution Surréaliste” ha scelto il Muro Breton come espressione di una rottura; dal periodo eroico del Surrealismo all’esilio negli Stati Uniti, durante la Seconda guerra mondiale. Il Muro è stato ricostruito grazie a un prestito; diventato proprietà dello Stato francese, oggi fa parte delle collezioni permanenti del Centre Pompidou. Esso comprende più di cento oggetti; la disposizione è quella originaria scelta da André Breton. Il Muro si trovava nella seconda stanza del suo studio, al 42 di rue Fontaine; l’artista vi abitava e lavorava dal 1922. L’atelier di Breton è stato la culla del Surrealismo; era invaso da oggetti etnografici, maschere, statue e sculture. Da questo magma è stato estratto il Muro; era dietro la scrivania, di fronte alla porta. La collezione di Breton era viva; la sua morte, nel 1966, la renderà fissa. Vi sono rappresentate tutte le categorie dell’Esposizione surrealista del 1936; tele e oggetti. Oggetti naturali; e trovati e interpretati e magici e primitivi. Nel Muro sono presenti tutti gli agenti di poesia e bellezza secondo Breton; dietro l’accumulo esiste un ordine reale. Esso implica una riflessione consapevole; la ricerca non sottende l’estetica ma il significato. L’insieme è organizzato come un dialogo tra linee di forza; dalla somiglianza, dall’opposizione, dall’urto visivo nasce la carica magica intesa dall’artista. Il Muro interroga sul rapporto tra Surrealismo e reale.

Ripartiamo. Destinazione: Combourg. Luogo mitico in mezzo ai boschi e alle lande bretoni; un perenne autunno che soffia addosso al giovane François-René de Chateaubriand. Gli infonde uno spirito; quella tristezza che sarà tormento e felicità per tutta la vita. In quei boschi egli concepisce il Romanticismo francese. Il padre aveva acquistato il castello nel 1761; era il segno del suo riscatto sociale. François vi dimora solo nel periodo delle vacanze; nessuno svago, pochi ospiti, tanto silenzio. A ogni ritorno troverà il castello sempre più diroccato; nel 1875 un discendente lo restaura secondo il gusto del tardo Ottocento. Chateaubriand è un uomo dalla doppia anima; giovane tormentato, ministro e pari di Francia. Nell’eremo di Vallée-aux-Loups i due aspetti si conciliano; egli vi si ritira nel 1807 dopo aver scritto un articolo infuocato su Napoleone. Vi resta fino al 1817, quando perde la pensione concessa da Luigi XVIII; l’addio è amaro. In dieci anni Chateaubriand ha trasformato quella “casa da giardinieri”; l’ha resa un luogo fertile, per il giardinaggio e per la creatività. Egli dedica una cura speciale al parco; da ogni viaggio porta con sé una specie arborea. Il restauro del 1985 ha cercato di preservare l’autenticità del luogo; intervento volto a restituire aspetti della personalità di Chateaubriand. E proprio nel parco si incontra la sua essenza più vera; gli alberi, la famiglia che gli sopravvive.

Ripartiamo. Destinazione: Port-Marly. Nel 1844 Alexandre Dumas pubblica I tre moschettieri; il successo gli arride. Ne approfitta; compra tre ettari di colline, incarica l’architetto di costruirgli un castello neorinascimentale. L’edificio si inscrive in una cornice grandiosa; un parco all’inglese e corsi d’acqua. Di fronte, il piccolo Château d’If; sui muri, Dumas fa scrivere i titoli delle proprie opere. Sulla facciata fa scolpire i ritratti degli scrittori che ammira; il suo è in posizione privilegiata. Nel 1849 i creditori lo costringono a vendere; vi resta sotto falso nome fino all’esilio, nel 1851. Il castello va incontro alla decadenza; nel 1972 l’intervento di un consorzio di comuni salva la tenuta. Non è un museo; è la casa di uno scrittore. Da Dumas padre passiamo a Dumas figlio; apposizione che egli sente come una condanna.

Ci spostiamo a Marly-le-Roy; una trentina di chilometri da Parigi. Alexandre Dumas figlio abita in una casa di Champflour; qui trascorre gli ultimi quindici anni di vita. Essa è l’immagine stessa del suo essere figlio; apparteneva a un amico del padre. Il giovane Alexandre vi si rifugia per scrivere; si ritrova erede universale. Nuovo proprietario, ne prende possesso nell’estate 1874; marito e moglie occupano un’ala ciascuno. Dumas muore nel 1895; una figlia mette in vendita la proprietà, divisa in lotti. La casa è rimasta intatta; l’unica modifica riguarda il giardino d’inverno.

Ripartiamo. Destinazione: Key West. Il primo soggiorno di Ernest Hemingway risale al 1928; in compagnia della seconda moglie Pauline Pfeiffer. La cittadina della Florida del sud ha un fascino tropicale; la coppia ne è incantata. Seguono altri soggiorni; nel novembre 1931 gli Hemingway vi si stabiliscono. Risiedono nella Spanish House al 907 di Whitehead Street; un regalo del facoltoso zio di Pauline. Nei primi anni Trenta la loro tenuta è la più grande della città; era stata costruita nel 1851 per un ricco mercante e avventuriero. In stile coloniale spagnolo, i muri in “coral rocks”; Hemingway ne è entusiasta. La raffinatezza della casa mal si concilia con l’immagine di lui, appassionato di virate al largo; di certo la decorazione di interni non è il suo interesse. E infatti l’artefice di tanta eleganza è Pauline; negli anni parigini aveva collaborato con «Vogue». Hemingway lavora dalle otto a mezzogiorno; lo studio è al primo piano di un piccolo edificio sul retro. La coppia si separerà; “Hem” tornerà più volte a Key West, approdo sicuro nella sua vita turbolenta.

Ripartiamo. Destinazione: Guernesay. All’arrivo sull’isola, Victor Hugo abita con la famiglia al 20 di rue Hauteville; il successo delle Contemplazioni gli permette di acquistare la grande casa al 38. Era stata costruita da un corsaro a inizio secolo; è messa in vendita a un prezzo stracciato. Il motivo? Si dice che sia stregata. Hugo non ha certo paura; poco dopo l’acquisto si apre il cantiere. Hauteville House è una delle sue creazioni più spettacolari; è concepita come un’opera vera e propria. Il drammaturgo, il pittore, il letterato; tutti concorrono alla trasfigurazione dell’edificio in poesia. Abbellita con citazioni e versi, Hauteville House è parola; Hugo ha ideato la “casa dello scrittore”. Sulla collina di Villequier riposa la sua famiglia; anche l’ultimogenita, annegata a diciannove anni. La casa che fu di Charles e Léopoldine Vacquerie è legata alla vita e all’opera di Hugo; il museo si è formato soprattutto intorno alla memoria della figlia.

Ripartiamo. Destinazione: Capri. Bruce Chatwin la definisce una delle case più strane del mondo occidentale; “una casa-metafora, da interpretare”, parole del nipote. A chi appartiene questo paradosso in muratura? Il proprietario è Curzio Malaparte; che ne è anche architetto, e padre. La casa sorge sulla sommità di Capo Massullo; sembra fondersi nel paesaggio roccioso. L’ocra rossa dei muri; la geometria delle linee; la vertiginosa pendenza della scala a trapezio sul fianco. Un vascello arenato sulla roccia, una prigione; questo l’aspetto. Il progetto è stato a lungo attribuito all’architetto razionalista Adalberto Libera; ormai è acclarato che è opera di Malaparte. Libera avrebbe solo disegnato una bozza; e prestato il nome per ottenere la licenza edilizia. Nel 1931 Malaparte è agli arresti domiciliari a Lipari; poi è trasferito a Ischia, quindi a Forte dei Marmi. Nel 1938 acquista il terreno all’estremità di Capo Massullo; ottenuto il permesso, affida i lavori a un muratore dell’isola. Un semplice capomastro, aiutato dai due figli; a loro si deve questa struttura straordinaria. Nel 1942 la casa è finita; Alberto Savinio disegna i mobili.

Ripartiamo. Destinazione: Illiers-Combray. Cittadina dal doppio toponimo; è sul confine tra realtà e finzione. Combray è il luogo mitico dell’infanzia; quella che Marcel Proust va cercando. La troverà attraverso la scrittura; a Illiers si va per scoprire Combray. La casa di zia Léonie oggi è il Museo Marcel Proust; apparteneva a Élisabeth Amiot, sorella del padre. A Illiers-Combray non c’è lo scrittore; ma il bambino della Recherche. I Proust vivono a Parigi; nell’ottobre 1900 traslocano in rue de Courcelles. Il nuovo appartamento riflette il prestigio del dottor Adrien; quattrocento metri quadrati, ingresso in marmo, ascensore. L’arredamento risponde a criteri affettivi più che estetici; in effetti i testimoni concordano nel giudicare orrendo lo scenario. Alla morte dei genitori, Marcel decide di trasferirsi; manda gli amici in cerca dell’appartamento ideale. I requisiti: deve essere silenzioso, sulla riva droite, lontano da polvere e pollini; e deve essere grande ma non costoso. Il 7 ottobre 1906 Proust firma il contratto; un locale al secondo piano del 102 di boulevard Haussmann. Ha trovato l’appartamento ideale? No; esso non presenta alcuno dei requisiti. Ma è appartenuto al prozio materno; questa scelta ben rappresenta Proust. “Non ho saputo decidermi ad andare a vivere in una casa che Mamma non ha conosciuto”; ammette. Jeanne e Marcel; mamma e figlio. Insieme sono soliti trascorrere la villeggiatura a Trouville; sotto il cielo cangiante della costa normanna. Alloggiano all’hôtel des Roches Noires; scelto da una clientela benestante, offre comodità e svaghi. A Trouville prende forma la vocazione di Proust; ma il frutto matura altrove. Cabourg è la nuova stella del turismo in Normandia; qui Proust si reca dal 1907 al 1914. Nel corso di otto soggiorni, l’opera si materializza; l’elaborazione e la redazione si compiono in questo laboratorio creativo. Nella Recherche Cabourg diventa Balbec.

Ripartiamo. Destinazione: Montmorency. Dicembre 1757; Jean-Jacques Rousseau ha trascorso un anno all’Ermitage, ospite di Madame d’Épinay. In seguito alla brusca rottura con la mecenate, lo scrittore lascia il castello; a piedi, sotto la neve, si avvia con la compagna verso il nuovo alloggio. Il procuratore fiscale del principe di Condé offre loro una casa in affitto; una proprietà sita nel giardino di Mont-Louis, a Montmorency. Per Rousseau inizia uno dei periodi più produttivi; cinque anni di fervida creatività, funestata da inconvenienti. Il 9 giugno 1762 è costretto a scappare; dopo la pubblicazione di Emilio è stato spiccato contro di lui un mandato d’arresto. In breve tempo Montmorency diventa un luogo di pellegrinaggio; nella casa di Mont-Louis è stato allestito il museo “Jean-Jacques Rousseau”. Montmorency è il Rousseau adulto; ma la giovinezza si lega a un luogo quasi mitico. Les Charmettes; qui la pervinca non ha mai smesso di fiorire. Una casetta aggrappata sul fianco della valle; pietre a vista, tetto in ardesia. A pochi passi da Chambéry, eppure lontana da tutto; Rousseau vi abita dal 1736 al 1742, ospite di Madame de Warens. Les Charmettes rappresenta l’iniziazione di Jean-Jacques; all’amore, alla conoscenza, alla musica, alla vita. La recente ristrutturazione non ha alterato l’insieme; nella casa il tempo continua a passare. Ma è come se non fosse mai passato; e l’incontro con Rousseau è intimo.

Ripartiamo. Destinazione: Nohant. Una bambina di quattro anni; una scrittrice settantenne. Il legame di George Sand con la terra del Berry non si interromperà mai; essa racchiude tutte le sue passioni, tutte le sue facce. Nohant è la storia stessa di Sand; quasi la sua metonimia. Qui la piccola Aurore acquisisce due doti preziose; buone maniere, amore per la libertà. Qui esercita le virtù femminili per tradizione; ma anche quelle maschili. Nuota, va a cavallo; e scrive. La pianta della casa testimonia un fermento continuo; Aurore-George cambia stanza in base ai bisogni familiari. La scrittura richiede pace; troppo trambusto nella casa di Nohant. Un’invasione di importuni e parassiti; George ha bisogno di una dimora più raccolta. Nel 1857 ha cinquantatré anni; da otto vive con Alexandre Manceau, amico del figlio. La coppia esce sulle rive della Creuse in cerca di farfalle; da un vallone scosceso si rivela loro Gargilesse. Un Eden; il suo fascino bucolico ammalia George. La nuova casetta è al centro del villaggio; essa traduce l’ideale campestre. Dono di Alexandre, la chiamano “villa Algira”, in onore della farfalla; George vi scriverà gran parte delle proprie opere. L’ultimo approdo è a Palaiseau; la loro vita potrebbe essere felice. Ma il destino decide altrimenti.

Évelyne Bloch-Dano citazioni
Évelyne Bloch-Dano citazioni

Ripartiamo. Destinazione: Cirey-sur-Blaise. Il castello sorge al centro del paese; la via è intitolata a Madame du Châtelet. È lei che offre un rifugio a Voltaire; la pubblicazione delle Lettere filosofiche lo aveva costretto alla fuga. La tenuta è ai confini della Lorena; conquistato, Voltaire intraprende lavori a sue spese. Ingrandisce, modernizza; ne fa un luogo di studi, di arti e di otium. Esule, a sessant’anni è stanco di vagabondaggi; e dell’altrui ospitalità. È tempo di essere padrone della propria casa; arriva a Ginevra. Decide di stabilirsi in un palazzo alle porte della città; lo ribattezza Les Délices. Mentre coltiva la filosofia, si occupa dei lavori; trasforma una casa di campagna in una dimora prestigiosa. Ginevra lo delude; nel 1758 acquista un castello a Ferney, in territorio francese. Qui Voltaire sperimenta le sue idee sul lavoro e sulla società; risana paludi, pianta alberi. Scrive e accoglie l’Europa intera. A Ginevra si celebra il filosofo; a Ferney si esalta l’uomo.

Ripartiamo. Destinazione: Mont-Noir. La Fiandra si affaccia nella vita e nell’opera di Marguerite Yourcenar. Orfana di madre, trascorre le prime dieci estati nella tenuta paterna; il Mont-Noir è lo sfondo di un’infanzia solitaria e felice. Le tracce del castello dei Crayencourt sono esigue; così quelle della presenza di Marguerite. Tuttavia quel legame è esistito; e ha ispirato la creazione di una residenza per scrittori. Nel 1950 Marguerite si trasferisce sull’isola di Mount Desert; terra indiana del Maine settentrionale battuta da rigidi inverni. La casetta è in legno bianco; oggi fa parte di una zona residenziale. La stanza più piccola è lo studio; Madame vi passa poco tempo. Scrive nella testa; e intanto passeggia o cura il giardino. Petite Plaisance è una casa di donne; viva, colorata, intima. Qual è il cuore? Forse è la cucina; dove Madame è solo Marguerite che impasta il pane. E non possiede il frigorifero; oggetto volgare e rumoroso. Marguerite riposa nel cimitero di Somesville; insieme a lei, la compagna Grace Frick.

Ripartiamo. Destinazione: Médan. Una villa? Un castello? O un cottage? La casa di Émile Zola non rientra in alcuna di queste categorie architettoniche; è un unicum. Cambia dimensioni e stile in base al punto di vista; presenta una evidente asimmetria. È un piccolo edificio quadrato, affiancato da due torri; una è rettangolare, l’altra esagonale. Zola è un “moderno produttore” di romanzi; e Médan è il rifugio ideale per il lavoro. A Parigi la ricerca, l’assemblaggio del materiale; a Médan l’elaborazione e la stesura. Nei registri del consiglio comunale, Zola figura come proprietario; “la letteratura ha pagato questo modesto rifugio”, scrive fiero a Flaubert. Il successo è arrivato nel 1877 con L’assommoir; con i proventi l’autore acquista il primo nucleo della casa. Ogni nuovo libro gli permette di ingrandirla; Nana finanzia una torre, Germinal il salone e la sala da biliardo. Romanticismo, Esotismo, Medioevo; e religiosità. Lo stile di Zola è sovraccarico; l’accumulazione è il riscatto dalla povertà. Ormai ricchissimo, egli resta fedele ai sogni di gioventù; e li realizza con quella casa, in quella casa. Zola vuole tante vetrate; due le tipologie. Alcune sono copiate dalle chiese; altre realizzate appositamente da un mastro vetraio. Non è un’ossessione, né una bizzarria; la vetrata risponde all’esigenza di astrazione. La visione deve aprirsi, invadere lo spazio mentale, per poi esprimersi con le parole; e Zola ha bisogno di allontanare il reale. La vetrata permette di immaginarlo, modificarlo; di trasformarlo in visione. La casa di Médan è l’autoritratto dell’uomo complesso che fu Zola; è l’autobiografia; è il diario del lavoro quotidiano.

Vi ho portato in un lungo viaggio; ma è solo un segmento. Quello in cui ci accompagna Évelyn Bloch-Dano ne Le case dei miei scrittori è un percorso più ampio; il saggio conduce nel privato di altri scrittori. Apre le porte di altre case; case di città o di campagna; appartamenti o ville; il “porto immobile” di Loti; la Dacia di Turgenev. Tutte hanno qualcosa da dire; tutte dicono molto di chi le ha abitate. “C’è quello che viene mostrato e quello che si nasconde, le sale consacrate alla socialità e le stanze segrete, le “stanze tutte per sé” in cui lo scrittore lavora e si ritrova. Nella casa di uno scrittore tutto ci parla, purché siamo capaci di ascoltare”.

Come non ricordare le parole di Niccolò Machiavelli? Egli scrive a Francesco Vettori; “venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio di quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali […]”.

La conservazione di case illustri pone questioni delicate. Come si può aprirle al grande pubblico senza alterarne la magia? Come modernizzarle senza snaturarle? Le case dei miei scrittori indica come questi dilemmi sono stati risolti; con interventi lungimiranti. E con scelte oneste.

 

Written by Tiziana Topa

 

Bibliografia

Évelyn Bloch-Dano, Le case dei miei scrittori, ADD editore, 2019

 

Info

Leggi una lettera di Charles Baudelaire a George Sand

 

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