“L’ombra della solitudine” di Paolo Roversi: i gialli raccontano la vita
L’ombra della solitudine di Paolo Roversi rientra nel genere noir del tipo moderno. Cioè? Di quello che non te lo manda a dire…. Cosa? In cui dialoghi sono quelli nervosi di tutti i giorni. Ah, anche di parolacce? Come no? Non si dicono anche quelle, tutti i giorni? Già!

C’è una novità però, rispetto ad altri noir. Quale? Eh… Se adesso ti ricomponi, e mi lasci parlare, te la dico, ma non interrompermi ogni secondo! Okay! Uffa! Di’ pure, tranquillo, mi sto silenziando…
Da che mondo è romanzo, i capitoli si dividono in due categorie diverse… I pari e i dispari… Oh! Zitto, te!
Nel presente noir L’ombra della solitudine, i pari e i dispari, con qualche improvvisa eccezione, appartengono tutti o a un io narrante, che è il protagonista… E gli altri? Ci sto arrivando, ma se dici ancora una mezza parola, chiudo la partita, okay? Bravo! Fai pure sì con la testa, senza… Ok?! Continua così!
Gli altri sono in terza persona, e lì il protagonista diventa comprimario.
Se il discorso non si capisce, l’unica è leggere il romanzo L’ombra della solitudine di Paolo Roversi, come ho fatto io, inizialmente faticando, un po’ perché non ho un buon rapporto con il linguaggio parlato preso di peso e gettato sulle pagine di una fiction, che non finge per nulla di essere educata. Un po’ perché non lo so. Non provo un’immediata simpatia per nessuno dei suoi personaggi. Mi capita spesso, specie all’inizio. Poi mi ci abituo, per cui succede che finisco per affezionarmi.
Il sottotitolo del romanzo è La nuova indagine di Enrico Radeschi.
Io sono nato col sillabario (mio papà forse con l’abaco, ma ai suoi tempi andare a scuola era un lusso). Mio figlio col computer. A un anno ha conosciuto Internet. Mia figlia è nata più o meno coi social. Ho anche un parente che stimo, a cui voglio bene e a cui affido la soluzione ai miei enigmi: lo chiamo zio, anzi, uncle, essendo di origine yankee. È un motorino di ricerca che va dappertutto! Una sua affine mi è pure zia, e qui non riesco a sottacere il suo nomignolo: Wiki. Come l’avrei voluta in casa quand’ero infante! E pensare che nei primi anni’90, nell’ufficio in cui lavoravo da una decina d’anni, ero uno dei più avanti dal punto di vista informatico. Pur ignorando certi astrusi dettami amministrativi, con un paio di click riuscivo a completare pratiche che, ai più anziani e dotti, normalmente sarebbero costate un bel po’ di tempo e fatica, talvolta anche di lacrime.
Ora a casa mia sono ancora il primo in classifica, soprattutto perché vivo abitualmente solo. Quando m’interfaccio (bello, eh?) coi miei due posteri, non sempre faccio una splendida figura, dal punto di vista telematico, ma mi difendo. È un po’ dura, e anche noiosa.
Ho letto numerosi libri scritti da esperti del settore. Quello che mi ha spaventato più di tutti, è stato Giovanni Ziccardi, col suo impietoso Dati avvelenati, la cui lettura m’ha procurato una sensazione di ebbra doppiezza, che m’ha fatto con-fondere con una specie di Doppelgänger in cui un po’ t’identifico ma da cui mi vorrei allontanare. Arthur Rimbaud, pur all’oscuro di tali fastidi, diceva Je est un autre: che mi sta controllando, sta entrando nei miei dati, che interagisce con me quando meno me ne accorgo. E lo fa con voce suadente.
A pensarci troppo si rischia una specie di schizofrenia.
Il mirabile thriller L’ombra della solitudine di Paolo Roversi induce il lettore a porsi dei quesiti esistenziali a cui fatica a rispondere.
Nella fascetta del libro leggo che il protagonista è “L’intraprendente giornalista hacker Enrico Radeschi…” – e il fatto non mi tranquillizza affatto. Con fare circospetto, proseguo la lettura…
So, perché l’ho letto in quel luogo che non esisteva fino a qualche decennio fa, che Roversi è uno studioso di Charles Bukowski, figura a me cara, che egli ha trattato in varie pubblicazioni. Nell’esergo al libro è citato il poeta da me più amato, che dà pure il nome al chihuahua del protagonista: “Rimbaud”. E già mi sento meglio.
Il protagonista de L’ombra della solitudine è “rimasto l’unico redattore di MilanoNera.” – un giornale di cronaca online.
Per sopravvivere in un mondo impestato dagli hacker è forse indispensabile essere uno di loro?
“… l’ossessione di tutti noi che lavoriamo nelle testate online: in quanti hanno letto il nostro pezzo? basteranno queste visualizzazioni per tenere in piedi la baracca? quanti click sui banner sono stati fatti? avrò messo insieme roba interessante per il pubblico?” – sono quesiti quotidiani, con cui è necessario convivere, di natura non diversa, in fondo, rispetto ad altri che attengono a ogni forma di mercificazione. Se nessuno acquista la tua roba, finisci per marcire nella miseria. Questo capita anche alla sempre più rara negoziante di chincaglieria, o al paltèin, com’era detto dalle mie parti il tabaccaio. Ogni appalto ha un suo costo, che va rimborsato. Il guadagno è un miraggio che talvolta può pure accadere.
S’indaga su un omicidio. La vittima, non so quanto casualmente, è la donna di Radeschi. Esercitava la professione più datata del mondo, seppure aggiornata all’ultima release, con tutti i rischi annessi e connessi. E questo accade da che mondo a mondo. Quello attuale non è l’eccezione a una regola, bensì l’ultimo aggiornamento in corso.
Con un certo rimpianto mi viene in mente la milf bionda, bassa e grassottella che stazionava a Cella, strada per Cavriago nei primi anni ‘80, e che incrociavo tutte le mattine quando facevo il postino trimestrale.
La prima parte del romanzo reca un titolo identico a esso. La seconda è Liz. Radeschi è tanto un giornalista d’assalto quanto un detective. Questo capita normalmente, nella realtà intendo. Chi intende pubblicare una notizia deve prima rinvenirla, magari ricorrendo “a un hacker cileno” – oggi on line si dialoga con chiunque, anche con chi abita dalla parte opposta del globo, oppure nel medesimo pianerottolo. Il tempo che occorre è pressoché il medesimo.
Liz è una “ragazzina”, ed è anche “il famigerato hacker che mi ha battuto per ben due volte.” – uno strambo personaggino verso cui provo un’empatia ridotta quasi allo zero assoluto e che, man mano che la conosco, mi reca un fastidio sempre maggiore.

Quando leggo che “non lesina carezze e grattatine sotto il mento” di Rimbaud e di Bernadette, la chihuahua che apparteneva alla vittima, cominciò a rivedere i miei dati.
Liz è in un’età (sedici anni) per cui può lavorare, secondo quanto sancisce la norma penale.
Radeschi, preso per il collo, l’assume, dicendole: “… Sarai remunerata in bitcoin. Me li procurerò rubando la corrente a qualche stronzo di una multinazionale nazista.” – di quelle che marciano a passo d’oca, per intenderci. Così imparano a credersi di una casta superiore a tutte le altre!
È il primo noir che leggo di questo autore, per cui non conosco il suo pard detto “Il Danese” – il quale a pagina 128 spara una frase che me le devo segnare (così sto ora facendo): “Tutti siamo cattivi in una storia raccontata male.” – essendo captivi occorre perciò tentare la salvifica fuga.
La prosa dell’io narrante è più briosa di quella dell’altro: “Sto in piedi grazie alla caffeina e alle pasticche di Ibuprofene che, ormai, mastico come se fossero caramelle alla menta. Il mio fisico urla che dovrei fermarmi, rallentare. Ma non ci riesco.” – dovrei fare così anch’io con ‘ste mie reazioni letterarie, ma ormai ho rinunciato a propormelo.
“Prima delle sette del mattino l’articolo ha macinato migliaia di visualizzazioni ed è stato condiviso centinaia di volte sui principali social.” – di sicuro più del mio articolo. Se lo scrivessi sul mio cellulare, inserirei a questo punto l’emoticon della faccina che suona quel piffero blu e viola e poi quella blu, tutta brinata. Ho deciso che, almeno per la restante parte della reazione, non metterò più nulla in corsivo, qualora non sia riportato nel romanzo: si tratta di reali emoticon! Poche balle!
“Scendo con calma le scale fino al marciapiede sotto casa, dove mi aspetta la mia fedele Vespa.” – modello nato prima dell’autore, o in quegli anni, non so. Ma perché non ne usa uno più recente? Forse perché serve più che altro a spostarsi in centro a Milano, mica va a tirarla in autostrada.
Passo sull’altro versante, stavolta pari: “Carla sa che il superiore, almeno quando mangia, vuole staccare.” – capita anche a me, anche mentre sto leggendo un noir di Valerio Varesi, che narra dei vari pranzi del protagonista, oppure al commissario di Andrea Camilleri e pure a Radeschi. In fondo ogni sapiens sapiens, per quanto eroico, è pur sempre un affamato parastatale.
A pagina 162 Radeschi cita “Fosbury”, atleta inventore dell’omonimo salto di schiena e che vinse l’oro in un’olimpiade svariati anni prima della nascita dell’autore: che sia un raffinato vintage?
A pagina 163 scopro che, incredibilmente, Liz ha un cuoricino che batte per qualcuno che è alato e che si è testé destato da un incerto letargo. Acquisisco, un po’ perplesso, il dato.
Una frase di Linus Torvalds (chiunque egli sia, qualunque essa sia) mi colpisce perché non la giudico facile da comprendere, ma è certamente da ammirare.
Poi capita a: “La piccola Salander è ancora più sveglia di quanto pensassi.” – per cui mi precipito da zietta a vedere di chi diavolo sia.
Nella pagina a fianco leggo di “piazza Cordusio” – il che mi fa ricordare il mio primo (e unico) Stipel di zinco. Anche a voi?
La sorte del “Danese” inquieta Radeschi. Non forse Liz, che “Ha la mia storia salvata sul suo laptop, sa tutto di me” – quel fatto avvicina i due hacker, che potrebbero un giorno scoprirsi consanguinei acquisiti, decisamente affini.
“Milano è di chi la ama, non ti chiede da dove vieni ma solo dove vuoi andare.” – se un reggiano o uno di Suzzara ci va di mercoledì, si chiede dove si stia recando quella turba di umani vestiti eleganti, a lavorare immagino. Se ci sbarca di domenica, si chiede invece dove siano finiti tutti. Ai laghi? Sui monti?
Liz “Ora dorme sul sedile di fronte con un paio di cuffie giganti supertecnologiche alle orecchie e il laptop sulle ginocchia, in perenne pericolo di caduta.” – senza manco il ciuccio in bocca. Qualcuno potrebbe chiedersi se l’ha mai avuto. O se sia nata col cellulare infilato nelle orecchie. È una tipetta insopportabilmente supponente. Bisogna saperci convivere.
Il mistero (un po’ orrendo) si chiarisce. E viene svelato là, dove tutto scorre, dove ogni cosa sarà memorizzata per l’eternità. Internet ha bandito per sempre la damnatio memoriae.
Una buona l’ha alla fine combinata.
Leggo nella Nota dell’autore: “… perché i libri, i romanzi, i gialli soprattutto, raccontano la vita. La nostra vita.” – finalmente ho rinvenuto un corsivo da condividere.
Non concordo col senso specifico della frase. Non in senso assoluto.
Anche il planare di un pipistrello sa narrare di noi. Così credeva il vecchio Bob Kane.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Paolo Roversi, L’ombra della solitudine, Marsilio, 2024