“Cose dell’altro mondo” di Annamaria Andreoli: che cosa lega Pirandello e Dante?

Diavoli e santi; redenti e dannati; penitenti sulla via della salvezza. Nelle tre cantiche della Divina Commedia vive l’umanità tutta; beatitudine, stridore di denti. Le anime si presentano a Dante; ormai rivestite solo della propria nudità. Il velo corporeo è caduto; Verità, non più parvenza. La vita vera non è in questo mondo; ma è nell’altro. Più di cinque secoli dopo, il lascito dantesco affiora nell’opera di Pirandello; narrativa e teatro sono gremiti delle larve di un’umanità tragica.

Cose dell’altro mondo di Annamaria Andreoli
Cose dell’altro mondo di Annamaria Andreoli

Nel saggio Cose dell’altro mondo (Salerno Editrice, 2022, pp.192) Annamaria Andreoli analizza il rapporto che lega Pirandello a Dante; scava nella produzione dell’agrigentino; con affilata precisione restituisce il sottotesto dantesco. Un ricco tessuto; non manca neppure nei carteggi famigliari. Il saggio insiste su un prezioso reperto; gli appunti stesi in margine ai canti XXIII-XXV del Purgatorio: l’unica testimonianza manoscritta del lavoro di Pirandello.

Sul tavolo degli artisti della parola c’è un libro sempre aperto, il libro che li accompagna per tutta la vita. La Divina Commedia segue Pirandello ovunque. Dante è il Poeta e il Padre della patria, il creatore della nostra lingua e il pellegrino nel regno dove i morti parlano. Nell’opera di Pirandello, moderno pellegrino nel regno misterioso della creatività artistica, parlano i personaggi.

Personaggi che fanno ressa intorno all’autore: “alcuni… balzano davanti agli altri e s’impongono con tanta petulanza e prepotenza, ch’io mi vedo costretto qualche volta a sbrigarmi di loro lì per lì. Parecchi mi si raccomandano per aver accomodato chi un difetto e chi un altro”. La scena è già vista nel Purgatorio (VI 5-9), quando i morti circondano Dante e cercano di sopraffarsi a vicenda, di scalzare il vicino per avere la meglio nel ricevere udienza. Dante “dalla calca si difende”. Un vero assedio: “qual va dinanzi, e qual di retro il prende,/ e qual da lato li si reca a mente/… e questo e quello intende”. In Cose dell’altro mondo assistiamo al faccia a faccia tra Pirandello e quel suo doppio d’eccezione che per lui è Dante, come emerge anche dalle note di commento che lo scrittore agrigentino ha steso di suo pugno in margine alla Divina Commedia.

Nel 1921 cade il sesto centenario della morte di Dante; ricorrenza solenne, celebrata con interventi di voci autorevoli. Pirandello è giunto al successo da poco; il suo teatro ha travalicato i confini nazionali, tanto è dirompente. Ebbene, il nuovo astro non manca di commemorare Dante; e prende la parola. Interviene da artista. Nel 1921 debutta Sei personaggi in cerca d’autore, pièce ricca di omaggi danteschi; essi molto suggeriscono sul rapporto che Pirandello intrattiene con la Divina Commedia. Egli definisce il personaggio; è una entità misteriosamente vitale. Non sfugge il riferimento alla doppia esistenza; quella di alcuni personaggi che Dante incontra nell’aldilà.

Lo status animarum post mortem non è uguale per tutti; alcuni peccatori commettono colpe di particolare gravità. Il loro corpo continua tra i vivi un’esistenza solo apparente; la loro anima si trova già nell’Inferno. Si tratta di una singolare specie di doppiezza; essi restano vivi ma in realtà sono morti. Qual è lo status del personaggio pirandelliano sul palcoscenico?

L’Arte lo ha creato in modo da renderlo vero; ma irreale. Le pronunce dantesche nei Sei personaggi sono quasi impercettibili; ma così potenti da farne creature di un altro mondo. Interviene da professore. Scrive La poesia di Dante; l’articolo viene pubblicato nell’«Idea Nazionale» il 14 settembre 1921. Pirandello legge Dante come poeta della passione civile, dell’invettiva arrabbiata; intanto l’attività drammaturgica si fa intensa, nutrita com’è dalla Storia. A dicembre conclude Enrico IV, la sua unica opera antiquaria; una tragedia medievaleggiante che dissacra il potere. J. L. Borges, in Italia nei primi anni Venti, assiste alla rappresentazione; è lui a cogliere la presenza di Dante nell’Enrico IV. Pirandello ha attinto al canto XXI del Paradiso; il personaggio di Belcredi è modellato su Pier Damiani.

I carteggi famigliari del giovane Luigi abbondano di citazioni dantesche; i congiunti, tutti, padroneggiano la Divina Commedia. Dante è una sorta di lar familiaris; il futuro scrittore si forma in un ambiente acculturato. Il ramo paterno, palermitano, si occupa del commercio; in quello materno, girgentino, si distinguono gli zii, Rocco e Vincenzo. Comune ai due clan è la passione politica; tutti hanno partecipato al moto risorgimentale e all’insurrezione siciliana del 1848. Combattere per l’Unità d’Italia e leggere Dante sono un unicum; questi è il Poeta italiano per eccellenza, il padre della Patria. Per le classi colte del Meridione il culto dantesco ha un valore in più; il “ghibellin fuggiasco” non era piemontese.

Pirandello si forma in un clima laico, antisabaudo e libertario; e in una famiglia che considera Dante il poeta identitario della nuova nazione. Una delle prime esercitazioni di Luigi riguarda Beatrice; è l’episodio di antropofagia onirica della Vita nuova (III). Poco si conosce degli studi liceali e universitari; sappiamo però che la precoce vocazione alla poesia si intreccia a essi. A Palermo Pirandello frequenta i notabili dell’intelligenza cittadina; la sua formazione non è affatto provinciale. È invece affine a quella dei coetanei in Europa; ma la sua familiarità con la poesia di Dante non è paragonabile. Gli studi filologici non lo soddisfano; rifiuta il destino di scialbo professore, ligio al meticoloso metodo positivista. Prima di laurearsi a Bonn, lo troviamo a Roma; lì frequenta la scuola di Ernesto Monaci, mentore di una nutrita schiera di dantisti. Il 15 gennaio 1888 Carducci presenta alla platea romana L’opera di Dante, frutto di trent’anni di studio; egli vede nel “poema sacro” una didascalia dell’Italia medievale. Il 17 gennaio Pirandello scrive una lettera alla famiglia; promette che riferirà a voce della conferenza. A Roma è ospite presso lo zio materno; l’avvocato Rocco Ricci Gramitto, già camicia rossa in prima linea accanto a Garibaldi. L’amor patrio lo aveva acceso in battaglia a Milazzo e in Calabria; e gli aveva dettato versi ispirati. Ancora per ragioni patriottiche nel 1874 scrive una Francesca da Rimini per musica; il libretto esce in Girgenti nel 1878, presso la stamperia Montes. Pirandello non ne farà mai menzione; eppure l’influenza di zio Rocco si sedimenta a fondo nella sua opera.

Cose dell'altro mondo di Annamaria Andreoli Photo by Tiziana Topa
Cose dell’altro mondo di Annamaria Andreoli Photo by Tiziana Topa

Nelle lezioni sulla Divina Commedia, Monaci illustra la poetica del “coro unanime” e della “voce” singolare; fiume sotterraneo e perenne, essa sopravvive nel Pirandello maturo. Dante aveva attinto a un sostrato culturale ormai perduto; ma gli innumerevoli racconti orali sono confluiti nelle tre cantiche. Le poesie di Pirandello hanno scarso successo; critici e amici non lesinano stroncature. Fa eccezione Arturo Graf; egli spende parole di elogio per Mal giocondo. Pirandello lo ammira come poeta; come studioso gli deve la conoscenza dello statuto del Purgatorio. Graf va alla ricerca del “fiore della storia”; la leggenda, la genuina vox populi. Nel Purgatorio la purificazione segue un moto ascensionale; Dante stabilisce una perfetta equivalenza tra il secondo regno e la montagna.

Pirandello opera un prelievo; i suoi personaggi sono anime penitenti. Reclamano attenzione; fanno ammenda delle colpe, esibiscono le piaghe. Da drammaturgo, egli fa ancora di più; dota le commedie di dinamismo ascensionale. Veniamo agli appunti relativi ai canti purgatoriali; essi riguardano il contrappasso dei golosi. Nel canto XXIII Dante incontra Forese Donati; lo riconosce dalla voce. Pirandello verga rapide note informative su Forese; insiste piuttosto su un altro aspetto. Lo attrae la dimensione del suono e del movimento; “lo scialo della rima – Nella contradanza quella figura si chiama il giro delle mani”.

Gli appunti di Pirandello si infittiscono intorno al canto XXIV; sono delle osservazioni circa il dialogo tra i due amici. L’uno, Dante, è vivo; l’altro è morto, sì. Ma non semplicemente morto; Forese sembra due volte morto. Pirandello legge l’episodio in lente sequenze; va in cerca di ombre, le suddivide in varie categorie. I morti una volta, i morti due volte; l’ombra di “nostra vita”, proiettata da Dante. La produzione pirandelliana prevede un quarto tipo; sono le mezze ombre. Non tutti “si muore allo stesso modo; qualcuno resta fra noi clandestinamente”, afferma l’autore. Forese rivolge a Dante una domanda che suona inquietante; gli chiede quando lo rivedrà. In modo più crudo: quando Dante morirà?

La dimensione della morte è onnipresente nell’opera di Pirandello; dalla morte deve venire la ratio che guida le nostre azioni. Alcune annotazioni riguardano il dialogo tra Dante e Bonagiunta Orbicciani; il capofila del “dolce stil novo” enuncia la natura della propria scuola. Pirandello la assimila al Sincerismo, corrente da lui stesso ideata; una reazione al Verismo, ormai di maniera. Perché gli appunti su Forese sono così fitti? Perché la sua risposta introduce il tema dello specchio; Pirandello ne fa una metafora della propria opera.Quando uno vive, vive e non si vede. Orbene, fate che si veda nell’atto di vivere in preda alle sue passioni, ponendogli uno specchio davanti […]. Insomma, nasce un guaio per forza. Questo guaio è il mio teatro”.[1]

Dante, in quanto narratore, viene ignorato; Pirandello lamenta la lacuna dei contemporanei. Egli insiste su punto di forza; Dante “si apparecchia” da sé la propria materia, è poeta e personaggio del racconto. Francesca da Rimini si riaffaccia nella vita di Pirandello; terreno di un astioso duello con l’odiato rivale. Il 9 dicembre 1901 al teatro Costanzi di Roma va in scena la tragedia Francesca da Rimini; una divina Eleonora Duse nei panni della protagonista. Un trionfo. Tra il pubblico siede Pirandello; a sipario calato, non risparmia il disprezzo per il lavoro di quel “pasticcione”. Il pasticcione è d’Annunzio. La risposta alla Francesca da Rimini non si fa attendere; insieme a Giovanni Alfredo Cesareo, Pirandello compone una tragedia omonima. Deve insegnare a d’Annunzio come si fa la vera poesia drammatica; è sicuro di batterlo. Al debutto, nel 1905, il dramma ottiene solo fischi; possiamo immaginare la frustrazione e il livore di Pirandello.

Nel 1319 Giovanni del Virgilio invita Dante a Bologna; l’Egloga II è la risposta in rime latine. Il Poeta spiega le ragioni che gli impediscono di partire; sta per ultimare la Commedia, già scritta sebbene sia ancora da scrivere. Dante è il pastore; è con lui la mansueta pecora “gratissima”, che gli offre il latte divino. Pirandello non è indifferente alla metafora dantesca; nella Prefazione ai Sei personaggi in cerca d’autore la pecora “gratissima” diventa una “servetta sveltissima”, “un po’ dispettosa e beffarda”.

Il 3 febbraio 1916 Pirandello è a Firenze, in Orsanmichele; nel cuore del culto dantesco si tengono le prestigiose Lecturae Dantis. Egli sceglie il canto XXI dell’Inferno; quello dei diavoli nella bolgia dei barattieri, bolliti nella pece. Alla Lectura segue la stampa; si intitola La commedia dei diavoli e la tragedia di Dante.

Nel 1921 Pirandello pubblica Dialettalità, un saggio sull’annosa questione della lingua; non mancano i riferimenti al De Vulgari Eloquentia. Qual è la lingua della classe colta? Pirandello non ha dubbi; è italiana, ma attenta al parlato prossimo al dialetto. Esso la rende viva; la nutre di espressività, soprattutto grammaticale e sintattica. È plausibile che Pirandello ricorra a Dante per un motivo a lui caro; nel De Vulgari Eloquentia trova una vena umoristica. In qualibet redolet civitate, nec cubat in ulla; secondo Dante il volgare ideale profuma in ogni città, e non risiede in alcuna. L’odore caratterizza la lingua; Pirandello parla invece di “sapore idiotico, dialettale”. Il verbo redolet appartiene all’olfatto; definisce un’allegoria. Alla ricerca del volgare ideale, Dante si traveste da cacciatore; punta una mitica belva. Essa dovrebbe rappresentare l’insieme dei vari volgari; secondo l’etimo è la panthera. Non solo; un’arcana credenza le attribuisce un intenso profumo. Pirandello trova irresistibile questo Dante venatorio; e comiche le fatiche che affronta. Dante arriva perfino a sarchiare pur di catturare la pantera; la quale non si trova. La caccia è fallita.

Nel 1921 Benedetto Croce pubblica La poesia di Dante; a Pirandello non sembra vero poter vendicare un’onta. Nel 1909 Croce ha censurato duramente L’umorismo; sulle pagine dell’«Idea Nazionale» l’offeso sferra il colpo. Distinguere nel poema tra “struttura” e “poesia” è sciocco; parola di Pirandello, difensore dell’allegoria. La pungente recensione si colloca sullo sfondo di una netta cesura; la Scuola storica cede il passo alla Scuola neo-idealistica.

Nel 1924 Pirandello conosce la donna che sarà la sua Musa; l’amore carnale seppur mai consumato; la sua Beatrice. Marta Abba gli sembra l’incarnazione di uno dei suoi personaggi; giovane, bellissima. Pirandelliana fin nel nome; come Marta Ajala, protagonista di L’esclusa. “La vita o si vive o si scrive”; lo ha ribadito spesso, Pirandello. Marta scioglie il dilemma; egli vivrà e scriverà per lei. Esiliato, scontroso, Pirandello insegue un pensiero ossessivo; la sua preoccupazione è lanciare Marta, in Europa e in America. Amore stilnovistico; il Maestro canta la propria donna, aspira alla gloria dell’attrice. All’inizio degli anni Trenta è ora di rendere nota la natura del loro rapporto; impresa alquanto spinosa.

Nel 1932 la casa editrice Mondadori pubblica L’uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello; un profilo biografico firmato da Federico Vittore Nardelli. Il quale ha tutta l’aria di un uomo dello schermo; perfetto in una vicenda dal contorno stilnovistico. Dietro la firma di Nardelli c’è lo stesso Pirandello; il capitolo Marta Abba reca chiara la sua mano. Marta è “musa viva dentro la finzione dell’arte”; Antonietta è “musa morta dentro la realtà della vita”. Pirandello si considera vedovo; l’Arte sposta il confine tra la vita e la morte.

Annamaria Andreoli citazioni
Annamaria Andreoli citazioni

Nel dicembre 1936 Marta è a New York, in trionfo; quando riceve la lettera dall’Italia è già accaduto. Martedì 12 gennaio 1937 l’attrice calcherà la scena; alla fine della rappresentazione ricorderà il Maestro con “poche e semplici parole”. Ma dopo che avrà letto il canto V dell’Inferno; quello dell’amore eterno di Paolo e Francesca. Un giudizio radicato considera Pirandello scrittore “non libresco”; un eccentrico, estraneo alla tradizione remota e meno remota. Un talento individuale; del tutto risolto nella propria interiorità travagliata. Non sarebbe dunque necessario andare alla ricerca di fonti; basta ripercorrere motivi e intrecci ricorrenti.

Cose dell’altro mondo offre uno strumento critico per guardare più a fondo; esso permette di ridefinire la produzione di Pirandello come un incessante, insistito e insistente dialogo con Dante. Una pletora di dantisti, dantomani, fino ai “dantolatri” si accalca intorno a Pirandello; egli invece rifugge la vuota ripetizione di stilemi, l’esercitazione stilistica fine a sé stessa. Giovane studente; scrittore in fieri; Maestro; in ogni versione di sé, è sinceramente curioso. Terreno fertile per gli innumerevoli stimoli offerti dal corpus dantesco; Pirandello recupera, sperimenta, scompone e ricompone. Agisce come un architetto; preleva materiale di riuso da un edificio antico. Ne fa un organismo nuovo, che parla un linguaggio nuovo; e antico. Attraverso la sua voce, la voce di Dante continua a risuonare; parla ai lettori, ai letterati ai poeti agli accademici. Pirandello e Dante; Pirandello è Dante. Le linee delle loro vite si congiungono in più punti, fin nell’esilio; anche l’agrigentino conoscerà “quanto sa di sale il pane altrui”. La simbologia dell’Inferno è sottesa nei suoi scritti; la sua stessa persona emana un’aura infernale. E se ne compiace, Pirandello; fiero di essere chiamato “demonio”, si impegna ad apparire tale. Capelli tagliati in punta di forbice; un riso tagliente che strappa le carni. Malacoda, Fanfarello, Barbariccia; Luigi Pirandello, il “demonio raso”. Non vuole insegnare; ché il ruolo accademico gli va stretto. Ma la sua lezione è preziosa per tutti. Qual è il modo per consentire a Dante di parlare nel volgere dei secoli? Interrogare la Divina Commedia, attraversarne il gran mare; e agirla.

 

Written by Tiziana Topa

 

Note

[1]    Corriere della Sera, 28 febbraio 1920.

 

Bibliografia

Annamaria Andreoli, Cose dell’altro mondo, Salerno editrice, 2022

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *