Gianluca Capozzi: sguardi all’interno di una stanza
Gianluca Capozzi vive e lavora ad Avellino, città dove è nato nel 1973. I suoi studi artistici l’hanno portato a frequentare l’Accademia di Firenze e di Granada, mentre sue opere sono state esposte in tutto il mondo, dalla Polonia a Cuba, dalle Filippine all’Austria, da New York al Nepal, dall’Etiopia alla Cina, dalla Francia all’Inghilterra, dalla Spagna all’Iran e non proseguo oltre.
Nella mia Torino Gianluca Capozzi è di casa, essendo stato ospitato alla Fondazione Sandretto, alla Galleria Allegretti, al Velan Center, ad Artissima, alla Galleria metroquadro ecc.
In un’intervista rilasciata ad Artribuine nel 2019, l’artista ha dichiarato: “Mi piacciono le cose sospese oltre tempo e spazio”, e in questo senso di sospensione, di indefinito, di ricordo perso nel passato eppure ricreato nel presente, è l’essenza profonda delle sue opere.
Qualcosa di sfuggente è anche nei (non) titoli dei quadri, catalogati come untitled e un numero progressivo, perché non è un’etichetta che deve guidare lo spettatore nel suo percorso interpretativo; deve essere l’opera stessa a comunicare. Ovviamente non intendo dire con questo, e scusate se mi riallaccio a una polemica di forse tre anni fa, che a un artista debba essere vietato di esprimersi, di difendere le proprie idee, di chiarire i propri messaggi usando altri mezzi oltre a tela e pennello; l’artista, però, deve accettare che i critici e il pubblico possano interpretare una sua creazione in modi divergenti da quelli che lui intendeva proporre. Se Leonardo ci avesse spiegato il sorriso accennato della Monna Lisa, adesso non potremmo ammirarla e studiarla con la stessa affascinata passione.
Poco successo ha un lavoro che ripete sempre e a tutti un messaggio monocorde. I quadri che sono nel mio studio, li ho scelti perché, ogni volta che mi fermo ad osservarli, mi parlano con voci cangianti a seconda della luce, del mio umore e di chissà quale altro mutevole elemento.
Tornando a Capozzi, le sue sono certamente opere che inviano messaggi diversi e originali, con le quali un dialogo è necessario e sempre appagante.
Questo anche quando siano opere dove il soggetto sembri ripetitivo. Facendo riferimento alla mostra Sequences of a panorama, che è stata esposta dal 2 febbraio al 28 marzo 2024 alla galleria metroquadro, in minuscolo è perché il nome è davvero in minuscolo, sita in corso San Maurizio a Torino, almeno in quattro tele ci viene mostrata la stessa stanza, arredata in modo decisamente fuori moda, stile anni ’70; un salottino come si vedeva nelle pubblicità dei giornali che celebravano i nuovi elettrodomestici ‒ lavatrici, aspirapolvere, fornelli, radio e televisori ‒ destinati a semplificare e divertire la vita domestica delle belle casalinghe e giovani impiegate con i loro mariti.
Adesso tutto ci sembra kitsch, come il pavimento a quadrati rossi e bianchi, la parete giallastra o i cuscini a motivi ocra e marroni sul divano color caffè; i miei nonni materni ne avevano uno quasi uguale. E come non notare il lampadario dalle tante lampade che si aprono a raggiera? Allora erano di moda così e avevano la caratteristica di fare sempre poca luce.
Questa stanza dipinta da Gianluca Capozzi più volte, esaminata cambiando i punti di vista, è popolata da presenze appena accennate, evanescenti contorni di figure femminili, con le pettinature che ci riportano alle modelle di quegli anni perduti, successivi al miracolo economico italiano.
Un contesto benpensante, di una nuova borghesia piccola piccola, maschilista se vogliamo sottolinearlo, soddisfatta e sognante nel modesto lusso che si è conquistata dopo le sofferenze degli anni della guerra e del primo dopo guerra.
Le giovani donne che ammiriamo in altri quadri, si godono il piacere semplice di distendersi al sole, di lavarsi in una vasca da bagno, di sgambettare in aria con nei piedi inadatte scarpette rosse, o di telefonare nude, rannicchiate in una poltroncina, abbracciate a un cuscino.
Immagini che portano la serenità di una vita in cui ci si accontentava e si gioiva di quello che si aveva, persa per avventarsi voracemente in un mondo egoista e tecnologico, in cui troppo si possiede e di nulla si prova piacere.
Eppure il sentimento di rimpianto che a me è venuto istintivo, proprio per i messaggi e le aggiunte che l’artista sa inserire, ha come contraltare note che avvertono che questo mondo perduto è un mondo idealizzato, che non è stato come crediamo di ricordarlo e riviverlo. E dal passato, con un brivido, torniamo al presente, al bisogno di recuperare non quei momenti, quanto i valori perduti.
Alla fine, per l’uomo moderno sempre di fretta, ripiegato sul proprio cellulare, in lotta con tutti e con tutto, avido ed eternamente insoddisfatto, arriva l’esortazione a vivere un’esistenza meno logorante, con le sue pause, lasciando che lo sguardo scivoli lento e sappia soprattutto cogliere i fantasmi di quanto è accennato, trasparente, nascosto, tuttavia più reale e importante di quanto percepiamo al primo affrettato sguardo, che riusciamo a posare sui panorami che ci circondano.
Quanto inizialmente si presentava come un ripiegarsi sul passato, diventa così l’utopia di un nuovo mondo, dove si possa essere attivi e dialoganti con l’anima nascosta degli oggetti, respirando con essi un comune e pulito respiro.
Written by Marco Salvario
Photo by Marco Salvario
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