La ricerca ossessiva della perfezione, ovvero la necessità di postare

Il Festival di Sanremo, criticato da molti ma seguito da altrettanti, si è trasformato nella vetrina italiana per la promozione delle tendenze sociali e social.

Ricerca della perfezione nei social network
Ricerca della perfezione nei social network

In particolare, si evince la ricerca forsennata della perfezione, che nasconde dietro di sé il bisogno impellente di essere notati.

In quest’epoca in cui le stories durano 10 secondi e la concentrazione pure, sembra che ci sia la necessità aggressiva di essere ricordati. Non è importante per cosa, è importante il “chi” e come esso appare.

La promozione dell’individualismo, più che l’individualismo in sé, è ciò che più interessa al singolo. Quindi è essenziale raggiungere la perfezione esteriore, ma anche e soprattutto l’assunzione di un atteggiamento forte e fragile al punto giusto, per destare sentimenti sia di empatia sia di ammirazione e invidia.

Tutte le star in gara, quindi da BigMama ad Annalisa, da Gazzelle a Dargen D’Amico, sono stati vestiti da brand che li hanno spinti ad apparire come modelli di riferimento per lo stile. C’è chi si è presentato con outfit eccentrici, chi da sexy lady, chi da punk, chi da mistress. Tutti erano in disperata ricerca della definizione della propria personalità attraverso i vestiti e il trucco. Così ci ricordiamo di Angelina per il suo estro da ragazza popolare del sud, ci ricordiamo dei Ricchi e Poveri per il loro tentativo di “ringiovanire” attraverso esibizioni un po’ cringe.

Qualcuno ovviamente potrebbe obiettare e dirmi “Beh, questo è intrattenimento, è normale che sia così e voglia essere ricordato”, e io non posso che essere d’accordo. Tuttavia Sanremo è solo il punto di inizio, nonché lo specchio di quello che sta avvenendo nella realtà. Infatti, guardandomi intorno, fra filler spropositati e ciglia finte, fra auto da migliaia di euro comprate a rate e file per acquistare l’ultimo Iphone senza busta paga, sembra che il tentativo di essere/possedere tutto quello che la moda detta sia l’unica maniera per definire la propria personalità. Di conseguenza, l’autenticità della propria identità personale, con annesse caratteristiche fisiche e caratteriali, e il seguire i propri gusti spontaneamente, sembrano essere diventati meno rilevanti rispetto alla crescente tendenza di impersonare il proprio personaggio basato sul profilo social.

In pratica, la scelta di adottare un’identità social specifica è diventata essenziale. Ad esempio, se si presenta un feed con un’estetica punk, ci si potrebbe trovare ad adottare un atteggiamento misterioso nella vita reale. Oppure alcune femministe ‒ per moda ‒ potrebbero scegliere di indossare t-shirt, pagate centinaia di euro, con slogan come “f*ck patriarcato”, non considerando però che tali capi potrebbero essere stati prodotti da lavoratori sottopagati, magari bambini, in luoghi come il Bangladesh.

Così non si viaggia più per il gusto di scoprire, ma per la necessità di postare. Non si mangiano più cibi buoni, ma si ordinano cibi instagrammabili. Non esistono più le mostre degli artisti, ma vengono allestiti musei dei selfie. Questa è la cruda realtà della rivoluzione digitale: non è più il mondo ad apparire sui social, ma sono i social che con i trend dominano il reale e l’identità. Sembra, in generale, che il personaggio abbia avuto la meglio sulla persona.

La ricerca della perfezione

La conseguenza devastante di questo fenomeno sociale universale è la ricerca ossessiva per la perfezione estetica e, talvolta, anche morale. Infatti soltanto l’eccellenza può far raggiungere l’approvazione social, e quindi, sociale. La costruzione del proprio valore passa inevitabilmente per la quantità di reazioni positive, come like o commenti, che un contenuto ottiene. E il paradosso è che non esistono meccanismi di feedback negativi, in quanto non ci sono “pollici in giù” e i commenti, spesso, possono essere limitati o nascosti se sgraditi. Quindi tutti, dal vip al vicino di casa, dall’influencer al coinquilino, hanno la possibilità democratica di raggiungere la vetta della perfezione e della gloria digitale.

Il problema è che però, seppur si riesce ad ottenere un trono sul Monte Olimpo, non è detto che sia per sempre. Infatti, ciò che caratterizza concretamente l’identità fisica e morale del personaggio è la provvisorietà. Quindi, da un momento all’altro, per uno scandalo, per un outfit sbagliato, per una parola fraintesa, per bugie scoperte o azioni giudicate malsane dai follower, la seduta dorata potrebbe crollare e con esso tutto ciò che è stato costruito.

La caduta in picchiata è doppiamente dolorosa: non solo viene perduto ciò che si ha, ma soprattutto ciò che si è. Quindi il tradimento della perfezione, fisica o morale, equivale alla cacciata dall’Eden. L’imperfezione, d’altra parte, è concepita come una colpa. Trascurare l’acne, il vestiario, i chili di troppo o i capelli crespi equivalgono ad una povertà identitaria. Chi non si cura, allora, non merita assoluzione, perché l’unico valore fondante è la bellezza. E la bellezza è raggiungibile solo attraverso la compravendita di prodotti, sempre più specifici, sempre più speciali, che richiamano al miracolo.

Ed è proprio qui che il capitalismo affonda le sue radici, schiacciando l’originalità in nome di una società da rendere visivamente eguale. Infatti, se alle persone è inculcato il pensiero di poter raggiungere quel modello di perfezione, allora le aziende hanno un compito facile: proporre dei prodotti che promettono di ottenere quella determinata estetica.

Tuttavia il raggiungimento del modello di riferimento è in realtà irraggiungibile, non solo a causa della temporaneità del modello stesso, ma anche e soprattutto a causa dell’unicità delle persone. Per quanto la chirurgia estetica, le case di moda, la skincare e il make-up possano indirizzare verso una determinata soluzione visiva, i tratti fisici di una persona rimangono unici e originali, e non c’è niente di più bello e umano di questo.

La bruttezza, intesa come mancato raggiungimento del modello di riferimento per eccellenza, viene ripudiata. L’imperfezione è accettata solo quando diventa trend: prima le lentiggini venivano nascoste, ora sono appositamente create con la matita; prima si tentava di ottenere il fisico ossuto alla Kate Moss, ora tutte desiderano ardentemente il fondoschiena gigante in stile Kardashian.

Ma… che rapporto ha l’umanità con la bruttezza? E il “brutto” con la società?

Quello del rifiuto verso la bruttezza è un sentimento comune a tutta l’umanità, dalla notte dei tempi. Oggi, ovviamente, questo fenomeno si è amplificato per il dilagare della rivoluzione digitale.

Alessandra Lemma, nel suo libro Sotto la pelle, ha tentato di analizzare il rapporto che l’umanità ha con la bruttezza e viceversa, ossia la risposta del “brutto” nei confronti della società. Per farlo la psicologa e autrice ha preso in considerazione la figura di Frankenstein, visto come il mostro umano per antonomasia.

È emerso che la creatura, che di per sé è oggettivamente mostruosa, assume un atteggiamento distaccato e “cattivo” verso gli altri proprio per il rifiuto che le persone provano verso di lui. La risposta dei terzi al singolo è in realtà ciò che sembra definire il singolo stesso. Il brutto sembra tale perché non si sente amato, bensì ripudiato e rifiutato: non sembra poter godere di dignità a causa del suo aspetto. Questi sentimenti sfociano in un trauma identitario che si trasforma spesso nel rifiuto di integrarsi. Viene a crearsi quindi una duplice negazione autoalimentata: dal brutto verso gli altri e dagli altri verso il brutto.

Nel guardare qualcuno che può essere giudicato non bello, sovviene la paura inconscia di rivedere in se stessi quelle determinate caratteristiche sgradevoli. Quello che avviene è un tipico effetto riflesso: se pensiamo a tutte le discriminazioni a cui sono sottoposte le minoranze, ci si rende conto che il brutto non è tanto oggettivamente nel corpo fisico, ma nel significato emozionale che si attribuisce a colui che è diverso, poiché tradisce un’attesa, egocentrica quanto ingiustificata, di ordine e prevedibilità delle cose.

Il diverso ricorda che l’uomo non ha controllo sulla natura, per cui le potenzialità umane sono messe in discussione e riconosciute come limitate. Il brutto va a simboleggiare la paura inconscia ed ereditata di non poter controllare il destino: ricorda che gli uomini non sono titani, ma impotenti e fragili, vittime del caso e del tempo.

Quindi il raggiungimento della perfezione estetica non implica solo il rifiuto dell’imperfezione, ma il desiderio inconscio di dominare il reale, di avere controllo sulla situazione e sugli eventi, a partire dal corpo, strumento attraverso cui interagiamo con gli altri. Essere belli, piacenti, di aspetto gradevole permette al singolo di essere approvato in società più facilmente, a prescindere dalla sua etica e dalle sue qualità caratteriali. Parallelamente può capitare che ciò che identifichiamo come visivamente non piacevole ci appare sgradevole anche in altri ambiti: da una qualità fisica si passa al riconoscimento della bruttezza come qualità morale. Questo processo viene chiamato effetto alone, ed è una distorsione cognitiva: la percezione di un tratto viene influenzata dalla percezione di più tratti della stessa persona. Dunque qualcuno che viene oggettivamente giudicato bello, sarà visto anche come intelligente, e viceversa.

A tal proposito, nel 1990, due studiosi, Mack e Rainey, idearono un esperimento sociale per indagare l’effetto alone. Simularono delle assunzioni di personale nuovo per un impiego, valutando quindi la competenza e l’intelligenza. Il risultato fu sorprendente: i responsabili della selezione scelsero più persone di bell’aspetto, nonostante altri avessero maggiori titoli di studio o un’esperienza lavorativa attinente. Dichiararono di non essersi lasciati influenzare dal fattore bellezza, eppure la realtà è chiaramente ben diversa.

Dunque la ricerca della bellezza non è altro che un basilare istinto di sopravvivenza e integrazione all’interno della comunità. Nell’epoca contemporanea, tuttavia, questa ossessione per la perfezione estetica è diventato un vero e proprio cancro della società. Ha comportato una serie di problematiche sociali e psicologiche francamente evitabili. Il ricorso continuo alla chirurgia, l’utilizzo di drink sostitutivi per dimagrire, l’uso abbondante di photoshop e, in generale, l’idea di dover essere belli a tutti i costi ha reso le persone insicure di loro stesse, provocando danni di carattere psicofisico, come l’anoressia o l’ansia sociale.

È importante essere accettati dagli altri per vivere bene in società ma non di certo per le proprie caratteristiche fisiche. Inoltre questo deve avvenire solo dopo che ognuno ha accettato se stesso per quello che è. Non esiste una definizione universale di bruttezza né una di bellezza, ma esistono i gusti, l’indipendenza di pensiero e la soggettività che non devono diventare mezzi del capitalismo per spingerci a raggiungere un modello, ma strumenti per analizzare e scegliere.

Sarebbe una società nettamente migliore quella basata sul rispetto altrui e sull’essenza e non sulla superficialità e apparenza. Ma, ahimè, credo che questo sia un processo lungo che si otterrà solo con uno sviluppo spiccato della capacità di analisi critica.

Per concludere, un pezzo del discorso del grande Charlie Chaplin:

“E qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi comandano e che vi disprezzano, che vi limitano, uomini che vi dicono cosa dire, cosa fare, cosa pensare e come vivere! Che vi irregimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie! Voi vi consegnate a questa gente senza un’anima! Uomini macchine con macchine al posto del cervello e del cuore.

Ma voi non siete macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi portate l’amore dell’umanità nel cuore. Voi non odiate. Coloro che odiano sono solo quelli che non hanno l’amore altrui. Soldati, non difendete la schiavitù, ma la libertà!”

 

Written by Ilenia Sicignano

 

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