“L’uomo che amava i libri” di Patrick deWitt: storia di un bibliotecario

Il libro me l’ha donato ma figlia Anna perché sa che amo i libri, insieme a L’uomo che amava i libri di George Pelecanos, che ho già debitamente annusato, assaporato, ingurgitato e digerito, con conseguente reazione assimilativa.

L’uomo che amava i libri di Patrick deWitt
L’uomo che amava i libri di Patrick deWitt

Il titolo originale del presente romanzo, The librarianist, è meno bello ma più azzeccato alla figura del personaggio che quello faceva di mestiere: il bibliotecario. Anche il romanzo di Pelecanos aveva un titolo originale assai diverso nell’edizione originale: The man who came uptown, che anche in quel caso appare più consono alla storia. Sto pensando ora a un film di Mel Brooks, The Producers, che in italiano si tramutò in Per favore non toccate le vecchiette. La sensazione è che a volte (spesso) noi italiani ex-ageriamo nu poco. Siamo fatti così, c’è poco da fare.

Una cosa è certa. Sia il Bob del romanzo L’uomo che amava i libri di Patrick deWitt che il Michael del romanzo omonimo di Pelecanos amavano i libri, ma non vivevano esclusivamente per loro: erano per loro importanti, forse essenziali, ma non assoluti. La vita, per entrambi i soggetti, era intessuta di continue correlazioni che li avrebbe condotti, come accadde a Totò e a Peppino quando capitarono nella sconosciuta Milano, ad andare dove dovevano andare, in quanto erano parte integrale dei loro destini.

L’uomo che amava i libri è ripartito in varie sezioni, a seconda del periodo trattato. In The end of time il fisico britannico Julian Barbour, ispirando la gravità quantistica a loop di Carlo Rovelli, afferma che il tempo è la più assurda delle illusioni. Egli si diverte a immaginare gli stati quantici del Kósmos come tante cartoline appese a dei ciapètt (cosiddetti in Emilia), o a delle mollette (cosiddette nella costiera amalfitana) o a delle cannuccedde (cosiddette nel Cilento). Non ricordo quale termine inglese abbia usato Barbour (clothes pegs?). Cambia poco in verità, se siamo davvero tutti appesi a indefinibili fili sotto la medesima volta celeste.

Il primo tempo riguarda il 2005-2006 (da pagina 9 a pagina 67); il secondo il 1942-1960 (da pagina 69 a pagina 188); il terzo il 1945 (da pagina 189 a pagina 280); il quarto il 2006 (da pagina 281 a pagina 316). Tanto per essere debitamente tassonomici e classificatori.

Se il tempo fosse un gambero è una commedia musicale di Iaia Fiastri e Bernardino Zapponi, diretta da Pietro Germi, con musiche di Armando Trovajoli. Il gambero non tanto cammina, bensì nuota all’indietro, ma anche verso un lato o verso l’altro, come gli gira in quel momento. Ogni scrittore è un crostaceo, a meno che sia non sia uno strisciante gasteropode. Dipende dalla sua anima.

“Bob aveva da tempo rinunciato all’idea di conoscere qualcuno, o di lasciarsi conoscere. In parte comunicava con il mondo camminandoci dentro, ma per lo più la sua comunicazione con l’esterno avveniva tramite la lettura. Fin dall’infanzia leggeva romanzi, esclusivamente, e con tutto sé stesso.” – anche a me è successo. Andavo per lo più a letto verso le 23, alzandomi poi alle 6 e, per tutto il tempo, leggevo, scordandomi di vivere, togliendomi dal cuore l’idea stessa del vivere. Ero una specie di bonzo… Questo per anni, poi qualcosa cambiò. Non sempre era (e sarà) forse andata così. Da piccolo giocavo a pallone con amici etc… Più tardi vissi normalmente (non necessariamente rispettando le norme)… La vita è fatta a scale e io mi chiamo pioli, per cui ogni tanto sento la necessità di cambiare verso, un po’ su e un po’ giù: deviare il verso secondo il giusto momento equivale a vivere.

“Ammassava libri fin dalla preadolescenza…” – nel corso della quale io accumulavo e divoravo fumetti – “… e in quasi tutte le stanze di quella casa c’erano scaffali zeppi di volumi, ordinate in torri di libri nei corridoi.”come lo com-patisco! Ero già un uomo parzialmente vissuto, quando iniziai a convivere con una persona che, quando vide il mio acquario-allevamento di larve di mosche e zanzare, in cui sguazzavano libere una coppia di Trachemys (a.k.a. Pseudemys) scripta elegans, mi disse O io o loro! Scelsi lei, che sapeva cucinare. Poi, cominciai ad accumulare un numero abnorme di libri e lei mi disse ancora: O io o loro!

“Secondo lei Bob leggeva oltre il livello normale considerato accettabile di piacere personale e si chiedeva se quell’atteggiamento non fosse la manifestazione di un qualche disagio spirituale o emotivo.” – e poi, quella “che era stata la moglie di Bob”, la sua lei, “avrebbe voluto chiedergli: Perché leggi invece di vivere?” bella domanda, nel senso che ogni risposta è più brutta di lei, della domanda intendo, non della moglie.

“Che senso ha leggere? Perché si legge? Perché io leggo?” – che non è chiedere: Perché non vivo? Chi legge vive, poche balle, anche se a modo suo e dei personaggi che fanno capolino dai racconti letti; anche degli autori di saggi in cui essi dicono la loro su un qualche argomento, dal sesso (come va condiviso e non subìto) alle macchie di Rorschach, dal gioco degli scacchi al mondo dei batteri, delle termiti e delle formiche, etc etc…, della vita in genere.

“Qualche volta la voce di un autore ci risulta familiare dalla prima pagina…”io m’annoio un po’ a ogni inizio di libro, poi a poco a poco m’abituo alla sua evidente petulanza, per cui finiamo per darci del tu, io all’autore, l’autore a me. A m dà dal té mi dà del tu, così dice il villan non del tutto rifatto, quando accenna alla confidenza che ha col padrone della mezzadria, in cui egli campa sé e la sua variegata famiglia. Anche se certi libri (per esempio L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre e tutti i saggi filosofici, piccoli e grandi, di Martin Heidegger) a s fân dêr dal vó si fan dare del voi, mantenendo astutamente le distanze. In tal caso essi vanno sorseggiati come un brandy, dalla prima riga in alto della prima pagina all’ultima in basso dell’ultima, quando termina la bottiglia.

In L’uomo che amava i libri la scrittura di Patrick deWitt è psicologica e attenta ai microgesti dei suoi personaggi: “L’infermiera Nancy guardò Bob con aria stanca, come in cerca di un testimone. S’illuminò tutta quando si rese conto di non averlo mai visto prima. ‘Tu sei nuovo?’ gli chiese.” – sì, lo era. E non era interessato alle merende, com’ella sospettava: era uno dei tanti “volontari” che davano il loro contributo presso questo ricovero per gente inferma, a volte, nonché anziana, sempre.

“A volte Bob aveva la sensazione che dentro di lui ci fosse un pozzo, una lunga cavità rivestita di mattoni e piena di aria fredda con dell’acqua stagnante sul fondo.” – non male come metafora, che se studia ancora un po’ rischia di laurearsi a pieni voti come allegoria magistrale.

A qualcuno “Bob rispose: ‘Sono andato a letto con una sola donna in vita mia.’” – e pare non vergognarsene (e perché dovrebbe?).

“Quarantasei anni prima quel foglietto era stato consegnato a una versione a malapena riconoscibile di Bob, ed eccolo ora, un povero vecchio in una soffitta; rimise la ricevuta nel raccoglitore cercando di silenziare il cuore.” – e come si fa? Gli infili uno straccetto bisunto in bocca?

Ogni tanto scappa dalla comunità una lumaca umana di (sopran)nome “Chip”, perché (intuisco io) somiglia a una patatina fritta che, mentre ne mangi una certa dose, qualcuna finisce per cadere sul pavimento, non so se capita anche a te.

Ci sono tanti personaggi in ‘sta casa-famiglia, dove il carozzellato Linus è il più insopportabilmente simpatico. Il quale afferma: “… Ma c’è anche da dire – e forse a questo tu ci avrai già fatto caso – che il punto di vista degli altri non mi interessa per niente e non lo prendo nemmeno in considerazione…” – Linus l ē brót ma s-cèt brutto ma schietto, così dicono dalle mie bande. Ed è un brutto ma-schietto che va in coppia con un’anziana stramba di nome Jill, che lui non fa che stuzzicare di continuo, come solo lui sa fare.

Succede ora una cosa strana. Dopo l’ennesima fuga di Chip, la vetusta patatina, che viene poi ritrovata da Bob per puro caso, quest’ultimo vede il figlio di lei e comincia a fare due più due: era bellissimo e “somigliava a Ethan” – che era il suo miglior unico amico, che un bel dì gli aveva sottratto la sua miglior e unica moglie.

Occhio che ora inizia la seconda (nonché la più lunga) parte. La collega Sandy dice al librarianist Bob che “il bibliotecarismo non regge alla realtà dei nostri tempi.” – e il motivo è semplice: “… L’impianto linguistico della mente umana era una necessità all’epoca dei nostri antenati, tutta all’insegna della lentezza e del torpore, ma adesso chi a tempo per queste cose?…” – sono cambiate le motivazioni delle lentezze e del torpore, quelle collegate in rete – “… Sono scomparsi i fabbri…” il miglior fabbro per Thomas S. Eliot era Ezra Pound, per Guido Guinizzelli (e per Dante) era Arnaut Daniel (che, in italiano, era Anraldo Daniello, ma basta divagare!) – “… e presto non ci saranno più nemmeno gli autori, gli editori, i librai, l’intera industria si inabisserà come Atlantide…” – mito nato nei libri di Erodoto e di Platone, lo si ricordi! – “… e i bibliotecaristi finiranno sepolti sotto la sabbia nel fondo degli oggetti.” – a meno che non c’entrino gli aztechi con tutti quei loro tla! – e c’è poco da fare, oltre che divagare un po’, ogni volta che la vita ci va sdrucciolando da sotto i piedi…!

La madre di Bob è una simpaticona dalla battuta facile. A suo tempo ha visto un uomo tutto solo che se ne sta in un angolo in un bar “e con gli ultimi dieci centesimi che mi restavano ho ordinato un cicchetto a testa, e poi sono andata da lui con i bicchieri su un vassoio, li ho posati sul tavolo e gli ho detto: ‘Ciao, ti sto offrendo da bere. Perché, caro mio, sembri più triste di un vecchio cerotto che galleggia in una vasca da bagno piena di acqua fredda!’” – che liquido humour! ah ah! – “Ah, quanto l’ho fatto ridere. Aveva una bella risata. E sai com’è.” – così è stato concepito Bob, poco dopo quell’occasionale incontro. Mai più rivisto, quel tale, non solo dal lettore.

Non mi va di parlare troppo di Ethan e della sua amicizia con Bob, e di quanto egli sia miracolosamente bello e di quanto piaccia alle ragazze, anche alla moglie di Bob, anche a una riccona, anche alla madre di quella riccona. Accenno al fatto che Ethan è un mezzo epicureo, non troppo filosofico, uno che vive perché gli viene bene il farlo, e ama, per la stessa ragione, senza affezionarsi troppo, volendo bene ogni tanto a qualcuno, quando capita, a Bob e alla moglie di Bob, per esempio. Trattasi di un buon diavolo, dopotutto, il cui sperma non è gelido, come quello, si dice, di Re Satana, ma piacevolmente tiepido (è solo una mia intuizione). Un amico a cui non presenterei mai la mia ragazza, però. La quale sarebbe anche l’intenzione di Bob, ma purtroppo sia Ethan che la sua futura moglie vanno frequentando la biblioteca dove lavora Bob. Così va il mondo, scivola via, nel fiume delle occasioni e delle pari opportunità. Una volta le donne erano più tenute a bada, si pensi che allora, nelle campagne soprattutto, era la moglie che chiedeva gentilmente al signor marito se voleva adoperarla (vrî druvêrla, stasîra?, la volete adoperare, stasera?, sottinteso: mio adorato e rispettato signore, vi serve stasera la mia passerina? Ora è pure così, ma solo talvolta, e lo possono dire a chi pare a loro. E non si capisce più chi dà a chi né chi ce l’ha dentro, lui o lei… Il progresso è anche questo.

Su che tipo sia Bob, forse dirò la mia, alla fine, forse però, perché non so se l’ho capito del tutto.

“Connie sembrava confusa, quasi seccata. ‘Scusa, ma cosí che stai cercando di dirmi?’ gli chiese./ ‘Vuoi chiedermi di sposarmi?’/ ‘Vuoi che lo faccia?’/ ‘Penso di sí.’/ ‘Pensi di sí.’/ ‘Sì, lo voglio.’/ ‘Va bene, ho intenzione di chiederti di sposarmi.’/ ‘E allora fallo.’/ ‘Mi vuoi sposare?’/ ‘Per una proposta di matrimonio devi metterti in ginocchio.’/ Bob si inginocchiò. ‘Mi vuoi sposare?’”

Questo è Bob, uno che suole attaccarsi alla frase altrui, ma sa che deve andare dove deve andare. Questa è Connie, l’unica donna e l’unica moglie della vita di Bob. Questo è Patrick deWitt, di professore scrittore, che ha dedicato ‘sto bel romanzo a “David Berman” – artista che io ignoravo e la cui sorte m’inquieta non poco.

Solo una cosa accomuna Bob a Ethan: a domanda rispondono sempre.

Gli chiede Bob: “‘Perché sei cosí abbronzato e quanti completi hai nel guardaroba?’/ ‘Sono stato ad Acapulco e ho sette completi.’/ ‘Perché sei stato ad Acapulco e hai sette completi?’/ ‘Ho fatto il cameriere in una località di villeggiatura e la famiglia di Eileen ha un sarto.’/ ‘E come mai il sarto della famiglia di Eileen ti ha confezionato sette completi?’”

La risposta è covata a pagina 156 e seguenti. Più tardi, Eileen vuole un tot di risposte dal suo fidanzato in corsivo Ethan: “‘… Tu ci hai pensato, Ethan, a cos’è che potresti fare?’/ ‘Non ci ho più pensato’ disse Ethan./ Eileen chiese: ‘E non credi che dovresti pensarci, invece?’/ ‘Sí, dovrei’ disse Ethan giudiziosamente. Poi, rivolgendosi a Bob: ‘Ho fame’.”

Ethan non sarebbe spiaciuto a Herbert Marcuse, forse anche a Erich Fromm, non so se anche a Karl Marx, forse sì (o sí a scriver si voglia). Poco fa disse Eileen che dal suo matrimonio desidera la procreazione di cinque figli. Ma qualcosa andrà storto in quel progetto.

Da una breve indagine svolta fra tutti quei nuovi amici si scopre che nessuno, men che meno Bob, si sia mai messo “a farlo nei cespugli” – uno solo l’ha fatto, ad Acapulco, con Eileen, e (indovinate chi!) quello era Bob, of course. Il commento di una di quelle cornacchie (Chiky per la precisione) può parere disdicevole: “Che uomini che ci ritroviamo.” Il suo, di uomini, Chance (che minchia di nomi!) dice: “Se vuole farlo nei cespugli non ha che da chiedermelo. Io mica so leggere nel pensiero.” – che è il problema di noi maschietti. L’ha detto a Bob, per cercare consenso. Non risulta che Bob abbia risposto alcunché. Forse ci sta ancora pensando.

Ethan, momentaneamente invalido per motivi che non sto da dire, ora va ad abitare a casa di Bob che sta serenamente convivendo con la sua futura sposa. Da oggi meno sereno (!). La quale futura sposa non vuole che la sveglia che serve a svegliare (come la serva che serve, secondo Totò) alle 5 il lavoratore mattiniero (Bob) rischi di destare anche l’indolente (non per tutti i fatti tale) marcusiano (Ethan): “Ma Bob sentiva la mancanza di quell’attimo di terrore lacerante che le campanelle nude riuscivano a instillargli dentro.” – ed è per questo che The librarianist è un titolo azzeccato. Anche se indubbio è che quel bibliotecario ami i libri, più delle donne, temo.

Certo, cara Aceto Federica, che ti danno da tradurre dei libri strani (l’altro che lessi era Rumore bianco di Don DeLillo – e anche quei cognomi attaccati all’americana: DeLillo, deWitt: mo mah!

“Ethan era un campione nel prendere i libri dagli scaffali e poi portarli in un angoletto remoto della casa. Lascoandoli aperti a faccia in giù sul pavimento…”madonna mia! “… fin quando non arrivava Bob a prenderli, spolverarli e rimetterli a posto.” – questa è la vita di noi alienati si fa per dire libriarianist!

“Ethan doveva essersi…” – per cui: “pensava che se fosse scappato il più veloce possibile e fosse rimasto via abbastanza a lungo, si sarebbe liberato di quella sensazione di tormento e di estasi.” – non so quanto dissimile a quella che provava il Vincent van Gogh così come fu descritto dallo scrittore Irving Stone e poi riprodotto sullo schermo dal regista Carol Reed.

A volte la prosa di Patrick ne L’uomo che amava i libri pare una gran bella sceneggiatura (è assai ricca di estro!).

Ethan dice metà della verità a Bob, senza entrare in particolari: “… Da un po’ di tempo a questa parte perfino le buone notizie sono cattive.” – e non aggiungo altro (vedrò poi, se farlo o no).

Ho sottolineato un sacco e una sporta di roba, ma preferisco passare direttamente (senza ulteriori soste) alla terza parte. Conviene a me e non solo a me.

La quale terza sezione riguarda una fuga di Bob da casa “All’età di undici anni e mezzo”.

Una delle sue attempate amiche attrici, quella che è sempre lugubre, Ida, dice a un certo punto: “Quello che desideravo era di buttarmi nel fiume con le tasche piene di sassi.” – non pensava di certo a Virginia Woolf, no che non ci pensava…

Questo ragionamento forse interessa la mia amica Alessia Mocci, direttrice della presente Oubliette Magazine. Ed è June a parlare (mentre l’amica Ida alterna tre “No” a un “Credo di sí”): “La malinconia è la stringente convinzione che il tempo sia un ladro, ed è radicata degli amori e dei successi del passato…”[1] – sennò non erano successi, eh!

Segue poi la definizione di “angoscia”, ma essa m’ha angosciato per cui passo oltre.

Dico soltanto l’essenziale (cioè troppo!): “La malinconia la sappiamo affrontare, ma dobbiamo comunque attrezzarci anche nell’eventualità dell’angoscia.”: si badi che è una mia doxa personale, ma credo che la malinconia sia una specie di farmaco omeopatico che serve per curare quell’orrenda befana!

E Bob, che è? Non mi pare né angosciato né malinconico e il fatto mi preoccupa. Dice l’autore che “Bob invece non capí cosa ci fosse da ridere, ma era felice di essere riuscito a unirli tutti in un momento di piacevole leggerezza.” – Evviva Bob! L’amico che ho sempre sognato di essere!

Ora che ci penso (sono a pagina 229), i dialoghi del romanzo ricordano un po’ quelli di vari autori teatrali, non saprei dire quali.

A pagina 230 mi viene in mente una definizione che potrei dare di Bob. È volgaruccia, ma tant’è… Egli è un tipo preciso come un ditino nel c… – che entra giusto giusto in ogni questione.

Vorrei ora sapere da Federica Aceto chi le ha suggerito a pagina 231 quel paragone “morte”/“livella” – a thing of Totò is a joy for ever?

Uno sceriffo dice a Ted, e non importa a che proposito né chi sia e che ci faccia ‘sto Ted con ‘sto tutore dell’ordine: “Non lo so proprio, amico mio, perché la mia sfera di cristallo è momentaneamente fuori uso.” – un periodaccio che dura da otto o nove miliardi di anni. Il tempo, come s’è detto, pare camminare a zig zag come un illusorio gambero.

Quel poliziotto poi dice a Bob: “Tu non parli molto, vero?”

Bobscosse la testa a mo’ di conferma.”

E, fra un restringimento di “spalle” e l’altro si giunge finalmente nel 2006. Dove, tra un fenomeno (antropico) e l’altro (entropico) si giunge rapidamente alla fine, dove ha luogo l’agnizione finale, in cui qualcosa si chiarisce concretamente.

Piuttosto che spoilerare ulteriormente la trama (che prima o poi verrà trasmessa su zia Wiki), preferisco indicare una fonte (oscura, essendo solo una mia invenzione).

Bob “A poco a poco non poté più fare a meno della fune…” – gli anni passano per tutti, dicono – “… per salire le scale per andare in camera sua e doveva darsi la spinta con le mani a ogni passo come un alpinista.” ehhh, Patrick, mi chiedo se e quanto ti è venuta in mente la scenetta (frequente) in cui Adam West (nei panni di Batman) e Burt Ward (in quelli di Robin) salgono appesi a una fune su uno dei tanti grattacieli di Gotham City. Si tratta di una serie televisiva girata sette o otto anni prima della tua nascita. E chissà quanti episodi ti sei pappato, anche dal mondo della luna, dove si dice che aspettino, in una specie di sala d’attesa, le anime dei futuri bimbetti (così diceva una suora all’asilo, ricordo).

Importante, a pagina 291 di L’uomo che amava i libri :Per tutta la vita aveva creduto che il mondo reale fosse quello dei libri…” – uno degli infiniti multiversi in effetti – “… era lì che venivano rappresentate le migliori inclinazioni dell’umanità…” – le più narrabili, le meno tediose, ma non sempre.

“… e adesso Bob aveva ripreso a leggere…” – anche a me toccherà cessare di farlo e a un certo punto riprendere? Ne dubito – “… si accorse di riuscire a leggere ininterrottamente per tre, quattro ore, interrompendosi soltanto per…” – per sopravvivere, come capita a un naufrago su un un’isola deserta… che anche se gli piace un sacco scrutare l’orizzonte, prima o poi deve cercarsi ‘na banana da magna’.

Patrick deWitt citazione
Patrick deWitt citazione

Brutta questa. Per cui la riporto e poi la getto via: “Il passare del tempo ci piega sempre di più e poi ci spinge sotto terra.” – mannaggetta!

Una cosa mi preme dire: ritrovare (per esempio a pagina 303) “Linus e Jill” – è come incontrare dopo tanti anni dei cari amici, un po’ stronzetti, ma essenziali per capire la storia di noi uomini soli.

A pagina 307 di L’uomo che amava i libri, Bob spiega al figlio di Chip chi fosse il di lui padre. Lo dice meglio di me, peccando forse di bontà: “… ci sono persone che quando entrano in una stanza ne cambiano l’atmosfera.” –  la qual cosa capitava forse anche a Moana Pozzi. Sic transit passerculus/a mundi!

Vorrei parlare ora dell’“apple bobbing” di cui tu, Patrick, cianci in una delle ultime righe del tuo bel romanzo. Ma urge per me un’altra questione. Chi era in realtà Bob the librarianist?

Risposta dell’oracolo reagente: era un tipo che condivideva molti tratti col sottoscritto, per fortuna (d’entrambi) non tutti. È il bello della vita. Tutti ci assomigliamo in qualche cosa (a volte solo nel mingere, a volte manco in quello) e siamo fatti tutti a modo nostro. Questa è la nostra unica chance!

Vorrei chiudere la presente reazione nel mio solito modo (un po’ frequente, recentemente), cioè con un Amen e così sia. Ma essendo una storia concepita e vissuta dall’altra parte dell’Atlantico, mi vien da dire: A-Ugh!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Patrick deWitt, L’uomo che amava i libri, Neri Pozza, 2023

 

Nota

[1] N. d. E.: la malinconia è anche provar nostalgia di epoche mai vissute. Si avvicina molto la citazione che riporti di pagina 291: “Per tutta la vita aveva creduto che il mondo reale fosse quello dei libri…” però l’uso di “reale” in questo caso è un poco fallace perché chi ha scritto è/ è stato reale, ha “realmente” vissuto quell’emozione, pensiero, astrazione. Come dubitarne?

 

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