“Attraversare i muri. Un’autobiografia” di Marina Abramović: un processo necessario

Quando è meglio iniziare a scrivere una reazione a un’opera che è stata narrata, dipinta, scolpita… in una sola e comune parola: rappresentata? Quando capita il momento giusto, in un certo senso ideale, perché in esso si forma l’idea che poi condurrà le tue parole ad andare dove devono andare, che è lo scopo di noi tutti, non solo di Totò e Peppino mentre si trovano a Milano e, ignorando con precisione il proprio immediato destino, chiedono aiuto al primo vigile che incontrano.

Attraversare i muri Un’autobiografia di Marina Abramović
Attraversare i muri Un’autobiografia di Marina Abramović

Nel caso di Attraversare i muri di Marina Abramović, tale schiudersi degli eventi occorre a pagina 259, quando “la leggendaria performance artist”, così è definita nella quarta di copertina, informa il fido lettore che: “L’estate seguente il museo nazionale del Montenegro mi invitò a tenere una conferenza…” – a cui io non mi sarei presentato, nel caso fossi stato il relatore, ma forse sì, non ne sono però certo, se fossi stato il fruitore. Diversamente da Marina Abramović, per me l’atto artistico è un fenomeno che è concepito nella solitudine e ivi rappresentato. All’inizio, questo vale anche per lei, ma poi esso viene pubblicamente partorito e poi vissuto insieme agli Altri, in assenza dei quali il fenomeno perderebbe la propria energia, diffondendosi miserevolmente nel Kósmos.

Per altri autori è la fuga dall’Altro il momento ideale per la nascita della poiēsis, dal greco poiéō, che ha il senso di faccio, produco. Sto pensando ad Arthur Rimbaud (il quale pur cantava: Je est un autre…), a Guido Morselli, il quale fu rifiutato mentre era in vita, a Franz Kafka, che tolse il disturbo prima ancora di vedersi pubblicato, nonché a tanti altri, alcuni dei quali mai si conosceranno. Franz Kafka chiese al suo miglior amico di dare alle fiamme i tre romanzi incompiuti. Un’analoga richiesta, anch’essa disattesa, la fece Virgilio, che stava per morire, per la sua incompleta Eneide. Sto pensando con immensa tristezza alla sorte di Bruno Schulz e del suo manoscritto scomparso insieme a lui, che fu freddato da un ufficiale nazista, per una sciocca vendetta di cui non vale la pena di parlare.

Amo cullarmi in quest’incubo a lieto fine: la fama più imperitura è quella che sorge post mortem.

Così continua il tuo testo Attraversare i muri, Marina Abramović: “Ne approfittai per andare a visitare il paese in cui era nato mio padre, vicino a Cettigne…” – ove incontri un mezzo (o tre quarti di?) parente che di cognome fa Ibramovic, che prima ti narra “un paio di storie sul villaggio di quando era ragazzo” – e poi cerca di scroccarti una certa sommetta, poiché aveva “perso un sacco di soldi giocando a carte”.

Per te è stata, penso, una mezza seccatura che però ti ha costretto a ricordare (per sempre) un momento della tua vita. Lo stesso capita a me, allorché un incidente, uno sciagurato incontro, una brutta lettura, smuove l’anima, conducendola a esprimersi, a dire la sua, la quale poi diventa, magicamente, La Sua. Sua di Chi? Lo vedremo, forse, senza fretta…

Se tu avessi avuto come genitori due persone normali, non due eroici partigiani, che non t’avessero mai insegnato ad attraversare i muri, ma t’avessero coccolata ima ventina di ore al dì, cosa saresti diventata?

Con la mia cattiveria ho fatto una volta quasi piangere (aveva gli occhi rossi) mio papà, talvolta mia madre che però, quando era necessario, qualche man rovescio me lo elargiva. Una volta tentò di calare con la giusta violenza il suo metro di legno da sarta sulla mia giovane testa, ma mancò per un pelo il bersaglio (allora ero agilissimo), finendo per creare un piccolo cratere sul tavolo di noce appena acquistato. Eppure lei, che ha fatto fino alla quinta elementare e che ha letto unicamente (per quello che ne so io), e forse solo a metà, L’ultimo tragico libro di Fantozzi di Paolo Villaggio, è la pensatrice che più cito nei miei articoli (che appaiono su questa rivista detta Oubliette Magazine, diretta da una donna d’etnia sarda, Alessia Mocci). Ogni tanto cito anche papà, che mi chiese quasi in ginocchio di leggere L’Idiota di Dostoevskij. Dopo di cui qualcosa nella mia vita cambiò, avendo scoperto che il principe Myškin c’est moi!

Sento che noi due abbiamo molto in comune, Marina, e in province limitrofe, e qualcosa in nazioni distanti fra loro. Questo che ho appena detto è un groviglio di piolate, che raramente non mi capita di disseminare nelle mie recens…, no, non sono tali, ma, come ho scritto, sono reazioni. Al pari delle tue performance, sono dei comportamenti. Mi sento un behaviorista attento a quel che non si vede e di cui si può ipotizzare l’esistenza in una modalità quasi religiosa.

Io amo riportare intere frasi dell’autore letto, per poter meglio interagire con esse (ergo: con lui). A sûn fât acsé – sono fatto così. Una cosa (e poi, magari, altre 999) ci tengo a dirti: non so se a te capita, ma a me scoccia moltissimo scrivere, reagire per iscritto a un’opera letta, anche se è intrigante come la tua. Poi, obtorto collo, comincio a farlo e, quasi subito (tempo due o tre righe), la scocciatura evapora e subentra la voglia di arrivare in fondo (o in cima). Detto con altre parole: è la mancanza di voglia di scrivere che mi fornisce l’enThusiasmo (l’indiamento, l’ingresso in Dio), l’energia necessaria per andare avanti, per attraversare le righe, che sono i muri della città verbale (o della baracca) che sto pian piano edificando.

Dentro ognuno di noi può sortire tale sortilegio, tale girare della sorte, che ci conduce alla creazione artistica. E che tu hai sempre cercato di rinvenire non solo in te e nei vari indovini (aborigeni e locali) in cui ti sei frequentemente imbattuta, ma soprattutto in quell’Autre che è in te, che è Te, di cui dispettosamente cianciava le beau Arthur.

Inizi i tuoi capitoli di Attraversare i muri con dei raccontini in corsivo, che riportano spesso antiche storielle. E ami raccontare barzellette balcaniche. Ora te ne dico che è nata dalle mie parti (Rèş, Reggio Emilia): a un uomo, una dopo l’altra, sono cascate addosso un mucchio di disgrazie familiari, tipo pochi soldi, moglie fedifraga, figlio drogato, figlia incinta, etc… per cui ogni mattina se ne va a fare una camminata, così, per pensare ad altro. Quando rincasa, nel togliersi le scarpe, dice ogni volta: Ohhh! Finalmente! Il suo accorgimento è semplice: usa delle scarpe strette e dolorose, di due numeri inferiori a quelle a cui è abituato. Nel mio idioma queste freddure son dette masêdi, ammazzate.

Per te, e per chiunque non vale il detto Aut Caesar aut nihil, come hanno già blaterato fin troppi ometti (baffuti e non) votati al Potere, bensì Aut Hic et Nunc aut Nihil.

Leggo, a pagina 316 di Attraversare i muri: “‘Per favore, chiedo un attimo della vostra attenzione’, dissi. ‘Io sono qui e ora, e voi siete qui e ora con me. Il tempo non esiste.” Ergo: Noi non siamo qui e ora, forse noi non siamo nemmeno noi. Chi ce lo può garantire?

Resta insoluta la domanda che Hilary Putnam si pose nel saggio Ragione, verità e storia: quanta certezza ho che il mondo esterno esista fuori dalla mia vasca mentale? (r. m.) Nulla inizia e nulla finisce davvero, ma tutto si trasforma nel fotogramma successivo. Poi rimane appeso (questo garantisce il fisico inglese Julian Barbour) lungo una magica cordicina. Gli stati cosmici sono come cartoline che penzolano da un filo, come quello a cui si appendono i ciappetti, ‘e cannuccedde, ‘e mollette. Come si dice, che so, in norvegese? Cerco su zio Google. Forse kleslypene, ma non ne sono certo. E in montenegrino? Dimmelo tu, che Lui non lo sa! A me questo Zio Traduttore dà molto da pensare. (r. m.)

Frank J. Tipler, fisico americano, in La fisica dell’immortalità, ipotizza la possibilità di riprodurre (virtualmente?) tutti gli stati accaduti e memorizzati da una macchina cosmica (r. m.)

Sartre, in L’io e il Nulla, scrive: “… se la serie delle apparizioni fosse finita, significherebbe che le prime apparse non hanno più la possibilità di riapparire, il che è assurdo, o che potevano essere date tutte in una volta, il che è più assurdo ancora.” (r. m.)

Leggendo le opere di fisica e di cosmologia, mi son reso conto che l’assurdo è un dato scientifico al momento inesplicabile, ma necessario. Una particella emessa, anziché andare a completare la sua esistenza, va a sbattere lì e non là. Per Roger Penrose questa indeterminatezza finale è uno z mistery, a cui al momento non v’è soluzione. (r. m.)

La teoria di Hugh Everett III, fisico yankee, conduce alla possibilità di infiniti universi immaginari (IMM), dove ogni probabilità di tragitto conduce alla nascita di un nuovo Kósmos, del tutto ignaro degli altri. E chissà se anche svincolato… (r. m.)

(r. m.) significa (miei già in origine) ready-made, tipo quelli che paradossalmente resero inimitabile Henri-Robert-Marcel Duchamp, del quale cui ho recentemente visitato una mostra presso la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, lo stesso giorno in cui ho gioito dei capolavori di Marc Chagall presso il Centro Culturale Candiani di Mestre. A proposito di entrambi gli eventi ho scritto un articolo che non è stato (ancora[1]) pubblicato presso Oubliette.

Scrivendo ho scoperto che vado ogni volta ri-scrivendomi, come ripetendo un medesimo rito: dal latino ritis, andamento. Anche rivo deriva da lì. “Un rivo strozzato che gorgoglia…”, cantava Eugenio Montale. E cosa c’entra, ora, quel verso? Tutto o poco meno.

Per te i riti sono molto importanti: senza di essi non vedrebbe la luce il sacro che giace nel tuo (e nel nostro) imo.

Prima di finire di assimilare (a me) il tuo libro Attraversare i muri e di ricominciare la lettura delle frasi sottolineate, ci tengo a urlare una sciocchezza che più assoluta non si può: tutto il Kósmos è paese!, per cui ogni tipo di guerra che prevede morti e feriti, come quelli che hanno rovinato per alcuni millenni i nostri due paesi, sono un empio cancro che dovrà essere estirpato alla radice.

Ci riuscirà mai, un bel dì, quest’homo demens demens?

“Avevo una gran paura del buio. Ma il plakar era pieno di fantasmi e di presenze spiritiche – esseri lucenti, informi e silenziosi, ma per nulla spaventosi.”e il tuo libro ne ha riflesso un certo numero.

“La luce rendeva visibile il pulviscolo sospeso nell’aria, e immaginavo che fosse costituito da pianeti abitati da genti.” – chissà quanto somiglianti a me, a te, a tua madre Danica e a tuo padre Vojin: en passant segnalo la foto che ritrae te e quest’ultimo, che è quanto di più bello la natura ha creato in quel fugace istante: intendo il suo sorriso e la tua serenità. Per chi è interessato, il tutto è covato a pagina 20.

Essendo tu ricoverata a sei anni per “una malattia del sangue” – scrivi che “Fu il momento più felice della mia infanzia.” – e potrei parlare per ore e per pagine intere della tua vita familiare, ma preferisco che sia il lettore del tuo lettore a farlo: mi hai già fatto soffrire troppo. Bravissima!

E subito mi contraddico: “L’ossessione di Danica per l’ordine mise radici nel mio inconscio.” – lo sai che le radici di una pianta sono pressoché simmetriche alla sua chioma?

Tu intanto non puoi che sognare: dolce notte, cara. Ché, prima o poi, ti sceterai

“I primi soggetti dei miei quadri furono i miei sogni.” – che sono reali, se continuano ad agire nella veglia.

Come fece con me mio padre, grazie a cui lessi Dostoevskij, Hugo, Jack London eccetera, tua madre ti obbliga a leggeretutto Camus, tutto André Gide, e per ordine di mio padre, tutti i russi.” – e mio padre non è stato nemmeno un partigiano, pensa te… Mia madre una vispa contadina…

“Come succedeva con i miei sogni, la realtà dei libri che leggevo era più forte di quella che mi circondava.” – essendo dotati di diversa massa, di diversa energia.

La tua famiglia benestante (nell’ottica della Jugoslavia dei tempi di Tito) alla fine degli anni ‘50, era riuscita a farsi inviare dalla Svizzera una prodigiosa lavatrice, e tu scrivi: “Mia nonna non si fidava di quella macchina, ci metteva dentro la roba da lavare e quando aveva finito la tirava fuori e la dava alla donna di servizio perché la lavasse a mano un’altra volta” – oggi questo può succedere con ChatGPT o con altri chatbot. Fidarsi troppo della tecnologia è a volte esiziale. Non fidarsi per nulla lo è sempre.

I tuoi genitori erano parte della “borghesia rossa” – poteva andarti assai peggio, dai, e poi aggiungi che gli “orribili prodotti socialisti” erano la cosa migliore che recava quel vostro triste convento.

“Ero sempre preda della vergogna e dell’imbarazzo…” – chi è senza complessi getti la prima fisima: eppure anch’essi ti serviranno, come scoprirai.

“… un artista che si chiamava Filipović” – benedetto sia il suo cognome – “Mi insegnò che il processo era più importante del risultato, così come la performance per me ha maggiore significato dell’oggetto.” – tutto è bene quel che comincia così così. E poi, nel suo spazio-tempo, si evolve.

“Ebbi un’illuminazione: perché dipingere? Perché limitarmi a due dimensioni, quando potevo dare arte con il fuoco, l’acqua, il corpo umano.”secondo la teoria delle stringhe le dimensioni, sono dieci, undici oppure due. Ancora nessuno l’ha potuto attestare.

“Fu uno dei momenti della mia vita in cui mi sentii davvero felice.” – e io con te, qualunque esso sia stato. Ormai siamo entangled, come quelle due particelle in love for ever, che per dei decenni fecero discutere Niels Bohr e Albert Einstein. Per rilassarti, leggi qualcosa del paradosso di Einstein-Podolscky-Rosen. Dio gioca a dadi col Kósmos? John Stewart Bell credeva che Egli persino barasse! Sicuramente lo faceva anche a Cettigne!

“… si trattava di far entrare nell’arte la vita stessa.” – anche la sua debita conclusione?

“… il corpo fisico muore, ma la sua energia non scompare – semplicemente assume forme diverse.”E = mc2. Tutto ciò che esiste, è esistito ed esisterà, rientra in questa formula magica. (r. m.)

“L’effetto era spettrale, ma esprimeva il mio desiderio di liberarmi dal senso di soffocamento che percepivo vivendo in quella città sotto il controllo di mia madre e del regime comunista.” – un red hole che tutto voleva attrarre verso di sé.

“… nella grigia Belgrado…” – che è una carenza di tinta che nomini più di una volta.

“Mia madre e mio padre avevano molti difetti; ma erano persone forti e coraggiose, che mi avevano trasmesso molte di queste qualità.” – che ti aiutarono a evadere da quel circuito sociale in cui pativi le tue pene.

Quel che realizzi con la performance Rhythm 10 ti fa sanguinare davvero, e terribilmente. Eppure dona energia alla tua speranza: “… era come se un flusso elettrico scorresse nel mio corpo, e il pubblico e io fossimo diventati una cosa sola. Un unico organismo.” – tu eri loro, loro erano te – “Non c’erano più né paura né dolore. Ero diventata una Marina che ancora non conoscevo.”

Nel consueto raccontino iniziale di 3, un discorso mi colpisce e, per fortuna, non mi convince: “La ragazzina rispose: ‘La bellezza dura poco. La bruttezza è per sempre.’” – non ci credo, ma lo sento come un’antifrasi, il dire una cosa per intenderne un’altra. Mia madre diceva che la beltà appassisce, mentre la bontà fiorisce. E c’è anche l’altro detto, che riporto anche in arşân: pôvra brutâja, se n gh fós mia piaşâja: povera bruttezza se non ci fosse un qualcosa che, pur non bello, piace lo stesso. Lo dico perché tu, e io insieme a te: noi abbiamo avuto per anni il complesso di non essere belli. A me piaci, davvero, e non poco: soprattutto il tuo naso, di poco più breve del mio.

“In Jugoslavia e nel resto dell’Europa, nel mondo dell’arte si cominciava a parlare della giovane e temeraria artista di Belgrado.” – colei che andava oltre, che ex-agerava, uscendo dall’argine. È fatta, dai. Quasi.

A pagina 115 di Attraversare i muri inizi a parlare della performance:Imponderabilia” – che è l’opera di cui ho veduto il filmato (al MAMbo di Bologna, dove m’ha portata figliama Anna). Vorrei avervi assistito dal vivo: “Era il maggio 1977” – Anna, a quel tempo, aveva meno 26 anni; io qualcuno di più. A saperlo…

Non mi va di parlare dei tuoi uomini, non per gelosia (non è un sentimento che mi appartiene), ma perché… non lo so perché!

“… cerco sempre di dimostrare a tutti che posso farcela da sola, che posso uscirne intera, che non ho bisogno di nessuno.” – anch’io, a volte, mento a me stesso. Ti capisco. Il tutto mi dona la libertà di cui ho bisogno. Anche la sofferenza. Non credere di essere la sola in quell’isola deserta. Girati. Sono qui, dietro di te.

In una lettera a Danica, scrivi, tra le tante cose: A viaggiare si rimane giovani perché non si ha tempo di invecchiare.” – il che non è vero, però questo si avvicina a un dato oggettivo: più un corpo fisico scorre rapidamente, più lentamente il tempo scorre dentro di lui. Il fotone, che ha la massima velocità finora riscontrata (in attesa di scoprire il tachione, che marcerebbe a ritroso nel tempo, a mo’ di Joris-Karl Huysmans) ha un tempo nullo. C’è chi ipotizza che ve ne sia uno solo che si aggira nel Kósmos: termine che, paradossalmente, significa Ordine.

Il fotone è come quel vigile di Totò, forse. Sa dove bisogna andare. A noi lo dice ogni volta dopo.

Al pari dello scrittore Maurizio Fierro, autore di Lavacro, ho sempre avuto una grande simpatia per i nativi americani. Quel che mi doni intorno a pagina 150 mi fa venir voglia di andare in Oceania, con te, con lui, con chi ci pare, a conoscere “gli aborigeni”.

“Ciò che mi affascinava più di ogni altra cosa è che non possedevano assolutamente nulla.” – e che nulla potevano perdere.

Qualcosa in queste pagine mi dà da pensare. È importante sapere quanto vi sia di fiction e quanto di realmente vissuto in quello che così poeticamente vai descrivendo? Secondo quanto sento, ogni tua parola diventa vera in quanto conferisce un senso alla tua storia. E non aggiungo null’altro.

“Forse un’altra differenza era il mio DNA partigiano, l’attitudine ad attraversare i muri che mi avevano trasmesso i miei genitori.”che io non t’invidio perché ognuno è se stesso. E null’altro.

“… per raggiungere un obiettivo, devi dare tutto fino a non avere più nulla. A quel punto l’obiettivo si realizzerà da solo.” – la massa si trasforma nell’energia che ti servirà per volare, come accadde a Santa Teresa d’Avila, che poi descrivi a pagina 340 di Attraversare i muri.

Il tempo non esiste più. Nemmeno l’ordine delle pagine.

A pagina 258 descrivi le cose che necessariamente vuoi, terminando poi così il discorso: “Voglio smettere di volere.” – il che è una frase senza senso, in quanto gira in tondo, molto efficace perciò. Lo spazio è curvo, non dimenticarlo mai. Un grumo che vortica su di sé, garantisce Carlo Rovelli.

“Volevo esprimere il dolore per ogni guerra, e non produrre un’opera di propaganda legata a quel particolare conflitto.” – questo tuo giudizio ti fa meritare il più grande degli encomi: scegli tu quale.

“L’arte che insegue valori esclusivamente estetici è incompleta.” – di fatto non esiste.

Simpatica è la barzelletta del lenone di Sarajevo. A chi è interessato a farsi una risata informo che è celata a pagina 273.

“Se vediamo l’arte come qualcosa di isolato, di sacro e di separato da tutto, significa che non è vita.” – il sacro è il luogo dove il divino incontra l’umano, dice Mircea Eliade. I due aspetti non possono essere isolati, ma amano compenetrarsi. Così l’intendo io. E mi pare anche tu.

Sono contento di quello che ti capitò quel giorno con tua madre: “Una volta che ero andata a trovarla…” – alla fine, grazie al tuo humour, riuscisti a compiere il più banale e inclìto dei prodigi: “E fu l’unica volta in cui ridemmo insieme.”

Scrivi, a pagina 317: “… siamo su questa terra con uno scopo, e lo dobbiamo realizzare.” – è una teoria religiosa, che non per forza dev’essere errata. Ha un immenso pregio: non è falsificabile.

12 inizia con tutta una serie di “non dovrebbe” e di “dovrebbe” – che non mi va di accettare o di negare. Ti prometto che ci penserò tutta la vita, ma prima o poi deciderò.

“Mi sembrava di vedere, attorno a ogni persona seduta davanti a me, le stesse particelle di energia che vedeva lui. Fin da subito mi resi conto di una cosa sorprendente: ogni persona che si sedeva davanti a me lasciava un’energia specifica. La persona se ne andava. L’energia rimaneva.” – è l’entanglement a cui accennavo prima. Basta sfiorarsi e ci si ricorda della medesima origine, da cui siamo stati catapultati quaggiù… o lassù.

A pagina 347 di Attraversare i muri, in un riquadro figurano 36 facce di persone diverse: le ho lette una o una, come versi della medesima ode.

Scrivi, a pagina 350:Quella sera dissi: ‘Non ho bisogno del tavolo. Toglietelo.’ Fu l’unica volta che feci un cambiamento radicale nel corso di una performance. Adesso c’eravamo solo io e l’altra persona, su due sedie, una di fronte all’altra.” – anche a pagina 348 ti sei concessa una piccola deroga: mi fa molto piacere quando questo ti succede.

“… era la cosa giusta. Semplificare le cose. Aumentare il contatto. Rimuovere le barriere.”ex-agerare al fine di unire, non di separare.

“… la figlia di partigiani abituata ad attraversare i muri.” – una che non molla.

“Invece, alla fine, ci fu quella strana lacuna di otto minuti…” – che fu benedetta…

Marina Abramović citazioni
Marina Abramović citazioni

Ora ti spiego perché: si dice che Reinhold Messner abbia rinunciato volontariamente agli ultimi pochi metri che lo separavano all’ultima vetta dell’ultimo 8.000. Verità o invenzione? Lo ignoro.

In tal modo egli si sarebbe riservato di tornare in quel luogo, per affrontare l’ultimo, simbolico, tratto della scalata. Un rito interrotto rimane un rito. Forse meno divino, ma più umano.

A pagina 370 parli del tuo “ufficio” – dove, a quanto dici, non esiste l’alienazione che è tipica dell’uomo moderno. Sono certo che sia così. E ne sono felice per te e per chi fatica con te.

“Non c’è idea più sbagliata di quella di essere permanenti.” – tutto scorre, vero? Anche qui mi trovo solidale. Quando mio padre aveva più di ottant’anni, smisi di illudermi che fosse immortale. La sua fine fu tragica, ma non mi colse impreparato. Piansi, è vero. Oggi il ricordo che ho di lui è una tenera malinconia. Anche pensando alla mia, di morte, provo un sentimento analogo.

A pagina 383 scopro che Lady Gaga ha origini sicule. Mi fa piacere! Io amo la Sicilia! Anche lei, come te, come Franz Kafka, come Elias Canetti, come Arthur Koestler, come tanti autori che amo, è una specie di ap(i)olide. La (i) è una piolata (r.m.). Anch’io lo sono: gli arşân sono un po’ di tutto quel che passa il Kósmos: etruschi, celti, latini, goti, unni etc etc… e ora anche magrebini, slavi, cinesi, sudamericani etc etc.

È nella miscela del sangue che si forma il genio che cambia la traiettoria della storia. Questo è l’ideale che professo. Essere tutti diversi in quanto uguali, tutti uguali in quanto diversi.

Concordo con quanto scrivi a pagina 395 (parlando di Maria Callas): “Ci assomigliavamo anche fisicamente.” – eravate similmente belle. Lei fece tanto innamorare il mio Pier Paolo Pasolini (che tu citi a proposito del suo film “Teorema”, che voglio vedere insieme a mia figlia), non dimentichiamolo! E tu tanti uomini. Un po’ anche me. Smettila di dire che non sei bella. Perché lo sei. Sei fantastica! Sei!

A pagina 402 parli dell’“11 settembre” e lo definisci “il giorno più triste della storia americana recente” – nel medesimo giorno, 28 anni prima fu ucciso a Santiago un parente di Isabelle Allende. E questo accadde per la medesima ragione: la cattiveria dell’uomo ai danni di colui che non sente più come un suo simile, bensì un nemico da abbattere. Come se fosse un bisonte.

Poiché nelle ultime pagine continui a parlare della morte, ti dono due detti: 1) a paghêr e a murîr ‘s fa sèinper a tèinp; 2) a la môrt ‘s rîva vîv: per prudenza ho deciso di lasciarli nell’idioma materno, in quanto ogni traduzione potrebbe risultare letale.

Oltre che te, ringrazio mia figlia Anna che mi ha regalato il tuo libro e che m’ha spronato a leggerlo (né credo che mi avrebbe permesso di non farlo). Anche lei ti vuol bene.

Senza voi donne, che faremmo noi uomini? Chi ti ha amato saprebbe mai rispondere?

I tuoi più grandi regali sono circa tre.

Grazie a te ho avuto la conferma che i riti servono per gestire l’esistenza. Sono equivalenti allo stretching che, se te lo dimentichi, rischi di stirarti un muscolo. Equivalgono alle inizializzazioni che si compiono allorché ti serve preparare una memoria di massa. Chiamansi altresì formattazioni. Tu hai le tue regole e le tue norme. In origine la regŭla era un asse di legno, che seguiva una linea retta. Da essa deriva la parola reggere. Anche la nòrma latina era una squadra usata per misurare le cose. Pensa: è contrazione di gnòr’ma = gnòrima; da cui deriva il greco gnorízein, conoscere.

Nella vita occorre conoscere i muri e le parole che paiono sbarrarti il cammino: e per andare sempre oltre! Sempre più in alto!, sbraitava Mike (poi ti spieghierò chi è).

Grazie a te, ho capito di essere più bello di quello che serve. Questo è il motivo per cui scrivo begli articoli. Troppa bellezza fa male. Occorre donarla. L’immodestia è il mio forte.

Quando scrivi dei tuoi guai, pari quasi distaccata, indifferente.

Sotto quel sentiero borgesiano e fitto di parole, c’è un magma incandescente che fornisce l’energia termica, senza di cui uno potrebbe finire per gelare.

Cosa ti dono io, in cambio? Questa reazione. Ti sembra poco?

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Marina Abramović, Attraversare i muri ‒ Un’autobiografia, Bompiani, 2022

 

Note

[1] N.d.E.: Stefano, chissà!

Un pensiero su ““Attraversare i muri. Un’autobiografia” di Marina Abramović: un processo necessario

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