“Lavacro” di Maurizio Fierro: un serial killer sui generis
In copertina spicca, in basso, un riporto: “Loro lo hanno reso mostro./ E lui è pronto a vendicarsi.”

Monstrum viene da monère, avvertire del monito che proviene da Chissà Dove, forse dall’Antro ove ci scrutano gli Dei. Vendicare deriva da vindex, colui che protegge, che ri-vendica il suo diritto (d’essere quel che è).
La foto in prima di copertina di Lavacro di Maurizio Fierro ritrae una donna urlante, che tiene abbassata la berretta sugli occhi, perché forse rifiuta la realtà. Ne agogna forse un’altra. Ricorda un po’ la foto della copertina de I volti della paura di Roberto Escobar: ove lei cela gli occhi con le mani, poiché forse non accetta questa realtà, e anche lei forse ne sogna un’altra. Ognuno di noi, a prescindere dalla propria diversa anima, è alla perenne ricerca della propria.
“Una parte di me vorrebbe andarsene…” – e, mentre così pensa, ode “… una vocina che sussurra che la violenza, qualsiasi violenza, è sempre presagio di sventura, e che il coraggio di non aver paura ha bisogno di altro…” – di un’accelerazione che spinge in senso opposto al presente?
Violenza deriva da vis – forza: e il suo valore lo si conosce solo vivendo.
“… non basta l’esistenza terrena per illuminare di senso il quadro della vita.” – se bastasse, si sarebbe immediatamente promossi a semi-dei.
All’assassino è concesso un capitolo ogni tanto, per esempio il secondo: “Quella domenica il Grande Capo si alzò che era ancora buio…”: verbo al passato, e terza persona, diversamente dalla maggior parte dei capitoli di Lavacro in cui l’io narrante al presente è il “tenente” che di nome fa “Jack Cabodi”, pellerossa di etnia “canuck” – ma anche: “Un cittadino canadese come tanti altri…”
Quel Grande Capo è un serial killer sui generis, che ha un compito (preciso e finito) da svolgere. A far cessare il respiro della sua vittima, non è mai lui, il Grande Capo, ma un boa acquistato da qualche parte e ogni volta immolato insieme a colui che ha soffocato.
“… Tirata dalle Mani del Grande Capo, l’epidermide veniva via come strisce di tessuto rosa tagliate in drittofilo da una sarta provetta. Un ordito perfetto.” – tanto che vien da dire: bravo!
Chissà perché si dice fare la pelle? C’è chi suggerisce che l’espressione sia nata dalla reazione di Pomponio Porfirione a una raccolta di versi di Orazio, il quale, figlio di un liberto, a parer suo desiderava indossare una pelle nuova.
Intanto l’io di Lavacro dice: “Noi indiani cattivi abbiamo un concetto del tempo differente.”: ogni ente di ogni stato del cosmo pare avere il suo. Così intese dimostrare Albert Einstein.
Jack Cabodi, umano come me, è un indiano vero. A modo suo, un guerriero valoroso. Se m’avessero chiesto da bambino a quale etnia sarei voluto appartenere, avrei detto: pellerossa. Con tale spirito, nel 1975, comprai e lessi i fascicoli dell’enciclopedia Indiani – Storia e Leggenda dei Pellerossa (Compagnia Generale Editore), cinque volumi zeppi di storie di infinite ingiustizie, che mi fecero vergognare d’essere un viso pallido.
Jack pensa: “Mi rassegno ad ascoltare lo spiacevole gracchiare che proviene dal cellulare.”
Egli è al momento fuori da ogni schema. È lì perché non può più essere là, a svolgere la sua pregressa attività di poliziotto. Che tanto pregressa non è, perché ora gli è stato chiesto di tornare a esercitarla. E lui ha deciso di seguire quel richiamo.
È bastato quel fastidioso gracchiare a farlo rinsavire o impazzire di nuovo. Cose che capitano. La nostra pelle, come tutto il resto, muta ogni giorno, senza che manco ce ne accorgiamo.
“Essere dimenticato. Questo volevo. Diventare invisibile, mimetizzarmi, avere un diverso livello nel videogioco della vita.” – sogni che tutti noi facciamo, ogni volta che ci destiamo la mattina. Mi dispiace, Jack, non sei meno stressato di noi visi pallidi.
Ragionamento tipico di noi civilizzati: “Mi convinco che non si può immaginare la pesantezza del senso di colpa fino a quando non si prova a caricarlo sulle spalle.”
Anch’io ho provato talvolta ‘sta sensazione: “Mi guardo intorno, e in quel formicaio di auto imbottigliate nel traffico mi sento la formica perennemente anarchica richiamata al suo dovere dalla regina.”
Urge una precisazione. Maurizio Fierro, comense, ambienta la sua storia Lavacro in Canada.
Credo molto nella casualità letteraria. Sto leggendo, in contemporanea, Memorie di una Geisha di Arthur Golden, scrittore statunitense. Mentre lo sto facendo mi vado cullando nell’illusione che a parlare là sia una donna giapponese, qui un indiano nativo del Canada. Ecco perché non penso mai che l’io narrante sia comasco, ma nordamericano. Qualora sorgano talora dei dubbi, urge saperli cacciare, immediatamente. Ogni lettura, fino a prova contraria, è un rito e poc’altro.
La scrittura è espressiva, stavo per scrivere fin troppo, ma poi mi sono reso conto che non ha senso dire così. Se non conoscessi l’origine dell’autore, non avrei problemi ad accettare il suo stato di yankee (delle terre del nord), e non so perché mi viene spesso da usare questo termine dispregiativo (derivato forse da un modo di dire olandese). Il nordamericano è un popolo come noi, che pensa che la pizza sia un piatto tipico delle sue parti e che Leonardo sia, innanzi tutto, un ninjesco chelonide (come anche Michelangelo, Raffaello e Donatello).
Non ho nemmeno la certezza che l’uso frequente di parolacce di certi romanzi yankee (anche di questo) sia un effetto di cui farei volentieri a meno. Ne dico anch’io, quando serve. Come capita a te, Jack, nativo canadese.
Qualcuno potrebbe obiettare che yankee sono gli statunitensi che vivevano a est. Al che risponderei che tutti i visi pallidi erano della stessa specie, per noi pellerossa. Qualcuno di loro disse che l’unico indiano buono era quello morto. E io, vivendo, non riesco a scordarlo.
Tre sono i personaggi principali (a parte l’assassino): tu, muso rosso, un muso giallo di nome Chan Lin, che di mestiere fa il capo, e un muso italico chiamato Aresi, venuto apposta dal Bel Paese per indagare su quegli strani delitti. Tre personalità desuete, nessuna delle quali è tipica della propria razza. Il cinese è, come s’è detto, il poliziotto capo, e lo fa notare ogni volta che può. L’italiano è un ospite e se ne rende perfettamente conto. Tu, pellerossa, sei uno che non ama eccessivamente il tuo lavoro ma lo svolge nel migliore dei modi. E che usa l’ironia per sopportare gli ordini ricevuti.
Il cinese ha molta fiducia nel tuo intuito, nel tuo istinto nel seguire le tracce del killer, il quale, a metà circa del Capitolo nono di Lavacro, “‘Io sono io!’ quasi urlò, sorprendendosi ad ascoltare quella voce acuta che gli usciva dalla bocca.”
Anche lui, come tutti noi, non è altro che una bestia che dolorosamente soffre: qui il pleonasmo è cogente e necessario.
Una frase interessante: “… le due nature che si contendevano il controllo della sua anima tornarono a guardarsi in cagnesco, non dandogli tregua.” – chi non ha mai provato questa feroce discrasia fra sé e sé? Noi reggiani (in lingua nativa: arşân) siamo in parte unni, celti, latini, in parte non ricordo che… ah, goti… Per la Pianura Padana son passati davvero in tanti. E tutti bramosi di conquistare il mondo!
Il cacciatore d’assassini non sta tanto meglio: “Per un po’ osservo il cielo grigio gravare come una colpa ancestrale da scordare.” – non la sento come una novità. La mia cultura è fondata su un fitto aggrovigliarsi di misteri e di colpe, che pare siano state commesse prima della nascita di ognuno di noi. Colpa degli avi, garantiscono i nostri sacerdoti.
Un anziano lo ammonisce: “La paura rifiuta l’equilibrio, Jack. Hai temuto di essere sopraffatto dalla parte di te che non sapevi di possedere.” – e che ora ti conferisce un’inattesa energia.
Per tentare di capire può servire il silenzio: “Non voglio guastare con frasi inopportune le vibrazioni invisibili che avverto dentro di me.”
Esistono vari tipi di thriller: quelli che paiono (e sono) un ingannevole gioco di enigmi, dove la soluzione è una sola: e non sempre s’identifica col maggiordomo. Poi ci sono quelli in cui quel che conta è la tensione che fa crescere la paura nel lettore. In altri, detti noir, si favorisce il nascondere al buio le ragioni di un delitto. Delle tre maniere, il presente thriller Lavacro non pare favorirne alcuna, pur essendo (di poco) più tendente verso la terza.
Come nei romanzi di Valerio Varesi, c’è un significato sociale sotteso nell’oscurità, che non sarà mai del tutto illuminata dalla ragione.
“Ogni storia di colonizzazione è anche una storia di abusi sessuali…” – questo non lo ignora alcun popolo, quando rappresenta il ruolo di vittima, o quello di aguzzino.
“I suicidi, l’alcolismo, la delinquenza e la disoccupazione che, come lupi, si sono infiltrati fra la nostra gente sono state le conseguenze.” – ogni invasione ha rotto degli equilibri che parevano eterni, e invece…
Un indiano (si presume un navajo) si diverte a uccidere e a togliere la pelle a dei religiosi che pare che per anni abbiano svolto, con (in)giusta severità, il compito di colonizzatori religiosi.
“Visualizzo la zona e comincio a fare deduzioni cartografiche da geographical profiling, tracciando linee, cerchiando, immaginandomi perimetri di azioni e quant’altro.” – ormai anche i pellerossa non si limiterebbero a seguire le umide tracce dei cavalli nemici.
Jack Cabodi è un indiano assai gesticolante: “Faccio ciao ciao con la mano a Dern e mi imbatto in Maggie. L’abbraccio. Lei però non sembra sorpresa.” – sto pensando a Tiger Jack, il pard navajo di Tex, che non compie un gesto né dice una parola che non siano mirati a uno scopo immediato.
“Un takeaway coreano a base di Kimbab e rotolini di alghe con riso contribuisce a mantenere costante il mio buonumore. Per una volta niente miele.” – né altro cibo diversamente tribale.
“… Un’investigazione al buio. Ma da qualche parte ci deve essere un modo di spiegare l’oscurità.” – devi forse tornare alle tue origini.
“Quando tutto fu concluso, recise la testa al boa, liberò il prigioniero dalle spire, ispirò dalla bocca del corpo esanime e sputò un grumo marrone sul pavimento.” – il Grande Capo ha posto fine a un’altra colpevole esistenza.
“… Pensò al lavoro che lo avrebbe atteso da lì a poco. Il cilindro, le strisce di pelle, la consegna.
Poi si girò su un fianco e si addormentò.” – anche il mestiere di killer ha le sue alienanti reiterazioni.
“Aaron si offre di accompagnarci. La sua sollecitudine alla genuinità del pesce andato a male.” – che anch’esso serve. Si pensi a chi lo gusterebbe alla faccia di noi civilizzati schizzinosi.
Dice l’investigatore italiano (un cattolico lui sì andato a male): “… La loro si prefigura prima come idea, poi, col tempo si trasforma in ideologia, quindi in ossessione, infine in psicopatia. Io li chiamo i quattro gradini che precedono l’abisso.” – ecco perché Nadia, una cattolica diversa ma non troppo, tanto s’incavolò quando le dissi che per me il cristianesimo era un’ideologia come tante altre. Ecco perché il vescovo dell’epoca proibì la messa a Padre Aldo Bergamaschi, il teologo che, in una sua omelia, aveva urlato che il messaggio del Redentore era ormai scaduto al rango di religione.
La Verità, che forse non esiste, qualora incidentalmente emerga, dev’essere arsa all’istante.
Di diversa natura è la trasmissione delle abitudini umane: “‘Stanno trapuntando’ dice con tono deciso. ‘Un’antica tradizione della nostra comunità tramandata da generazione in generazione. Mia nonna l’ha fatto con mia madre, mia madre con me, io con mia figlia, e ora lei lo sta insegnando a mia nipote.’” – e c’è chi la chiama cultura popolare.
“… il ricamo è il nostro piccolo atto di ribellione. Ma anche di unione. Gli uomini… loro spesso cercano di dividerci, a volte mi convinco che vogliano eliminare il seme dell’amicizia che tiene unite noi donne seminando zizzania.” – similmente, in altri contesti, venivano bruciati i libri.
Colto è chi coltiva un terreno comune a Sé e all’Altro, entrambi maiuscoli o minuscoli: l’importante è andare d’accordo, pur nella differenza (di stile, di origine, ma non di fine, che dev’essere salvifico, catartico).
“Mai avuto dimestichezza con la penna, ma qualcosa mi fa pensare che dalle sue parole potrebbero saltar fuori delle storie interessanti.” – se ti va, mettiti d’accordo con un certo Maurizio Fierro, un tipico che sto imparando a conoscere. È una questione di psiche, di anime, di entanglement… di kam’a, di passione, in sanscrito. Vi aiuterete a vicenda. Se capita, vi darò il mio contributo, mentre assorbirò il vostro.
Ti contraddico, però, quando scrivi: “… in fondo l’unico potere che possiedono le storie che ci appartengono è quello di scegliere colui a cui essere svelate…” – non sempre è così. Le storie scelgono noi, e noi scegliamo loro: si è correlati in maniera reciproca. Sennò non funzionano. E, dopo essere state narrate, saranno loro a scegliere il lettore.
Interessante è la discussione che hai con Aresi sull’Altro, sulla sua necessità, sul danno che egli ti può creare. Essendo la pagina più bella del tuo romanzo, ho deciso non commentarla se non dicendo semplicemente che va letta: è la 229.
Per voi “nativi” il “giorno del ringraziamento” diventa il “giorno del lutto” – e questo è un fatto tragico, sicuramente, ma al contempo finisce per correlare voi a loro. Noi tutti siamo tenuti a pensare all’Altro, e a ringraziare chi (o Chi) ci permette di confrontarci con lui (o con Lui).
A pagina 245 mi fai venire in mente una scena de Il piccolo grande uomo, film di Arthur Penn del 1970, con Dustin Hoffman: “Per la nostra tradizione, gli heyoka sono ‘coloro che camminano all’indietro’. Guaritore, esseri prescelti per mantenere l’equilibrio…” – di quel personaggio ricordo il suo sereno e sorridente indietreggiare. Ti pare poco?
Pare davvero che Lavacro sia stato scritto da un nativo, che ben conosce la cultura americana, quella vecchia e quella nuova, e quella di mezza età: un nome fra tutti, citato più volte è: Joni Mitchell – e solo grazie a te (e a zia Wiki che conferma) scopro che non fu solo una cantautrice, come credevo, ma anche una pittrice (la sua prima arte, a quanto diceva lei).
Intanto l’assassino (il vero, non il disgraziato che è stato trovato in un primo tempo) pensa al suo amico “Dorian”, che gli aveva parlato del “lavacro”: “Finita la danza, inizia lo spellamento. La mutazione dei serpenti. La loro nuova vita. Per loro quel rituale è un atto di purificazione…” – una nuova in-formazione, una specie di catartica e buona novella.
Tutto il mondo è paese. L’altrui però continua a spaventarci un po’.
Ora dici alla tua beneamata prostituta: “La carta… voi siete il popolo della carta…” – da cui viene il detto carta canta villano dorme. Siamo fatti così. Anche da noi, anticamente, bastava una stretta di mano. O un patto di sangue. Ora non più. Ci vuole la Santa Cellulosa!
“Quando arriverà la sua ora, spero solo che non debba soffrire. Lo auguro anche a me stesso.” – e io a me. Vedi che non siamo poi così diversi.

In quell’Altro Mondo, che forse non esiste, non ci saranno più nativi, né invasori, soltanto Anime. Oppure Nulla.
“Chiediti cosa tende ad accadere insieme nel tempo che ti appartiene” – e questa frase di “zio Arthur” è saggia e folle al contempo.
Sarà il Tempo a decidere, quello che sta Al di là di tutto. E che forse non esiste come intendiamo noi.
En passant, saluto “Stephen Graham Jones. Un blackfeet texano che scrive racconti…” – che spero di leggere un giorno. Forse sarai tu a presentarmelo.
“In certi momenti è come se i contorni della realtà si squarcino, e tutto ciò che uno pensa reale diventi solo il riflesso di qualcos’altro…” – del livello successivo, in cui ci toccherà condurre la nostra storia?
L’Epilogo di Lavacro mi dona la speranza che ci sia una redenzione anche per il più controverso dei criminali. Anche lui ha un’Anima che potrebbe risorgere, Altrove, a nuova Vita.
Io questo m’auguro: che ogni reo sia redento e non reietto.
Nelle Note sul romanzo leggo che i nativi: “… Ricevevano nomi nuovi e gli era proibito parlare la lingua nativa.” – questo capitava anche nella scuola di via Cassala, nel cui atrio ci minacciava ogni mattina quel terribile cartello: Vietato parlare in dialetto! A imporlo fu certamente un nativo pentito, ch’era assurto al rango di preside.
Per quanto riguarda i “Two spirit” – che tanto onore ricevono dalle tue parti, sappi che, di spiriti, occorre averne da due a centomila. Ché non averne nessuno è impossibile; … e solo uno men che meno. Due sono il minimo consentito. Luigi Pirandello ce lo confermerà quel Dì, quando (o se?) l’incontreremo Colà. Quando gli chiederemo quali siano i tre o quattro motivi perché noi ora siam qua. Aspettiamo, pertanto, vivendo insieme… con gaia e perfetta tranquillità.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Maurizio Fierro, Lavacro, Land Editore, 2022
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