“Buio a mezzogiorno” di Arthur Koestler: un dramma di coscienze?
Arthur Koestler, autore di Buio a mezzogiorno, fa parte di quella categoria di uomini e di scrittori che io definisco apolidi, perché ebbero genitori, situazioni, geolocalizzazioni che più disparate non potevano essere.
Dove e perché sia così, o lo si sa o lo si può cercare in rete dal primo zio telematico che si sceglie di andare a trovare. Questo è il senso della famiglia (fatto di link) di oggi.
Il prototipo di tali figure letterarie è Elias Canetti. Per scherzo, ma non troppo, amo storpiare il termine in ap(i)olidi, tenendo presente che l’arşân, né più né meno di ogni altro caucasico, è un crogiuolo di razze: galli boi, romani, unni, goti etc etc hanno contribuito a formare la sua arşâna specie. Ho lo sguardo unno e mandorlato, lo ammetto, come pure figliama. Anch’io, come Arthur Rimbaud, “dei miei antenati Galli ho… l’occhio bianco-cinereo-bruno, il cervello ristretto e la mancanza di abilità nella lotta, ma non mi ungo più i capelli di burro”. Negli ultimi 30 anni ho acquisito dosi sempre più massicce di geni pixuntiani e di amalfitani. Mi sento un OGM, che scrive in italiano, ma che si diletta nello studio di vari idiomi arabo-normanni, da ultimo, last but non least, il siculo: grandissima camurria è la Storia!
Esiste un amico, un solidale a intermittenza, con cui spesso e non so quanto volentieri questiono. In arşân, quistiunêr (come nell’italiano) significa bisticciare. A n stêr mia lé a quistiunêr: non star lì a leticare per un nonnulla. Similmente noi arşân tésti quêdri (che così ci spregiò il Tassoni) non andiamo mai a pranzo, semmai a desinare, a dişnêr: l’arşâna è gente inclìta non sebbene ma in quanto rozza! Diversamente da noi villici, quel borghese romano-parisien, dotato di geni esageratamente pugliesi, che talvolta ha parcheggiato a spillo (perpendicolarmente a due auto orizzontali), non essendogli rimasta altra possibilità, per metà francofilo, è sicuramente maggiormente fine, nonché affilato, di me: il est vraiment très tranchant. Mon ami bizare et moi nous disputons souvent sur le terme Histoire. Per me è una prostituta maschia, falsa e mendace (e anche menzognera). Per lui è lo studio accurato (e strategico, aggiungo provocatoriamente io) di quel che accadde all’uomo dopo l’era dei neanderthaliani, quando i più culturali fra gli homo sapiens sapiens inventarono la scrittura. E mai sono riuscito a far capire a quel (lo dico con affetto misto a ironia) vilain garçon, a quell’impudente che io non intendo parlare della storiologia, ma dei non casuali effetti collaterali della stessa. Per esempio quel che la storia turca narra (negando) a proposito dello sterminio degli armeni: evento mai occorso!, in verità, cioè nella loro vile verità. Gli armeni familiari di Charles Aznavour scelsero di recarsi in Francia perché avevano voglia de danser le cancan, con la mano che ben tesa a sorreggere la cuisse droit, e non per sopravvivere a chissà quale mai occorso genocidio. Chissà se un giorno je et mon ami riusciremo a comprenderci. La storiologia è una signora per bene che è periodicamente violentata e seviziata e ridotta a vivere come una puttana, tra l’altro anziana e mal pagata. È una scienza umana, di cui non potremmo fare a meno, e da tener d’occhio continuamente, perché Ella è spinta (dal vincitore) al meretricio!
Odi et amo, rimembrando Catullo, le opere in cui c’è troppo da sottolineare, da riportare, da trascinare sul natante come si fa con le reti da pesca.
Di Buio a mezzogiorno, romanzo tremendo, inizialmente, non ho sottolineato quasi nulla (manco il minimo sindacale), poiché la lettura e la coesistenza in quella maleodorante cella, in cui io e Rubasciov si trascorreva insieme il tempo, m’annoiava non poco. Come già accadde in altre occasioni, la situazione si è poi rovesciata, non tutto in una volta, ma in misura sempre più evidente.
Rubasciov (il cui cognome, per assonanza, mi fa venire in mente il delittuoso Raskolnikov) “… sorrise e chiuse gli occhi. Si sentiva avvolto nel caldo abbraccio della coperta, si sentiva protetto; per la prima volta dopo molti mesi non aveva più paura dei sogni.” – che se ne sia avverato forse uno?
Egli era stato da poco arrestato e gettato a peso in quella cella: “Un’ora prima, quando i due funzionari del Commissariato degli Interni martellavano sulla porta di Rubasciov per farsi aprire e arrestarlo, Rubasciov stava proprio sognando di essere arrestato.”
La cattura non sarebbe spiaciuta a Franz Kafka, con quella “manica” che “è rovesciata all’interno, ed egli non riesce a infilarvi il braccio.” – quante volte è capitato a me, ma non c’era mai uno sgherro alle mie spalle.
Che bella la scrittura di questo Arthur Koestler in Buio a mezzogiorno, così poetica quando non è tremenda e pure quando lo è: “… la strada era addormentata o fingeva di esserlo”: quando ci si affanna a respirare in un luogo dove non il domani, ma l’attimo è avvolto nell’insipida nebbia, in quel costante dubbio, può capitare che la ghiaia della strada finga di non essere lì che per scrutare il tuo stentato cammino.
“Non c’era certezza; soltanto l’appello a quell’oracolo beffardo che si chiama Storia, che emetteva la sentenza solo quando le mascelle dell’appellante già…” – non c’era più nulla da fare, e poco da dire, se non che esse: “… da gran tempo s’eran fatte polvere.”
Chissà se “il N. 1” avesse anche lui dei simili onirici conati, o se fosse certo d’essere destinato a essere il N. 1 per l’eternità. E chissà chi indovina chi fosse il N. 1 a Russia in quel periodo storico. Era ciunto e aveva i baffoni, più corposi rispetto a quelli del suo (per breve tempo) solidale e più mingherlino austriaco. Uno dei due alla fine stravinse, mentre l’altro perse con ignominia la finale mondiale, però quei due sgherri immondi si somigliavano in tutto, nel mingere soprattutto.
Il N. 1 è tale perché è il N. 1. e basta, essendo il recordman zar di tutte le Russie. Il resto, fatto da altri N. 2-3-4 etc non è che “ignobile dilettantismo, semplice superstizione, magia nera.” – fuffa…
Rubasciov, a modo suo, è un uomo pio: quando parla tra sé e sé, è come se stesse “dicendo il rosario”.
Uno dei suoi pensieri dominanti è: “Come si può cambiare il mondo, se ci si identifica con chiunque?”
Teme d’essere fucilato da un giorno all’altro. Nel frattempo, “Il cortile taceva bianco e deserto.”
Poi egli pensa (ignorante di quanta colpa abbia): “Nulla è peggiore in prigione della consapevolezza della propria innocenza: impedisce l’assuefazione e mina irreparabilmente il morale…”
Il suo amico Riccardo “venne arrestato” – e chissà quanto c’entrasse lui, Rubasciov…?! Assai, pochissimo, abbastanza…?!
“Veramente tremendo era solo l’ignoto, che non si dava nessuna possibilità di prevedere certe reazioni e nessun mezzo di misura per calcolare la propria capacità di resistenza.” – situazione comune a noi mortali, anzi: pressoché necessaria e obbligatoria.
“Sognavano la conquista del potere per abolire il potere…” – che è come desiderare di possedere Venere per poi, nel momento cruciale, serrarsi in un monastero trappista, con quella dea che se la sarebbe poi vista bene con chi pareva a lei.
Il Primo Pizzetto (mio appellativo) “Era venerato come Dio Padre, e il N. 1 come il Figlio…” – con la grandissima camurria che a morir presto fu il Padre e, a farsi le budella d’oro, fu il mai redento Figlio, che poi regnò su quegli infelici per così tant’anni.
Altro amico disgraziato: “Una settimana dopo Nano Loewy si impiccò.” – lui e la sua gobba, poveraccio…
“Perché il movimento era senza scrupoli: fluiva alla sua mèta, imperturbabile, e deponeva i corpi degli annegati nelle curve del suo corso.” – panta rhei!
“E chiunque non avesse seguito le sue tortuosità era ributtato sulla riva, perché questa era la sua legge.” – Amen e Così sia.
“Il Partito conosceva un solo delitto: l’allontanarsi dal corso prestabilito; e un solo castigo: la morte.” – la tortura era soltanto funzionale a una confessione, mai e per nulla gratuita.
“La morte non era un mistero nel movimento; non c’era nulla di esaltato in essa: era la logica soluzione a divergenze politiche.” – chi divergeva era de-stinato al camposanto, chi convergeva al momento s’assopiva in sonni inquieti.
A interrogare Rubasciov era un amico di nome Ivanov: un intellettuale, com’era anche lui. Non ancora deviato, però. Lui lo era da tempo, dissidente. Fra i due, a pagina 100 e 101 di Buio a mezzogiorno si ciancia della sacra differenza fra “io” e “noi” – molto interessante, proseguiamo nella disamina, ché il tempo stringe.
“Voialtri avete ucciso il ‘Noi’, lo avete distrutto.” – è il nostro eroe a parlare, perché ancora può farlo.
Nano Loewy “s’era impiccato a una trave della sua soffitta.” – riposi in pace, e “il suo corpo girava lentamente su se stesso, tanto che avevano creduto che si movesse ancora…” – miracolo!
Leggo nel “giornaliero” di Rubasciov che “La Storia ci ha insegnato che spesso la menzogna la serve meglio della verità – la prima le è consanguinea, la seconda è solo in affido temporaneo.”
Il nostro aveva una segretaria, a cui voleva tanto bene, che di nome faceva “Arlova” – destinata a un’ingloriosa fine.
Di chi fu la colpa?
“Tra Rubasciov e il 402 era nata una specie di amicizia.” – in quella galera, il nostro era il 404, da quanto ho capito. Picchiettando con un oggetto sulla parete i due reietti riuscivano a comunicare fra loro.
402 era una miniera di informazioni, essendo “là già da due anni” – e di natura pettegolo.
“‘Tu potrai fare di me quello che vorrai’ gli aveva detto l’Arlova, e questo egli aveva fatto.” – mah!
“La Storia non era forse sempre stata un’edificatrice inumana, senza scrupolo alcuno, mescolante il suo cemento di menzogne, di sangue e di fango?” – è ogni volta così, amico mio!
C’è un tipo che ha passato “settemila giorni e settemila notti” serrato nel buio, senza rapporti se non con chi lo manteneva in vita (sempre che fosse vita, quella): “Pazzo non era” – ma “era diventato un po’ strambo.” – ci credo.
In quei vent’anni da anacoreta aveva imparato a disegnare le cartine, stando lì, al chiuso.
Non si dice “esecuzione” – bensì “liquidazione fisica” – buono a sapersi.
A pagina 178 di Buio a mezzogiorno si parla della “curva del seno dell’Arlova, dalle punte calde ed erette.” – molto belle e tiepide, immagino!
Tre pagine dopo egli pensa (ma forse è l’autore): “O era stato giusto o era stato ingiusto sacrificare Riccardo, l’Arlova e Nano Loewy. Ma le balbuzie di Riccardo, il seno dell’Arlova o i gemiti di Bogrov che cosa avevano a che fare con la giustezza obiettiva o l’errore obiettivo della misura medesima” – chissà chi potrà ormai rispondere?
Ivanov gli chiede: “Ti ricordi di ‘Raskolnikov’?” – e come no! E poi aggiunge: “Abbiamo costruito la più gigantesca macchina poliziesca, con le spie elevate a istituzione...” – etc etc.
“Il sistema capitalistico crollerà prima ancora che le masse lo abbian capito.” – così scrive Rubasciov nel suo assurdo “giornaliero”. Mah!
“… ciò che veniva presentato come giusto doveva splendere come oro, ciò che veniva presentato come erroneo doveva essere nero come la pece; le dichiarazioni politiche dovevano essere colorate come figurine di pan pepato a una fiera.” – un po’ piccante?
Poi gli capita di pensare alla “Arlova distesa accanto, vide la curva familiare del suo seno levarsi nell’ombra.” – povere mammellone, rinsecchite ormai… Lui, Rubasciov, era al momento vivo, ma “si sentì, a un tratto, vecchio…”. mentre del buon vecchio aguzzino, di quell’Ivanov si sa solo che è stato arrestato. Poi a “Gletkin”, il suo successore, scappa detto un verbo al passato (o forse l’ha fatto apposta): infatti poi aggiunge che è stato fucilato. Quell’odioso uomo ricorda al nostro le sue responsabilità per la fine che fece quella gentil donna con belle zinne.
A pagina 238 leggo: “Come avrebbero potuto quegli uomini di Neanderthal capire quello che lui…” – non so mica rispondere! E chi ormai può farlo?!
Gletkin “non si faceva sostituire da nessuno ed esigeva da se stesso esattamente ciò che esigeva da Rubasciov…” – erano in due a essere seviziati, uno attivo, l’altro passivo. A Gletkin non importava d’essere dalla parte della ragione, ma d’aver ragione della resistenza di Rubasciov, d’aver ragione su di lui. Rubasciov ammette: “… credo anch’io al programma del nostro burattino coi baffetti neri… se soltanto gridasse un po’ meno. Dopotutto, uno può essere solo crocifisso in nome della propria fede.” – un religioso in questi ambiti non vale l’altro. In genere è però così dappertutto.
“Gletkin si stava pigliando gioco di lui? Appariva più corretto e inespressivo che mai.” – non essendo un automa, ma un sanguigno giocatore di scacchi (o di tressette) a cui importava solo sbaragliare il nemico.
“… si chiese se gli uomini di Neanderthal fossero capaci di sorridere in qualche modo.” – forse no.
Poi il nostro dice all’aguzzino che è inumano il modo con cui sono trattati i contadini, licenziati se non anco ammazzati, anche per nonnulla. Purtroppo “Il tratto più significativo nel carattere neanderthaliano era la mancanza assoluta di senso umoristico o, più esattamente, di frivolezza.” – anche le neanderthaliane, a quanto pare.
L’aguzzino spiega che, mentre Rubasciov ebbe un orologio a “otto o nove” anni – lui solo a “sedici anni” imparò “che l’ora si divideva in sessanta minuti.” – perché era un vile contadino figlio di vili contadini. Per cui un po’ di severità è non solo necessaria: è obbligatoria. Diversamente “tutto il paese si arresterebbe, i contadini si butterebbero a dormire nei cortili delle fabbriche, l’erba spunterebbe fuor dei camini e tutto tornerebbe come prima.” – anche il baffuto e carnaceo Zar? Forse no…
In lui quell’odio era sorto a causa di orologi dati e negati.
Lenin apparteneva a un’agiata famiglia borhese.
Il papà del N° 1 era un misero ciabattino, la mamma una misera villica.
Al primo dei due zar somigliava Rubasciov.
Al secondo, con gelida rabbia, s’ispirava Gletkin.
Si parla così tante volte dei “neanderthaliani” che ormai anch’io odio quella gente sconfitta dalla Storia, che sarà poi genialmente trascritta dai più sapienti umani…! Ma che nefanda camurria!
Dice Gletkin: “La vostra testimonianza al processo sarà l’ultimo servizio che potrete rendere al Partito.” – prima della definitiva quiescenza e del trattamento di fine servizio.
“È dovere di un rivoluzionario conservare la propria vita.” – qualcuno un dì aveva detto ciò. Chi fu?
“Ma il capo della Rivoluzione ha compreso che tutto dipendeva da una sola cosa: essere quelli che resistono di più.” – e che infine sopravviva il migliore! Cioé il N°1 e i suoi ignobili servi!
Avendo vinta la partita, Gletkin dice: “Darò ordine che il vostro sonno non sia comunque disturbato.” – il che vale come un RIP: requiescat in pace.
“Guai al vinto, che la Storia trascina nella polvere.” – polvere, del resto, era già inizialmente.
“Era un uomo che aveva perso la sua ombra, ch’era libero da ogni legame.” – e un giorno potrà sognare di andare a recitare nel romanzo di Haruki Murakami La fine del mondo e il paese delle meraviglie.
Ora si parla di equazioni che non reggono, ché nessuna può tenere botta fino alla fine. La matematica è indecidibile, assicura Kurt Godel, l’inflessibile logico.
“La Storia aveva pulsazioni lente, l’uomo computa in anni, la Storia in generazioni.” – nel frattempo si può calcolare e ricalcolare come pare meglio all’esperto matematico.
“… navighiamo senza zavorra etica.” – essendo troppo greve da sopportare.
Ora non mi va d’aggiungere più nulla se non il consueto spoiler finale: “Un’onda lo sollevò, lentamente. Veniva da un’immensa distanza e trascorse via placida, alzata di spalle dell’eternità.” – per cui Nicolaj Salmanovic Rubasciov trasvolò via per sempre, non so se e quanto felice e contento.
Chissà se quel è stato concepito e scritto prima di Vita e destino di Vasilij Semënovic Grossman?
Solo chi rinverrà la risposta la saprà. E, nel caso, giudicherà per il meglio.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Arthur Koestler, Buio a mezzogiorno, Mondadori, 1974