Viaggio in Marocco: Marrakech tra bellezza e contraddizione
Al mio ritorno da Marrakech, mi sono trovata sommersa da domande riguardo all’esperienza in Marocco. Ho risposto con uno sguardo interrogativo e un prolungato sospiro confuso.

Al mio vago riscontro i miei esaminatori hanno quasi sempre ribattuto con soddisfazione mista ad incredulità: “Ah, non ti è piaciuta!”. E io, colpita nel profondo del mio orgoglio, ho risposto “No, e che… dai ti mostro le foto e ti spiego”. Infatti, a differenza di città europee che di solito piacciono o non piacciono seguendo un giudizio rigoroso, Marrakech si pone sulla linea di confine, sfumata e indefinita, di ciò che può essere apprezzato perché fa riflettere e di ciò che può essere disprezzato perché fa indignare.
Partiamo dal presupposto che il Marocco è un’esperienza da fare almeno una volta nella vita. Perdersi fra le vie della Medina ti rende consapevole del privilegio che hai acquisito per nascita: il caro vantaggio di essere occidentale. Anche se, in realtà, il suddetto pensiero può essere frutto della visione narcisistica dell’Europa come centro del mondo.
D’altra parte, però, ti sovviene anche un’invidia primitiva e un’ammirazione prepotente per la capacità del popolo di affrontare una vita fatta di stenti, grazie alla malleabilità e alla resilienza, cose sconosciute a noi europei viziati dal capitalismo.
La prima sensazione che si sperimenta appena si mette piede nella Medina, ossia il centro storico, è lo straniamento. Marrakech vecchia ti accoglie direttamente in una delle piazze più grandi che abbia mai visto, il cuore pulsante del paese, Jamaa el Fna.
Qui convertono tutte le grandi e piccole arterie del centro storico, qui avvengono gli incontri, gli scontri, gli incroci e gli affari. Qui ci sono centinaia di persone che cercano in ogni modo di sopravvivere vendendo esperienze o cibo ai turisti, considerati come bancomat umani capaci di rivoluzionare il guadagno della giornata.
La piazza rappresenta di conseguenza un paradosso: da un lato è affascinante, enorme, brulicante di persone; dall’altro l’insistenza domina l’atmosfera, i locals vogliono con forza e decisione venderti questo o quello, ti spingono ad accarezzare scimmie incatenate o cercano di truffarti con escamotage ricorrenti, come quello dell’henné o del serpente.
È proprio questa esperienza totalizzante che crea straniamento e confusione. La sensazione sperimentata ti accompagnerà per tutto il viaggio, in un complesso conflitto interiore fra ciò che sei abituato a vivere e ciò che invece stai accogliendo dall’esterno.
Lo shock culturale
Lo shock culturale è grande, soprattutto il primo giorno e soprattutto per chi come me non aveva mai messo piede fuori dall’Europa. Ovviamente questa differenza culturale proviene essenzialmente da tre elementi: la scarsa igiene, la religione onnipresente e il poco rispetto per gli animali.
Ciò che mi ha colpito di più è stata la presenza continua di mosche su pane e dolciumi esposti sulle bancarelle nei souk, ossia i mercati della Medina. Lo stesso valeva per i laboratori all’ingrosso che, situati sempre nei vicoli, avevano condizioni igienico-sanitarie davvero scarse e davano direttamente sulla strada, permettendo ai passanti di guardare all’interno.
Così abbiamo avuto sin da subito la consapevolezza che le buonissime pagnotte gustate nei ristoranti fossero state terreno fertile per gli insetti. Ma alla fine io e i miei compagni di viaggio ci siamo abituati all’idea che il cibo poteva essere non troppo sicuro: abbiamo acquisito un po’ di sana resilienza ‒ e forse a tratti rassegnazione ‒ dal popolo marocchino.

La religione, in aggiunta, è un elemento chiave per la comprensione dell’attitudine di vita dei cittadini del Marocco. Tutta la quotidianità ruota intorno alle cinque preghiere giornaliere che ogni musulmano deve compiere. Per cinque volte l’intera città si ferma, gli altoparlanti in tutta Marrakech diffondono la parola di Allah, le persone si inchinano e bisbigliano invocando dio. Le donne spesso non sono ammesse ai riti di preghiera collettiva e hanno l’obbligo di indossare il velo o il burqa. Io e le mie amiche abbiamo mantenuto i nostri capelli sciolti, ma spesso eravamo osservate insistentemente per via degli abiti, per l’aspetto occidentale o, forse, per la nostra libertà. La sensazione non è stata molto piacevole, ma non è di certo un luogo pericoloso tanto da non poterci camminare a piedi.
La religione inoltre domina prepotentemente anche altri aspetti della vita quotidiana, come il divieto di bere alcool, di mangiare carne di animali carnivori ed onnivori e la concezione secondo cui il divertimento è inteso come perdizione e peccato.
Gli animali rappresentano invece uno strumento di guadagno. Le scimmie della Medina sono private completamente della propria libertà, tenute al guinzaglio con catene spesse, esibite come fenomeni da baraccone. Se fuggono tutti si mobilitano per recuperarle.
Lo stesso vale per i cammelli, obbligati a trasportare per ore i turisti, legati e costretti in una lunga carovana con il collo immobilizzato. A niente servono i versi di rifiuto e i tentativi di non alzarsi: i loro carcerieri devono guadagnare e i turisti devono divertirsi. L’esperienza nel deserto è da evitare se compiuta sul dorso di animali sofferenti, è meglio affittare un quad se si vuole sperimentare il fascino delle dune.
Le meraviglie del Marocco
Lo straniamento di cui parlavo prima è sparito spesso di fronte a spettacoli da togliere il fiato. In primis per la bellezza dei souk, i negozi che vendono spezie, gioielli e manufatti all’interno della Medina.
Questo è un luogo magico, unico al mondo, coperto da altissimi tetti in legno intagliati, da cui la luce filtra e crea giochi di ombre sul pavimento. È un posto vivo, di cui puoi ascoltare il battito e puoi percepire il movimento, in cui puoi lasciarti trasportare dalla corrente e ritrovarti in angoli nascosti, in meandri oscuri che rivelano, improvvisamente, un giardino fiorito. L’amore per l’arte, per la creazione a mano e per lo street food rendono i souk un mondo a parte in cui l’atmosfera è caratterizzata dal desiderio di mostrare, di condividere, di gioire alla vita.
L’imperativo categorico è perdersi nei vicoli, lasciarsi trascinare dal ciclo degli eventi. Come quel giorno in cui siamo capitati per caso in una farmacia/erboristeria e il proprietario ci ha mostrato il processo di creazione dell’olio d’argan. O come quel giorno in cui ci siamo ritrovati in un vecchio riad nobiliare, trasformato in un ristorante, che era così bello da sembrare un’opera d’arte vivente.
Poi abbiamo camminato nei corridoi stretti di concerie, ossia negozietti che vendono prodotti artigianali realizzati con la paglia e col cotone, intrecciati a mano e mostrarti come se fossero dei quadri d’arte moderna. C’erano creazioni incredibili, come uno specchio gigantesco a forma di sole, incorniciato in un telaio di paglia, da cui pendevano altrettanti filamenti come se fossero raggi.
Altrettanta bellezza era nei gioielli, di straordinaria manifattura che, con le pietre preziose e lo splendente colore dorato, avevano la missione di incorniciare i visi e le mani delle donne.
Per non parlare dei profumi, dei saponi e degli oli, che inebriavano il cuore e ti riportavano indietro nei secoli in cui non erano usati prodotti chimici ma solo essenze naturali.

La potenza del Marocco si è rivelata, in tutta la sua essenza, anche quando abbiamo deciso di fare un’escursione nell’entroterra, precisamente alle cascate di Ouzoud. I miei amici erano molto entusiasti di andare, mentre io ero particolarmente scettica perché avevo il sospetto che fosse un posto molto turistico, venduto dalle agenzie della Medina solo per fare soldi. Purtroppo, ci siamo ritrovati in una situazione su descritta quando abbiamo scelto di prenotare l’esperienza al deserto di Agafay, il quale non può essere definito tale, poiché consiste solo in una landa desolata ricoperta di rocce. La vera attività da fare, per quanto riguarda il deserto, è trascorrere una o più notti all’oasi di Merzouga, a circa una giornata di viaggio, da cui si possono visitare le dune dell’Erg Chebbi.
Ritornando al discorso sulle cascate, per giungere lì abbiamo impiegato circa tre-quattro ore, considerando anche le varie soste. È stato un viaggio non troppo comodo, soprattutto perché le strade non erano delle migliori. Tuttavia, quello che abbiamo scovato durante il percorso è stato incredibile e ha ripagato tutto lo sforzo: abbiamo attraversato piccoli villaggi completamente perduti nel tempo e nello spazio. I berberi, ossia gli abitanti di queste zone, vivono ancora in un’epoca premoderna, in un posto senza elettricità, senza negozi, in cui l’unico punto di incontro è il mercato e l’unico mezzo di trasporto è l’asino.
La sensazione che ho provato è stata forte e intensa, una consapevolezza di lancette ferme, di tempo immobile, di salto all’indietro, di vita vera. Molti di essi sedevano immobili sul ciglio della strada, senza fare niente, aspettando che la giornata scorresse lenta, scandita dalla luce del sole. Nessuno aveva il cellulare, a nessuno probabilmente importava cosa stesse accadendo nel resto del mondo, perché il vero e unico loro mondo era quello.
Tutto intorno c’era il silenzio, distese di altipiani e rocce dominavano lo sguardo, le persone non erano altro che parte del territorio, al pari di una pianta, al pari di un cammello. Questo mi ha fatto riflettere molto sul senso intrinseco dell’umanità occidentale: noi non siamo parte del territorio, noi lo dominiamo. Noi non ci consideriamo al pari di un albero, ma siamo più preoccupati di deforestare un’area per costruire un centro commerciale, che di proteggere, grazie alle nostre risorse, una parte della Terra che ha diritto, tanto quanto noi, a stare al mondo. L’umanità occidentale è disumana, ha perduto il senso del tempo perché lo ha costruito daccapo, lo monitora grazie ad un orologio, lo ha scandito in secondi, lo ha tagliato e sminuzzato e ha incastrato gli uomini in esso.
Continuando il nostro percorso verso le cascate, abbiamo scoperto un luogo che evocava l’atmosfera del Salento: ricco di ulivi, con caprette che pascolavano felici e un letto di un fiume ormai asciutto da tre anni, il periodo preciso in cui non cadeva pioggia. È stato singolare sapere che da più di 900 giorni non pioveva, che per loro l’ombrello è uno strumento sconosciuto e che i bambini nati in questi anni non sanno cosa significa vedere il cielo piangere.
Finalmente, dopo svariate ore e infinite riflessioni, siamo arrivati alle meravigliose cascate di Ouzoud: uno spettacolo grandioso, in cui la forza della natura sgorgava in tutta la sua potenza. L’acqua, che fuoriusciva dalle pareti di un gigantesco canyon, formava a valle una serie di lagune e acquitrini, attraversati da piccoli ponti in legno a pelo d’acqua; le piante decoravano la vista dominata dal colore rosso rame del terreno. Qua e là c’erano piccoli bazar che vendevano cibo e manufatti, in cui si poteva gustare un tipico piatto marocchino con la vista sulle cascate. Ma la parte più interessante della gita è stata giocare con le scimmie, che erano completamente libere e vivevano in branco. Molto dispettose e insistenti, seguivano i turisti ovunque, in cerca di cibo o di coccole. Una di loro ha anche deciso di saltarmi sulla spalla, e pesava davvero tanto ma era molto soffice e simpatica. Riuscivano a sbucciare i piselli in un batter d’occhio e ti osservavano con occhi profondi e coscienti: li ho soprannominati i Golden Retriever del deserto.
Riflessioni di ritorno a casa

Una precisazione necessaria da fare è che questo articolo non vuole essere una guida turistica, per cui salto la parte in cui abbiamo visitato i Jardine Majorelle o le varie altre attrazioni, come le Tombe Saadiane. Infatti sono bei posti da visitare, ma non mi hanno suscitato quasi nessun tipo di riflessione.
Come dicevo all’inizio, il Marocco è un posto davvero polivalente, da analizzare e comprendere in varie sfaccettature, ma soprattutto da accettare in tutti i suoi lati controversi. Viaggiare verso il sud del mondo è un ottimo mezzo per raggiungere la duplice consapevolezza di quanto siamo al tempo stesso fortunati e sfortunati. Infatti godiamo di un privilegio enorme nel vedere garantiti tutti i nostri diritti: quello ad un’alimentazione sicura e accessibile, un’istruzione che ci permette di poter aprire le porte di qualunque settore, ospedali che possono curarci, ambienti puliti, acqua potabile, elettricità, possibilità di crescita e di riscatto.
D’altra parte, siamo immensamente sfortunati perché il benessere ci ha spinti a dimenticare di essere uomini. Abbiamo scordato cosa significa vivere senza pregiudizi e senza superficialità, abbiamo imparato che la noia e la semplicità sono nemiche, che bisogna vivere per lavorare e accumulare denaro per comprare cose che non ci servono. Siamo incastrati in Matrix e, purtroppo, non ce ne accorgiamo.
Il Marocco non è semplice da vivere, come immagino tutte le realtà di paesi in via di sviluppo, ma è una medicina da inghiottire, un pasto da gustare in tutte le sue componenti. Non è bello, non è brutto, non è piacevole, non è malevolo: è naturale e puro, controverso ma vivo, da affrontare sia con la testa, per accogliere qualunque tipo di cammino, impervio o meraviglioso che sia, sia con il cuore, in cerca di amore, in cerca di avventura.
Written by Ilenia Sicignano
Photo by Ilenia Sicignano
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