Contest gratuito di poesia e racconto breve “Conversazioni Poetiche seconda edizione”
“Poesia dunque! Poesia molteplice o del singolo autore, poesia che nasce da un pensiero unico o da più penne. Poesia che vive in una raccolta o su un libro di scuola! Poesia itinerante in luoghi vicini e disparati e quella che viaggia in continenti lontani, anche grazie al Web!” ‒ dalla prefazione di Antonietta Fragnito
Regolamento:
1. Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Conversazioni Poetiche ‒ seconda edizione” è promosso da Oubliette Magazine, dagli autori e dalle autrici dell’antologia, e dalla casa editrice Tomarchio Editore. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.
La partecipazione al Contest è gratuita.
Tema libero.
2. Articolato in due sezioni:
A. Poesia (limite 100 versi)
B. Racconto breve (limite 1000 parole)
3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.
4. Premio:
N° 1 copia del libro “Conversazioni Poetiche ‒ seconda edizione” edito nel 2024 dalla casa editrice Tomarchio Editore. Autori ed autrici: Antonietta Angela Bianco, Caterina Muccitelli, Gabriella Mantovani, Gabriella Zedda, Gigliola Cuccu, Giovanna Fracassi, Mary Ibba, Oswaldo Codiga, Roberto Chimenti, Samuel Fernando Pezzolato, Teresa Stringa.
Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.
5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 3 marzo 2024 a mezzanotte.
6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:
Alessia Mocci (Editor in chief)
Carolina Colombi (Scrittrice e Collaboratrice Oubliette)
Stefano Pioli (Collaboratore Oubliette)
Antonietta Fragnito (Poetessa e scrittrice)
Giovanna Fracassi (Poetessa e scrittrice)
Samuel Fernando Pezzolato (Poeta)
Franco Carta (Poeta e scrittore)
7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.
8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.
9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook.
10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.
11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.
Buona partecipazione!
Accetto il Regolamento, sez. A
Angelo Napolitano
FOEMINAE ( o CERRIDWEN)
Siamo Donne che corrono coi Lupi,
fiere e orgogliose… a correre coi Lupi.
La vita la sbraniamo tutta intera,
perchè l’amiamo fin nelle radici.
Il bacio della Terra e della Vita,
la Vita che comincia dalla Morte,
lungo un amplesso che non ha mai fine.
Tutta poesia… tutta carne e sangue…
Il Fuoco che risana dagli stupri
di una civiltà dell’incivile,
che uccide il Lupo e l’anima di dio,
i nostri figli… i nostri padri antichi…
l’incesto tra gli Dei ed il Destino…
L’amore più rovente e arroventato…
Come un coltello che apre nelle vene
una cascata fatta all’incontrario…
L’acqua risale verso l’infinito…
bagna le Stelle vergini del cielo…
E noi nelle Foreste che godiamo…
in un orgasmo senza più confini…
Siamo le Donne… i Lupi che corriamo!
Accetto regolamento -Sez.A-Poesia inedita
Introduzione all’anima
Cascate di lacrime
prestate alla pioggia
vestite del colore de vento.
Reclamano gli oceani
che allestiscono i porti
del destino.
Come una larva,
l’orizzonte si contorce
e si ritira al di là dei fili della luce.
Intravedo cime nevate.
Rifiuta l’invito a consumarsi
nella scultura del niente.
Introduzione all’anima.
Voler fermare il tempo
Se si potrebbe fermare il tempo …
Almeno una volta,
anche solo per un momento …
Poter vedere indietro negli anni
e rivedere quello che abbiamo lasciato
senza troppi affanni …
Quello che abbiamo fatto e quello che abbiamo detto …
Quello che dovevamo fare
e quello che non volevamo fare …
Dove ci dovevamo recare
e dove non volevamo restare …
Ripassare per bene il film della nostra vita …
Magari controllare lo sbaglio
e una volta tanto riuscire a dargliene un taglio …
Poter cancellare tutto
quello che abbiamo fatto di brutto …
Aprire gli occhi con la mente
e tentare di fermare il tempo,
anche con in mano un niente …
sez. A, accetto il regolamento
Sezione A, accetto il regolamento.
SOTTO QUELLE FRONDE
Ricordi? Sotto quelle fronde
Dicevamo le nostre cose:
Quotidiane, poco profonde.
Avevi mani poggiate sul grembo
E ai piedi sandali d’oro
Intrecciati su dita sottili
E io provavo qualcosa che non so,
perché se lo fisso diviene vago,
un riflesso di sole fugace nel lago.
Poi, seduto di sghembo,
Vidi il tuo sguardo blu
sbattere sugli occhiali scuri
E mi nacque la voglia
di scompigliarti i capelli,
forse i pensieri.
Accomodati… Anche alle Lupe e ai Lupi piace scompigliare i capelli e forse anche i pensieri :-)
Angelo Napolitano! Non è a te che voglio scompigliare i capelli!!
Le maglie della sera
Un’idea colpevole
è l’ipocrisia dell’attualità,
certe parole hanno lo stesso suono
dei passi dei sassi.
Un bambino non in tempo
non è una situazione mite
è un calendario dove cadono giorni.
Matteo Marangoni
Sezione A – Accetto il regolamento
Non banale
Bellissimo i “passi dei sassi”.
Un dubbio sul titolo. Davvero le maglie della sera o era le magie della sera?
Violenza strutturale contro le Donne
Qual è quell’amor che ha mano violenta,
uccidendo quando la relazione
è finita? Rimane l’afflizione:
non picchia, non aggredisce e spaventa.
Villano l’uomo che non rappresenta
nel petto l’aver amato, e imbroglione
l’odio arma la mano con avversione
e dolce fanciulla ha una fine cruenta.
Ecco l’ennesimo femminicidio,
che vuole eliminar l’identità
della donna; da un ideologia
patriarcale. È la psicologia
dell’assoggettamento; ambiguità
di carattere del femminicidio.
L’amore non ha la mano brutale,
esso porta gaudio e non un pugnale.
Alessio Romanini
Sez A- Accetto il regolamento
IMMUNDUS “IMMONDO”
Mamma, Papà
perché mi avete gettato dentro il cassonetto?
Non sono immondizia. Sono il frutto che nasce dalla vostra unione; sono il seme dell’amore che nasce e cresce per portare nuovo gaudio.
Non sono spazzatura! Sono un dono; il dono della vita che continua sopra questa zolla.
Sono una nuova vita. Una persona. Un anima.
Anche io un dì avrò le mie passioni, i sogni da vivere.
Vorrei vedere il diafano mare ed ascoltare lo sciabordio in silenzio.
Vorrei sdraiarmi sopra un morbido tappeto virente d’erba, per osservare l’azzurro del cielo e le nomadi nuvole leggere, come zucchero filato, lente passare davanti il mio sguardo.
Vorrei toccare il gelo della neve e sentire com’è soffice, ed origliare muto il rumore flebile dei fiocchi quando scendono da grigie nubi.
Vorrei all’albeggiare udire i passeri cinguettare ed ascoltare i gabbiani in cerca di cibo gridare.
E tanto altro vorrei mirare…come avete fatto voi!
Mamma e Papà.
Perché mi gettate in questo afrore? Sento freddo e dolore nel mio piccolo cuore innocente. Non vi ho chiesto niente e sono arrivato; poi come un sacco nero mi avete gettato; ed avevo ancora il sangue e la placenta e il cordone ombelicale con cui tu, Mamma, mi hai nutrito. Perché mi avete gettato come un oggetto rotto?
Avrei voluto vedere i vostri occhi ed il vostro sorriso.
Avrei voluto imparare a fare i primi passi con voi…La prima parola sarebbe stata per te: “Mamma” e la seconda per te:“Papà”.
Perché vi siete sbarazzati di me come pattume?
Non sono un escremento uscito dal tuo corpo, Mamma, sono una parte di voi. Il mio sangue è il vostro. I tratti del mio corpo sono i vostri…Perché?
Adesso sono qui. Sento i gatti miagolare e questo fetore che penetra nel mio cuore. I ratti passano vicino alla cute ignuda.
1
Ho freddo! Vorrei quel calore che solo l’amore di una madre e di un padre possono donare, ed invece mi trovo vicino a questo bidone della mondezza, appena nato. Questa è la vita? O è la vita che avete pensato e scelto per me?
Non saprò mai queste risposte. Anonimo sarà per me questo momento. Ignaro sarà il mio cuore di adulto; adesso che ho il candore della vita sento il cordoglio di chi mi ha donato la vita e mi abbandona con odio.
Mamma, mi rivolgo a te che sei più frale; non ti giudico ma so che in te resterà il rimpianto e il rimorso per ciò che oggi hai fatto. Il tempo sarà il tuo giudice. Non saprai mai il mio nome.
Forse sei debole o non sei in grado di prenderti cura di me; non importa, ti capisco…ma per l’amore con cui mi hai custodito nel tuo grembo, culla della mia venuta; perché mi hai gettato nella sporcizia?
Potevi donarmi a qualcuno che mi avrebbe accudito.
Mamma non ti voglio giudicare; non sono io, con l’affetto che ho per te, colui che darà un giudizio!
Perché mi avete scaricato come un rifiuto?
Adesso vi saluto per sempre!
Qualcuno mi ha trovato, adesso comincerò a vivere quella vita che non ho chiesto ma che ho meritato.
Addio!
Vostro Figlio abbandonato
nei rifiuti.
2
Alessio Romanini
Sez.B- Accetto il regolamento
Accetto il regolamento sez. A
Radici
Sotto le radici
La Vita si espande
Radici pronte ad accogliere l’essenziale
Crescendo
Tra mille avversità
Radici tranciate
Radici negate
Radici sradicate
Radici pronte
A rinascere nutrendosi
Dalla forza per una nuova vita
Sotto le radici lombrichi
Perseveranti preparano la terra
Ilse Atzori
Sezione A, accetto il regolamento
Quelli come me
vagano furtivi rasenti i muri
delle fredde vie dell’abbandono
e hanno mani sporche
dell’immondizia della vita.
Quelli come me
hanno voci roche
che intonano ballate da osteria
e si ubriacano del caldo vino
dell’oblio.
Quelli come me
abitano fradici cartoni
nelle stazioni dell’indifferenza
e hanno occhi lucidi
dell’acqua dei fiumi
in cui lavano la loro vergogna
in silenzio
nascosti al resto del mondo.
Sono scherniti, offesi
e umiliati quelli come me
e subiscono il giudizio
che va oltre quello di Dio
e i loro lerci panni odorano
di anime rattoppate
col doppio filo della sofferenza.
Quelli come me
la santità se la sono guadagnata
in abbondanza
il loro inferno lo scontano vivendo.
LA CANTANTE
Giro la testa verso quella meraviglia distesa accanto a me. Di solito le mie donne lanciano gridolini, o urlano di piacere. O stanno zitte. Quella splendida figliola altro che gridolini: una storia intera mi aveva raccontato, con quella sua voce profonda e avvolgente che, ne sono sicuro, farà impazzire milioni di persone.
“Quindi, saresti una sirena…”
Mentre parlo, guardo il suo braccio sinistro arcuato come un promontorio sul blu oltremare del lenzuolo in tempesta, poi la schiena nuda color sabbia bagnata, i glutei, la coscia destra piegata sulle mie, liscia, morbida e calda come il resto del corpo…
“… Però hai le gambe. Mi spieghi l’arcano?”
Lei spalanca due abissali occhi neri, sussurra: “Oh, uomo, troppo perso nelle onde del mio amare e nel suono di questa voce, per fare attenzione alle mie parole! ” Poi abbassa le palpebre e comincia a raccontare.
“Era l’8 luglio del 97, a Berkeley Marina. L’uomo, Kary Mullis, stava parlando al telefono con qualcuno di genetica. Mia madre nuotava in quel mare, a poche decine di metri. Cantò:” Vieeenii!”, lui, soggiogato, la raggiunse, le parlò dei suoi studi…Lei scoprì come era semplice manipolare con la sola forza di volontà il DNA di chi portava in grembo, io. Quando fu il tempo, mi partorì vicino alla spiaggia di cala Pulcino, a Lampedusa, nel momento esatto in cui un barcone si spezzava sugli scogli; mi baciò i piedi, prima di allontanarsi per sempre. Me li baciò piangendo senza lacrime e mentre piangeva sussurrava: “Vai, cuore mio, vai per le terre degli uomini!” Pensarono, i soccorritori, che fossi figlia di una delle tante migranti annegate. Mi adottarono, senza immaginare cosa fossi: con gli uomini crebbi e le vie del mondo percorsi, ansiosa di vedere con i miei occhi ciò che dalle onde potevamo solo immaginare. Ma, scoprii, il mondo era arido e vuoto. Dove stavano tutte le meraviglie di cui si favoleggiava? Dove i draghi? E Pegaso, il cavallo alato, in quali cieli si nascondeva? E gli obbedienti e servizievoli robot positronici, in che città camminavano? Da quali finestre si ammiravano le notti dipinte da Van Gogh? Da millenni cantiamo ai poeti e ai bambini che guardano il mare: raccontateci il mondo! Davvero ci hanno sempre ingannate?”
Chiudo un attimo gli occhi, cerco di immaginare che razza di cose la tizia abbia fumato.
Non ci riesco.
Anche perché lei ha sta sfiorandomi la bocca e le sue mani sanno ancora dei frutti di mare in cui si era tuffata la sera prima, nonostante l’interminabile bagno che si era concessa prima di.
Si scosta, mi fissa.
“Ti vedo perplesso, uomo”, dice qualche istante dopo.
Perplesso? Mi viene da ridere…
“Bè, tesoro… le parole di mammina, le circostanze della tua nascita, quel tizio… “
“Kary Mullis?”
“Lui. Mi dici quando hai imparato tutte quelle cose, se sei stata abbandonata appena nata?”
Lei prende il mio indice destro, ne appoggia il polpastrello al suo addome, con una lenta spirale simile a un gorgo lo conduce al suo centro.
Lascio fare.
“Non solo questo mio ombelico” – sussurra – “o il colore degli occhi, o le labbra. Anche i ricordi ereditiamo, figlio dell’uomo. I miei arrivano fino all’era dei grandi ghiacci. In un certo senso, ho diciannovemila anni”
Se prima ero perplesso, ora ne sono sicuro: è totalmente fuori di testa.
“Se pensi che ti creda… “
Lei chiude gli occhi, sospira.
“… Ma il come fare, come utilizzare ciò che abbiamo ereditato, non sta nella nostra testa. È iscritto nel DNA delle reti neurali che si diramano nella coda. So tutto di genetica, figlio dell’uomo; ma non so come utilizzare le mie conoscenze. Non so come manipolare i geni di chi porterò nel mio ventre…per cui, se voglio che nasca umana d’aspetto, ho bisogno di seme umano”
“Azzo stai dicendo??”, le domando un po’ impaurito e parecchio imbufalito.
Lei non fa una piega…
“Ti ho assaggiato, prima: Il tuo DNA mi piace. Sì, penso davvero di usarlo”
Adesso sono completamente sveglio.
Non solo è fuori come una mina, la tizia.
È una pazza furiosa…
Mi infilò i boxer, scendo dal letto come una molla, e: “Ok, bella” – dico con calma furente – “Non so se a tutte le menate che hai raccontato ci credi davvero (e allora ne conosco uno bravo che ti può aiutare) o se qualcuno ti stia costruendo un personaggio addosso. Bene, se è così, svegliati. Sono il tuo agente, lo ricordi? Se tra qualche giorno calcherai il palco dell’Ariston, sarà perché l’avrò deciso io, chiaro? Sei mia, lo capisci, vero? Io decido il colore dei tuoi capelli e delle unghie, io cosa dirai quando ti intervisteranno E soprattutto, decido io se e quando metterti incinta, chiaro anche questo?”
“No, non sei tu che decidi”
Mentre dice quelle parole anche lei si alza e cammina verso di me, mentre la luce che filtra dalle tapparelle gioca con il suo corpo nudo come fanno i raggi del sole con l’acqua
E io, non so perché, arretro. Arretro con le gambe che cedono, fino alla porta finestra della suite. Contro la mia schiena nuda, percosso dal vento gelido che viene dal mare, il vetro è freddo e umido.
Freddo e umido come uno scoglio.
Lei mi raggiunge, mi solleva…
“Prenderò il tuo seme, figlio degli uomini. E intanto canterò, canterò davvero, e sarai mio. Come lo saranno tutti quelli che mi ascolteranno, al prossimo festival. E poi crescerà, mia figlia, pure lei canterà e sarete anche suoi. È la mia vedetta, la nostra vendetta, per averci sempre ingannate…”
Mentre parla mi slaccia i boxer, mi sfila il condom e incolla il bacino al mio.
Poi, inizia a muoversi come un’onda e a cantare.
E io divento fiume, e nel mare mi perdo.
Sezione B, accetto il regolamento
E giunse finalmente il compleanno della lettera Z. Z era felicissima, non aveva tante occasioni per mettersi in mostra, il compleanno era una bella data per indossare un vestito nuovo, organizzare una grande festa e trascorrere una lieta serata con tanti amici. Cercò di organizzare tutto per benino, spedendo gli inviti notevolmente in anticipo e invitando persino le colleghe lettere d’oltre mare, come l’alfa, la beta, la iota. Arrivò la sera dei festeggiamenti, Z molto agitata aprì la sua casa. Intervennero tutte le sue amiche, ma all’orizzonte non spuntava la lettera A. Che strano, si chiedevano tutti, sarà mica influenzata? Comunque la serata iniziò, tra vari cocktail e spizzicherie tutte da gustare, ma nel più bello della serata, mentre si cominciavano ad aprire le danze, si spalancò la porta e comparve A tutta trafelata ed agitata. Nervosissima iniziò ad inveire contro la padrona di casa, accusandola di non averla invitata perché gelosa di lei. Z mortificata, si difese dicendo che mai avrebbe fatto alla regina delle vocali un torto simile, ma A non le credette e decise seduta stante di entrare in sciopero e di partire per una meritata vacanza. A nulla valsero le suppliche delle colleghe, a nulla servì implorarla di non abbandonare il suo lavoro così importante. Aveva deciso di prendersi una vacanza e se ne andò tutta impettita. Tutte le lettere si guardarono con sgomento, non sapendo bene come gestire questa situazione critica. Naturalmente la festa si spense e decisero di riunirsi in Gran Consiglio per decidere il da farsi: si doveva pur sostituire la lettera A, non si poteva lasciare il mondo senza questa vocale così importante. Intervenne la W, dicendo di essere poco impegnata nel vocabolario italiano ed offrendosi di sostituire la A sino a che non le fosse passata la stizza. Le altre lettere, un po’ titubanti, si dissero d’accordo poiché non c’era alternativa migliore. E così la W cominciò a lavorare per sostituire la A. Che macello! Nessuno riusciva a comunicare e a farsi comprendere, comprare un alimento semplice come il pane era diventato una gimcana tremenda di torsioni di bocca e vocalizii strani. Qualche folle inventore si ingegnò a mettere a punto un congegno che traducesse simultaneamente le parole contenenti la W sostituendole con la A, ma il congegno non funzionava perché la A era sparita completamente e il software del congegno non la riusciva a trovare. Vennero tempi duri per la comunicazione, sembravano tutti impazziti e balbettavano parole senza senso. Le lettere si riunirono nuovamente in Gran Consiglio e decisero di ingaggiare un investigatore privato per rintracciare la A. L’investigatore per prima cosa si recò a casa della A per cercare qualche indizio. Nella cassetta postale trovò l’invito – giunto notevolmente in ritardo – per la festa di Z ed dentro casa trovò un appunto indicante un Albergo di Manila. Rintracciò subito la A che, ancora arrabbiata, non voleva nemmeno rispondere al telefono; allora decise di mandare un fax dell’invito giunto in ritardo in modo che A lo leggesse e si rendesse conto del disguido postale. Così A tornò al suo lavoro di sempre, chiedendo scusa a tutti per la sua testardaggine. Era bellissima ed abbronzatissima, in forma più che mai e si dava arie da gran diva. Il Gran Consiglio ringraziò W per la buona volontà mostrata; finalmente tutto tornò come prima, o quasi, perché A, con la sua tintarella, provocava una lieve allergia sulle labbra di chi la pronunciava.
sez. B accetto il regolamento
MILLANTATO CREDITO
E sì che pensavamo
di esser invincibili
nella gaiezza
di un’età spensierata
del tempo che fu.
E sì che pensavamo
di poter toccare
la punta del cielo
con la forza del pensiero
Abbiamo conquistato il mondo?
Abbiamo toccato la punta del cielo?
Ricordi confusi di fortezze espugnate
affollano la fantasia del presente
con la netta convinzione
di un millantato credito
sez. A accetto il regolamento
FROTTAGE
Scende dall’iride bianca della luna
una stella, sospesa lacrima piovana.
Scuote nel vento lame di metallo,
i tegolati di bucce d’arancia
di geometrili caseggiati,
di cinte ruote panoramiche
appese ad aghi di ginepri.
Ha perduto – malchiusa vena –
fuggendo nella notte
molecole di ponti
tra sfumi di turchesi,
sull’orecchino di perla
ciprigne si sporge
nell’orto dei vetrai.
Sez. A – ACCETTO IL REGOLAMENTO
Thea sono felice di leggerti, mi sembri meno barocca e più essenziale.
Ti ringrazio Marco!!
Fede e giustizia
(dedicata al Beato Rosario Livatino)
Ho creduto in un Dio
che non si vede ma si sente
nei giorni della tempesta
quando ciascuno si ripara
a chiedere perdono dei propri peccati.
Ho creduto nella giustizia
quando il giudice agisce
in nome di quel popolo
ferito da quella delittuosità
di chi dei precetti se ne frega.
Io agisco per la legge
con accanto quel Dio che mi protegge,
non accetto chi fa del male
a quelle vittime innocenti
succubi di abusi,
di ignobili soprusi
non accetto chi approfitta del debole
e del crimine fa una maestria,
non accetto l’ipocrisia
di chi di parla d’amore
ma poi semina il terrore.
Amo chi combatte per la pace,
per il rispetto della gente
credo nella vita che non mente
e come un fiume scorre
quieto alla sua meta
limpido e onesto nel suo tragitto
ma con un gran senso di libertà.
Sezione A : Accetto il regolamento
Alessio Asuni
L’infinito è qui
L’infinito è qui, racchiuso in questo bianco
foglio, nel quale follemente sovente mi rifugio
per trovar la pace quando sono triste e stanco,
rilassato in esso, mi abbandono senza indugio.
L’infinito è qui tra parole, strofe, versi e rime
che elegantemente si dispongono leggiadre,
le ultime si legano armoniose con le prime
ed in questo spazio non esistono clessidre.
L’infinito è qui, nel silenzio delle pagine.
Avvolgono dolcissime e ossequiano conforto,
l’anima si libera e svanisce ogni margine
ed è proprio qui che la mia nave trova il porto.
Sezione A.
Accetto il regolamento
Manuela Orrù
Perché stanco e non stanca?
Innanzitutto per far rima con stanco e rispettare la metrica scelta. Secondariamente perché penso che, nella mia poesia ci si possa specchiare e ritrovare qualunque poeta, sia egli il poeta o ella o la poetessa.
:)
– DAI MIEI RACCONTI DI CAMELOT –
G: “È primavera!
Sveglia, sveglia mio caro Artù.. guarda oltre la finestra!
Stanno per spuntare i primi fiori di Camelot..”
“Ho atteso da così tanto tempo questo momento..
Sono così lieta e felice!”
A: “Mia signora, le prometto che appena avrò indossato la mia armatura e il mio inseparabile mantello rosso guarderò la fuori insieme a voi per ammirare i primi boccioli in fiore!”
“Sapete.. la vostra unica ed ineguagliabile bellezza è tale come quei fiori di cui tanto amate e di cui tanto parlate..”
G: “Oh, mio Re, i vostri complimenti lusingano il mio cuore e allietano la mia giornata..”
Nel frattempo dalle stanze della Regina e Del Re si sente udire un rumore di passi..
* Qualcuno apre la porta *
Ancella:
“Mia signora, è permesso?
G: Certo, mia cara può entrare con il mio permesso e con il permesso del Re.
A: Grazie, vostra Maestà..
Oggi l’aria di Camelot risplende di una luce folgorante e maestosa.. e lei la vedo sempre più radiosa, mia Regina..”
“Posso sapere.. è successo qualcosa di particolare?”
G: “Oh, cara.. si, oggi è il primo giorno di Primavera qui a Camelot.. e mi sento più viva che mai..”
“Il profumo dei fiori inebria il mio cuore.. e risveglia il sentimento d’amore che provo per mio marito”.
Ancella:
“Mia Regina, lo vedo dai vostri occhi l’amore che provate per sua Maestà, il Re..”
“Ora lasciate che vi aiuti a vestirvi.. d’altronde è un giorno importante per Voi”.
G: Sì, molto importante!
La Regina uscì frettolosamente dalla stanza della sua ancella, che la salutò augurandole di passare una magnifica giornata, e tra i numerosi saluti dei cavalieri e delle sue dame si diresse verso l’ingresso del Castello per raggiungere il verde prato dei boschi che circondava la maestosa e bianca fortezza di Camelot.
Ginevra era così felice.. si sentiva totalmente immersa tra le mille sfumature di colore dei tanti fiori che sbocciavano dai prati verdi della sua amata Camelot, che pensò di prenderne uno da aggiungere alla sua delicata e graziosa coroncina che le cingeva la testa.
G: Eccoti! Sei proprio tu il fiore che voglio!
Decise allora di coglierne uno, il più bello fra tutti quelli che aveva intravisto..
Era bianco, di un bianco candido come la neve.. bianco come la sua pelle d’inverno, e come la sua innata grazia e purezza che traspariva dal suo volto.
Ginevra era estasiata; in quel fiore aveva riconosciuto se stessa.. ed aveva ricordato i bei momenti della sua infanzia, trascorsa a correre leggera e spensierata nelle terre di Lyonesse, dove crebbe con il suo padre adottivo..
Tutto le sembrava perfetto.
L’aria che si respirava in quel tratto di bosco sembrava perfetta, sino a quando, con un balzo deciso si alzò da terra, e corse per il bosco a passo accellerato.
Ginevra aveva udito dei rumori provenire dall’ingresso del bosco.. e decise così di trovare protezione dietro ad un grande albero di quercia.
Con voce lieve e tremolante sussurrò..
G: Chi va là?
Nessuno rispose.. se non il vento che cominciò ad ululare ed un corvo nero che si posò tra i rami del grande albero..
G: “Morgana?..”
Pensò tra sé e sè..
G: “Chi potrebbe essere se non lei?”
Il corvo la guardò furtivamente ed emise uno strano gracchiare.. e non appena Ginevra cercò il suo sguardo, il rapace sbattè le sue ali e si allontanò dallo sguardo preoccupato della Regina.. assorta nei suoi numerosi pensieri..
Chi era quel corvo?
Era Morgana..?
2024 – Copyright
Tutti i testi sono di Jessica Ginevra Russano
Sezione B. ACCETTO IL REGOLAMENTO
– TÍR NA NÓG – IL PARADISO CELTICO –
*OISIN*
Mia amata Niamh dai capelli d’oro,
Portami nella terra dell’eterna giovinezza,
Dove l’aria si fa sempre più viva, di una estrema leggerezza,
E dove tu risplendi di una rara ed affascinante bellezza,
Dove il sole splende alto, dorato,
Oh mia amata Niamh, portami in questo luogo, nel tuo regno incantato.
Tír na Nóg, Tír na Nóg, Tír na Nóg!
Io sono Oisin, cacciatore dei Fianna, prendimi con te, e portami in questa splendida landa,
In groppa al tuo cavallo Embarr, dallo splendido manto, conducimi in questo regno color oro-cristallo.
*NIAMH*
Mio amato Oisin, se qua vuoi venire, prendi la mia mano, e vieni con me, poiché ora sei pronto a gioire.
Mio dolce guerriero dal nobile cuore, mi hai concesso il tuo amore ed è per questo che ora sono innamorata del tuo cuore..
E non c’è un solo giorno in cui io non penso al tuo tanto ardore..
Sei pronto con me a partire?
Tír na Nóg vuole farsi da te scoprire..
Tír na Nóg! Tír na Nóg! Tír na Nóg!
Mio padre Manannan Mac Lir è desideroso di benedire.. il nostro legame che mai potrà finire.
Mio amato Oisin, sei il benvenuto in questa Terra, in cui tutto risplende di una luce eterna.
Resta con me, non mi lasciare, mio dolce Re vuoi diventare?
Ti ho sempre amato, e da Tír Na Nóg non ti ho mai più lasciato..
Ed adesso che scrivo queste parole ho compreso che il nostro amore mai si è spezzato..
2023 – Copyright Jessica Ginevra Russano
SEZIONE A. – ACCETTO IL REGOLAMENTO
LA VERITÀ CELATA
Mi svegliò Bicalìnna quella mattina. Così papà aveva battezzato il picchio che ogni mattina si aggrappava con i suoi affilati artigli al nostro albero di ciliegio e picchiava ritmico, affilandosi il becco e rimarcando il possesso del territorio.
Si erano proprio trovati, papà e mamma, due persone meravigliose.
Una meravigliosa storia d’amore arrivata casualmente in età avanzata.
Era il 1973 avevano quarant’anni, si incontrarono sul posto di lavoro e fu un colpo di fulmine. Mamma era addetta alle pulizie dell’azienda, papà invece, era stato da poco assunto come magazziniere; prima di allora era stato ventuno anni all’estero. Dopo un anno erano già marito e moglie, dopo due, nacqui io.
Quel giorno ero lì, sola, in quella modesta abitazione che non mi apparteneva più. Lavorarono sodo i miei per pagarmi gli studi universitari a Milano luogo nel quale io, vi avevo propagginato le mie giovani radici.
Troppi ricordi in quella casa, quelli dolorosi sovrastavano quelli meravigliosi, benché i primi fossero di numero notevolmente inferiore. Mamma si era ammalata e vi aveva patito le pene dell’inferno nella nostra umile dimora e papà come lei.
In alcune stanze sentivo ancora echeggiare i loro dolorosi gemiti, così, decisi di venderla.
Gli acquirenti erano una giovane coppia, le persone perfette per quel gioiellino che i miei avevano costruito con sudore e amore.
Quando Bicalìnna smise di picchiare mi alzai, feci colazione e iniziai a riempire gli scatoloni costantemente con le lacrime agli occhi ed una voragine nella bocca dello stomaco.
Prima di pranzo uscii fuori e staccai la delicata targhetta dipinta a mano, affissa accanto alla cassetta della posta, che ci identificava: “Fam. Lampis-Anedda”. Fu in quel momento che mi resi conto che non avevo considerato di controllare ed eventualmente svuotare la soffitta.
Nel corridoio, tra la mia e la camera dei miei, c’era la botola sul soffitto, dalla quale, grazie ad un lungo bastone che aveva ad una estremità un uncino di metallo, veniva giù la scala retrattile per raggiungere il sottotetto.
Non ricordavo da quanti anni non vi salivo, in realtà ci saliva solo papà; giusto qualche volta mi ci fece affacciare per soddisfare la mia curiosità di bambina.
Agganciai l’uncino alla maniglia e tirai con forza. La botola si aprì e, assieme alla scala, venne giù un po’ di polvere. Stabilizzai la scala e salii piano mentre una strana angoscia si appropriava indebitamente e totalmente della mia persona.
I miei occhi si affacciarono timidi oltre i confini del solaio e l’idea di un luogo buio presto svanì. Due lucernari antistanti tra loro, illuminavano la soffitta con fasci di luce intensa e abbagliante se scrutata dal verso sbagliato; non ci fu bisogno di accendere la luce artificiale. Quella calda luce solare mi infuse coraggio quindi accelerai il passo aggrappandomi al passamano così, con un balzo, mi ritrovai in soffitta.
Era tutto in ordine. Le vecchie brande e i vecchi materassi accuratamente avvolti nel cellophane erano poggiati al muro. Alcuni scatoloni con i miei quaderni delle elementari stavano accanto ai miei giochi conservati in contenitori di plastica con coperchio. L’armadio della nonna si conservava in ottimo stato e conteneva i vestiti di carnevale, numerati e catalogati come fossero i costumi di un prestigioso teatro. Sorrisi compiaciuta per la precisione unica di mia madre.
Di rimpetto all’armadio, una base antica, della quale non avevo ricordo attirò la mia attenzione, mi avvicinai ad essa e la aprii.
Era piena di scartoffie, tutta roba da buttare, ricevute di bollette pagate quarant’anni prima.
Feci per chiudere il coperchio e mi bloccai. Il mio sguardo si focalizzò su di uno strano involucro, lo afferrai. Un lenzuolo rosa avvolgeva perfettamente qualcosa, iniziai a srotolare, finché non mi trovai ad avere in mano dal lato rovescio, un fascicolo di colore verde sbiadito. Lo girai incuriosita.
La dicitura scritta in lettere quasi cubitali, fece sussultare il mio cuore, così l’angoscia prevalse nuovamente.
Al centro in alto: “STUDIO LEGALE DOA-CIANCIOTTO”.
Subito sotto, con carattere più piccolo: “Causa omicidio Susanna P.”.
Mi dovetti sedere, non capivo perché quel fascicolo fosse lì, in casa nostra, così ben nascosto e conservato. Forse papà l’aveva trovato per strada, forse i miei l’avevano custodito per qualcuno ed era li da tanto tempo che ormai nessuno l’avrebbe più cercato né reclamato.
Decisi di aprirlo per leggerne il contenuto. La testata della prima pagina mi lasciò senza fiato e bloccò completamente la mia salivazione, quasi non riuscivo a deglutire.
“ISTANZA DI SCARCERAZIONE PER BUONA CONDOTTA DEL SIG. FRANCO LAMPIS”.
Avvertii la necessità di sdraiarmi, mi sentivo mancare. Aspettai cinque minuti o forse più, adagiata su quel pavimento impolverato dal tempo trascorso. Appena mi sembrò di stare meglio mi alzai piano, presi con me la cartella e scesi giù in cucina.
Posai il fascicolo sul tavolo, mi lavai il viso, sorseggiai lentamente un bicchiere di acqua zuccherata, mi sedetti.
Non mi capacitavo di ciò che stavo leggendo. Pensai di aver perso l’intelletto e la cognizione. Decisi di fermarmi un minuto e di respirare profondamente, infine mi feci coraggio, iniziai a leggere e mi fermai solamente dopo aver letto l’ultima parola.
Piansi e mi svuotai completamente.
Quel fascicolo accuratamente nascosto, quel forziere di carta, mi svelò un segreto custodito per cinquant’anni.
Mi raccontò di mio padre della sua triste disavventura con la giustizia. Mi raccontò di un ragazzo ingenuo e buono che, udite le richieste d’aiuto di una donna in fin di vita, fu accusato ingiustamente di omicidio poiché, per cercare di salvarle la vita, non si curò di non lasciare impronte ovunque.
Mio padre, a soli diciannove anni, pagò irragionevolmente per ventuno, con la sua libertà.
Capii solo allora perché non mi raccontò mai del suo soggiorno all’estero.
Non fu un viaggio di lavoro o di piacere, ma di sommo dolore, profondo silenzio e placida rassegnazione.
Addolorata, strinsi forte a me il fascicolo, chiusi gli occhi. Parlò solo il profondo silenzio del mio mesto cuore, mi feci scrigno del doloroso segreto della mia famiglia e, in quell’istante, fu come dare l’ultimo caldo abbraccio a mio padre.
Manuela Orrù
SEZIONE B
ACCETTO IL REGOLAMENTO
Acciderbolina! Vicenda reale? (se non vuole rispondere la capisco)
Reale in parte, non vissuta da me. Spero le sia piaciuta.
Mi ha colpito quella soffitta inondata di luce, immagine inconsueta in un racconto. Rende ancora più imprevisto l’emergere di un fatto così doloroso nella storia familiare, e allo stesso tempo anticipa la positività ultima di tutto.
Un appunto scherzoso: quando ho letto “… così decisi di venderla” ho pensato si riferisse alla… madre!
Grazie per i commenti positivi e grazie per l’appunto scherzoso, mi ha regalato un sorriso!
:)
Alban Alessandro Alexandr, accetto il regolamento.
Sezione A
Titolo: Promesse
I non-detti volati
Via come la cenere
Di sigarette accese
E occhi profondi
Che sembrano non
Chiudersi mai
Un bacio che
Pugnala
Mi è piaciuta molto nella sua evocatività.
Anche la suddivusione dei versi, nella sua (apparente?) casualità mi sembra degna di nota. L’ho salvata in memoria.
Accetto il Regolamento, sez. A
SIAMO TUTTI POETI
Siam tutti poeti, non lo sappiamo
finché un bel fremito ci prende per mano.
In molti mi dicono: “Perché sprechi tempo
a scriver parole! È cosa futile, senza valore!”.
Altri mi guardano con aria smarrita
se parlo di Sogni, di versi, di vita.
Un giorno un signore con aria arrogante
mi disse: “Poeta non servi, le ricchezze son altre!
Non servono i tuoi versi, son solo utopie,
il mondo non cambia, non dire eresie!
Rassegnati e inchinati al Dio denaro,
è l’arrivismo che porta lontano.
Gli amori che canti i fremiti, il mare,
son chiacchier scontate, lasciale andare.
Svegliati illuso, straccione, poeta,
posa la penna, cambia la meta!”
Dopo che accolsi con pena nel cuore
il vuoto e l’amaro di quelle parole,
io gli sorrisi e con gentilezza
e lo ringraziai per tanta saggezza:
“Mio caro amico sai che ti dico?
Adula sempre il tuo amato denaro
illuditi pure che porti lontano.
Puoi esser ricco,
pieno di donne, di case e profitto,
però è tanto triste vedere e notare
il tuo povero cuore affannarsi ad amare.
Non vibra, non trema, non prova emozione,
sei più povero tu di un vecchio barbone!
Puoi comprar tutto, l’oro, la seta,
ma non la bellezza dell’esser Poeta.
Affannati pure col tuo guadagnare,
a noi poeti basta il Sognare!
Adesso ti lascio al tuo Dio padrone
io vado a godermi il mio raggio di sole.
Ricordati amico esiston le albe, il mare,
i tramonti, tienilo a mente mentre fai i conti!
La vita ti aspetta con la sua essenza
non farti uccidere dall’apparenza!
Accetto il regolamento sezione A.
Alessia Colantoni
PICCOLA ANIMA
Eccoti,
Ti vedo.
Piccola anima,
Intrappolata nel tuo guscio,
Nel dolore e nella tristezza.
Piccola anima in cammino,
Con le braccia strette al petto,
Forti come le catene che ti porti appresso.
Piccolo fiore,
Non indugiare,
Cammina, corri, lascia aprire le tue ali.
Di tutte le urla e le grida silenziose,
Non farti più carico.
Lascia al mare tutti i sassi,
Cogli solo le conchiglie che fanno il rumore del vento.
Lasciati accarezzare dall’aria profumata,
Lasciati trasportare dalla brezza e
Dal profumo di fiori.
Fiori,
Piccoli, colorati, inebrianti,
Come il tuo essere fanciulla,
Pura e bianca,
Come il giglio che sboccia in primavera.
Anima bella,
Sciogli i tuoi capelli,
Liberali al vento,
Fatti baciare dal sole coi suoi raggi tiepidi.
Salta,
Balla,
Canta,
Rotolati sull’erba fresca del mattino,
In questo nuovo giorno,
Piccola anima incantata,
Dagli occhi verde smeraldo.
Sezione A,
Accetto incondizionatamente il presente regolamento e autorizzo al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016)
The End
Spigoli di rocce
spiragli di cielo
spremute di neve
riccioli di vento
attorcigliati
sogni schiantati
di velluto
barattati
con gocce
moribonde
di rugiada
…poi la nebbia
avvolge tutto
il cuore accelera
cerca sollievo
Corre corre corre
Ha scordato tutto
Quel viso
amorevole
di mamma
This is
The End
Accetto regolamento -Sez.A-Poesia inedita
ARRIVERA’ IL VENTO
Arriverà il vento
chissà da dove
e spargerà foglie tristi d’ombra
pioggia fitta e folate
se ne andranno le spoglie della lunga estate
e se ne andranno tutti
e noi
dalle case autunnali
le luci accese nel vuoto notturno
a leggere i segni delle ombre
sul muro di fronte
anche se
il destino appariva già
dentro a una stella
Complimenti. Una bella composizione lirica.
Accetto il Regolamento, sez. A
Armando Cappa
SAN VALENTINO
Sulla riva deserta
respiro il profumo
del mare,
e lo sguardo si perde,
laggiù,
all’orizzonte.
Il sole,
al tramonto,
inonda il cielo
con le sue tinte scarlatte,
e le ombre son lunghe
sulla sabbia dorata.
Guardo verso te,
e i tuoi neri capelli
fan da cornice
al lume dei tuoi occhi smeraldo.
Le tue mani aggraziate
mi ricordano
angeliche figure,
antiche fate,
perdute sirene
nell’oceano dei pensieri.
Viene la sera,
e sulla bianca scogliera
il mare si placa,
ritorna la quiete.
Ancora una volta
ti sono vicino
e t’offro una rosa,
un fiore vermiglio,
per San Valentino.
NON SO DARE NOMI
Non so dare nomi
alle cose del passato
a chi mi ha accompagnata.
Non so dare più nomi
consistenza
Per il Nuovo
hanno
abbandonato l’Antico
Tutti vogliono cambiare
Io invece vorrei
restare salvare impreziosire
Non esiste Teodicea
Non esiste rispetto.
Per me solo
delusione disillusione e atroce ferimento
da chi diceva volere la mia felicità.
Strano, no?
Filomena Gagliardi
Opera inedita, sez. A
Accetto il regolamento
Accetto il regolamento . sez A
PENSANDO A TE, PAPà
Un frastuono nella testa
Un ricordo che si affaccia
Una mancanza miete
Nel mio cuore e
Si dilata.
Poterti dire che t’amo
Ancora
E sorvolare il cielo
Nel tuo dolce abbraccio
Lontana per una sola volta
Da tutto questo affanno.
E poi planare giù
Fino a sentire il mare
Lambire i sensi accesi
E ritrovarmi di nuovo bambina
Tra le tue braccia
Che mi tengono
E la tua voce che promette
Che resterai con me per sempre.
Accetto il Regolamento Sezione A Poesia Inedita: Undicesima mattina
Spiriti evanescenti
dai colori stellari
come naufraghi seduti e innovatori
dei mari nei piu’ celesti ascensori
piangete ancora la vostra patria
che d’oro velato
si inebria sulla medesima strada.
Urlate il sangue
che vi hanno buttato sul costato,
le conchiglie sono vostre figlie
i catecumeni e i bambini non nati
vogliono pace anche se l’anima tace.
Davanti a Dio ci sono anch’io
ad aspettar l’oceano
che si mostra al cospetto di un amore rivelatore.
Vieni e suona l’ultima nota divina
all’angolo della cucina
tra le ultime tenebre
quasi all’alba dell’undicesima mattina.
“Miraggio”
La riva del fiume brillava com’un quadro senza nome,
Tra minuscole gocce di rugiada poggiate sui denti di leone
E su’n riflesso rosso_e rancione stinto sul pelo dell’acqua
Ancor assopita nel tremore d’una notte non pronta all’alba.
La solita, forse più fredda, brezza appiccava ‘lle gote_un incendio
E un ragazzo e una ragazza, seduti, avvolti dal silenzio,
Nel sentore d’erba e_arancio, si godean la carezza
D’un respiro_umido e stanco che pe’ i campi si strozza.
Marie vestia come sempre quelle maniche lunghe_a lei care,
Con righe per longo bianche; l’abito ‘n preziose lane
Cadea sgraziato ‘ltre ventre ov’ì suo’ calzoni bacian le gambe
Incrociate sull’onnipresente smorfia di chi amava l’estate.
Pierre staccava per pigrizia, una maglia forse ‘n tempo nera
Bracciata d’una grigia camicia senza bottoni o cerniera
E sulle gambe un cotone da sera stropicciato tra le trame vinaccia
E rotolato ‘n qualche maniera mezzo dito sopra la caviglia.
I due fissavan l’onde, minute, concentriche, effimere
Delle bestiole che dalle fronde planavan sull’acque libere,
Colle frasi ‘ncor da decidere, papiri sfiniti di domande,
Tutto ‘ncora chiuso_a stridere nella testa spenta_e sognante.
Marie l’avvicinò la mano a la del ragazzo, or distratto,
Voltandosi elegante, piano, verso quell’occhi color asfalto.
Lui la sfiorò con lo sguardo, bozzando ‘n sorriso amaro
Accompagnato ‘n ritardo dal ciglio arcato di sarcasmo.
Pierre, nell’istante, si perse nei pallidi riflessi del fiume
Ove giurò che nel nulla apparse il veder di que’ giorni, fatto di luce:
La ragazza sedea come le muse a legger con far inerte
Qualche saggio d’amor e brame s’una panchina sotto le querce;
Fu lì ed allora che, fegato avanti, pierre le si compose, infine,
Calmando suo’ arti ardenti nei mantra d’le sere prime.
S’incrociavan le mattine, i meriggi e le notti, tra le genti
In biblioteca, ‘n classe, ‘n un cortile di conoscenti, ‘n feste di studenti.
Cambiar giro, passare lontano solo per tremolar nello sperato
Rubarsi ‘n cenno colla mano o quel mezzo ghigno cennato.
Pierre, quel viso delicato, non lo rimuovea dal pensare:
Que’ mondi, d’inchiostro bracciato, quell’occhi che sapean parlare.
Gl’era come se il resto, s’il tutto, aldilà d’una figura perfetta,
Paresse sfuocato e brutto, poi la tenaglia allo stomaco, stretta.
I soliti convenevoli, l’anno distrutto, scuola, sfide, altri cliché,
Questioni d’età ‘n spontaneo duetto sull’educazione, Sartre e Voltaire.
Si videro ‘n crespucolo sfacciato, lontano da rigori, a discorrer e bere,
Poggiati al contorno annoiato della monotonia del quartiere.
Marie si perdea ‘n quel pensare sì, ch’è grazioso, arguto, interessato,
Non certo fisico per lottare mentre lui stava_a busto stirato:
Quel palmo, forse, più alto, l’acconciatura da cuscino,
Un sospiro di barba ‘n volto e’l riflesso pallido del corpicino
Che stonavan col guardo fino d’ammirazione_intriso, null’altro;
Forse fu addirittura cattivo, pensò, giocar collui sì tanto.
Marie confondea colle cicale ‘l sorriso che li regalava,
Tentennando sullo strale che dal torace ad’el pendeva.
Che poi, che poi lo sapeva, Pierre che prenderla tale
Guerra sì_impari pareva, rassegnato ‘l suo sognare.
Sì attenta, svelta e delicata si ponea la fanciulla francese
Alla corte più che spudorata dei gastoni del paese
Eppur, sin vaghe pretese, l’assaporò a lui vicinata,
Una sera come mille sere; forse distrazione agognata?
Quell’effusioni a un repiro ove pronta ella scappava,
Le dialettiche, mezzo sospiro ov’anche la speranza giaceva.
Ma sul fiume, or, il reale tagliava com’un bisturi al cuor persino
Mentre, un pelo troppo brava, sciorinava ‘llor destino.
Schietta e diretta ‘n favella, Pierre le dedicava ‘l tormento
Co’ smorfie di labbra e spalla, col discorso che tenea didentro
Ché fu un niente di tanto, digressione che scavalla
Q’la stessa monotonia d’incanto, sol raffinata storiella,
Sol palcatura di desideri ch’adornava ‘l castello a metà
De’ meravigliosi pensieri ch’ora odiava più che mai.
E allora cosa non va? Ricominciar lo ieri,
Ricominciar ‘l viavai dell’esser solo stranieri?
Si rimisero le scarpe a’ piedi ‘ntorno all’erba soffocata
In due_effimeri crateri; una mattina ormai passata.
Pierre trovò allungata giro suo’ fianchi austeri
La mano della spasimata con addosso suo’_occhi neri;
Lo baciò ‘n punta di piedi sulla gota arrossata,
Sol uno di que’ baci seri, un bacio da sconosciuta.
Il ragazzo stette_impassibile sguainando una spada
Contro ‘l cor instabile, or torrente feroce di lava.
Testa ed occhi ‘n luoghi diversi, s’allontanarono ‘ncora
E Pierre, a pensier spenti decidea la prossima ora:
Smarrirsi nell’aurora dell’avvenimenti persi
O riveder, a scuola, que’ due mondi di-versi;
Dalla tasca, come svogliato, estrasse un foglio bianco
Troppe volte ripiegato, ironico, per lui sì franto;
Ricordò giust’in tempo la sostanza dello stampato
E ora ‘l cestino e ‘l disincanto quell’amor tenean bracciato.
***
Marco Delrio, sez. A – accetto il regolamento
IO, BENE COMUNE
Da non crederci,
eppure a ben pensarci
non lo siamo davvero noi,
io e tu e gli altri
un bene comune?
Come la terra
ch’è di tutti,
come il mare e i monti,
anch’io, di diritti pieno
ma bene comune per gli altri, sono.
Come e quando? mi chiedi.
Guardami, vieni con me.
Vado a donare il sangue,
dò qualcosa di me
e sono prezioso,
utile, necessario in quel momento.
Insieme doniamo il sangue
come tasselli di mosaico
cristalli luminosi di vita
per la vita di tutti.
sez. A accetto il regolamento
Accetto il Regolamento, sez. A poesia inedita
CINZIA PANUCCIO
LO CHIAMANO AMORE
È una entrata chiusa
porta il ghigno di chi è delusa
lividi in corpo e un coltello al cuore
ma con orgoglio lo chiamano amore.
Il tuo dolore puzza di morte
ma poco importa è un adulatore.
I graffi gli spintoni i pugni non li senti più
ti ritrovi a terra mentre con forza i tuoi capelli afferra.
Te lo meriti
lui grida a squarciagola
mentre cerca di cambiarti, dice, si innamora.
Diventi ad un tratto la sua bestiola
senza dignità alcuna la sua carriola,
lo servi lo accudisci lo accontenti
in fondo meglio che aver rotto tutti i denti.
Questa volta mi è andata bene
non l’ho denunciato
in fondo si era solo un po’ arrabbiato.
Solo quando ti sei trovata in ospedale
esanime sul lettino dell’obitorio
hai capito… era un’animale.
Troppo tardi non ce l’hai fatta
ti aveva colpito con una mazza.
Ma lui dal carcere non piange non si dispera,
non eri mica prigioniera
trattata come una regina sulla scacchiera.
Il silenzio è ormai assordante
si trattava solo di innocuo amante
quello solo delle belle parole
ed ancora lo chiamano amore.
Brutta copia come epilogo
In un momento di forte ispirazione, scrisse di getto una poesia sublime, sul retro di un foglio usato.
In giorno dopo, breve periodo di decantazione, rilesse i versi e copiò la poesia in un quaderno con la copertina gialla decorata con tanti fiorellini colorati.
Soddisfatto, anzi felice, appallottolò il foglio della brutta copia, e lo buttò nel bidone della dif-ferenziata.
Il venerdì gli operatori ecologici svuotarono il bidone e, ben presto, il foglio appallottolato ar-rivò all’impianto di selezione e trasformazione, e insieme a altri fogli di carta e cartoni, venne ripulito, ridotto in piccoli pezzi e poi in poltiglia. Una volta essiccata, il foglio divenne carta riciclata.
Tutto il lotto, venne acquistato da una nota ditta che fabbricava quaderni di ogni dimensione, block notes, blocchi da disegno e stampava libri e riviste.
Al controllo, il primo quaderno, un formato medio, risultò già scritto a penna e non c’era una pagina che fosse rimasta vuota. In tutte le pagine, dalla prima all’ultima, c’era scritto qualcosa che sembrava una poesia.
Il controllore, perplesso, controllò un altro quaderno medio e quella scrittura fragile era su tut-te le pagine. Controllò un quaderno grande, poi altri due piccoli, quattro o cinque block notes, una ventina di blocchi da disegno, poi passò ai libri e alle riviste, anche se quello non era il suo settore.
Ovunque trovò scritta a penna, inchiostro nero, quella cosa che sembrava una poesia. Non c’era nient’altro, nemmeno nei libri e nelle riviste.
Chiamò tutti gli altri controllori e si misero a controllare tutto e il controllo, ancora oggi, con-tinua all’infinito.
Alfredo Bruni – sez. B – Accetto il regolamento
Giovanni Ferrari sezione B accetto il regolamento
LABBRA
Se mi vedessi da fuori, la scena assomiglierebbe ad uno di quei film in slow motion, dove le immagini sono accompagnate da una musica ridondante in cui gli echi si sprecano e la lentezza accompagna i fotogrammi.
Sono momenti in cui io mi perdo, in un mondo differente, assorto nei miei pensieri. Fin da bambino ho osservato le cose in modo rituale, ancora mi ricordo di quando camminavo per strada ed osservavo compulsivamente all’interno del cerchione delle ruote anteriori il corpo della pinza dei freni delle auto al margine del marciapiede. Non so perché lo facessi, forse andando sempre a piedi avevo il tempo per perdermi in questo tipo di osservazioni. Ora che sono cresciuto sorrido pensandomi ragazzino a guardare dentro ai cerchioni delle auto parcheggiate lungo la strada.
Questa osservazione compulsiva, durante l’arco della mia vita ha cambiato focus, in base al momento che stavo vivendo, alle esperienze, agli interessi.
Mentre tutto il mondo rallenta e sfuma nella musica ridondante di cui parlavo prima, riesco a pensare a questa mia caratteristica, a queste assenze temporali e dimensionali che mi fanno essere da un’altra parte, concentrato su qualcosa, sempre la stessa cosa, come a studiarla, analizzandone ogni aspetto, difetto, caratteristica, peculiarità.
Ho pensato di essere matto, perché non riesco a staccare gli occhi dall’oggetto, sempre lo stesso, che attira la mia attenzione, ma non penso di essere impazzito, ho una vita normale, sono una persona razionale, inserita nel tessuto sociale della città di Z, lavoro molto, sono conosciuto, molti cittadini della città di Z usufruiscono dei miei servizi, mi fermano per strada quando mi vedono, chiacchierano amabilmente con me, ma nessuno di loro sa delle mie piccole parentesi, degli infarti della mia attenzione che si mangiano il tempo e si allungano lasciandomi divagare del nulla come sto facendo ora pur orientando la mia attenzione sempre alla stessa cosa.
Dicevamo, il tempo si allunga, i suoni si ovattano in echi distanti e come proprio in questo momento la mia attenzione viene rapita sempre dalla stessa cosa, le labbra.
Si, le labbra, in questo preciso istante sono quelle della cameriera che mi sta portando il caffè al tavolo del bar che frequento regolarmente nella città di Z.
Sono labbra carnose, giovani, non hanno ancora i segni della perdita del tessuto grasso sul viso responsabile di mantenere le labbra compatte. Sono labbra ricche di collagene ed elastina, ricoperte di un rossetto intenso, color rosso carminio che le rende opache ma materiche e sode.
Non sono tutte così le labbra, queste sono particolarmente belle, setose, la luce viene assorbita e ne riflette un colore morbido, voluttuoso, il cui movimento al rallentatore provoca dei suoni che il mio cervello non si pone nemmeno il problema di decifrare. Sicuramente le mie di labbra stanno sorridendo in un’espressione neutra che dissimula la mia osservazione labiale indicando che non ho voglia di rispondere ma che sto ascoltando. Insomma la classica faccia da finto tonto.
Ma le labbra come vi dicevo non sono tutte così, le osservo e poi se ci penso, delle facce ricordo solo loro, anche la cameriera che ora si è girata e si sta rivolgendo al tavolo vicino a quello dove sono seduto, mi ha impresso bene in mente le sue labbra ma il resto della faccia non me lo ricordo. Sono empaticamente attratto dalle sue labbra ma non so neanche che cosa mi abbia appena detto. Osservo quelle degli altri avventori del locale, la forma dei loro muscoli orbicolari o buccinatori, il colore della pelle, la fattezza del sorriso, i punti di giunzione del labbro superiore e quello inferiore, gli angoli della bocca, le loro espressioni, il loro modo di fare, l’atteggiarsi, i tic nervosi. La signora in fianco a me ha labbra botuliniche, gonfie, prive di espressione irrigidite nella forma tipica a culo di gallina di chi gonfia la propria bocca paralizzandone le espressioni mimiche cercando di ridare vita e spessore a quel collagene ed a quella elastina che a causa del tempo si stanno atrofizzando. L’inammissibile sensazine dello scorrere del tempo, il rifiuto del cambiamento, la maschera sul nulla. Al bancone c’è un signore che osserva un caffè fumante, forse ancora troppo caldo per essere bevuto, all’angolo della sua bocca pende uno stuzzicadenti, come un’appendice, una protusione esterna di una parte anatomica che fuoriesce dall’apparato buccale. Abilmente lo stecchino si muove di vita propria, beccheggiando e rollando spinto dalle labbra dell’astante in maniera esperta. Sarà per caso un ex fumatore? Un uomo legato alla ritualità del gesto nel fumare, ritualità paragonabile a quello della mia osservazione sempre del medesimo particolare anatomico?
Ha labbra sottili o forse lo sforzo di rendere le labbra prensili fa si che io le veda fine e poco corpose.
La bimba appena entrata dopo aver litigato con il fratellino, contrae la bocca in una smorfia di pianto, il labbro superiore si arriccia e la bocca si allarga mentre le lacrime iniziano a rigarne il volto copiosamente. Una vecchia seduta vicino alla porta d’entrata ha gli angoli della bocca rivolti verso il basso e una strana peluria sul labbro inferiore nascosta in modo raccapricciante dalla cipria.
Sarà mai stata felice nella sua vita? L’espressione che ha è di una paralisi della faccia in una mimica di misto rimprovero delusione e tristezza.
Non ricordo più il motivo per cui mi sono sempre fissato sulle labbra delle persone. Forse ciò è dipeso dalla solitudine dovuta al mio trasferimento nella città di Z, al passare del tempo al bar perché a casa nessuni mi aspettava. Forse da lì è iniziata la mia osservazione rituale della bocca, del sorriso, delle espressioni derivanti dal contrarsi della muscolatura innervata dal nervo facciale. Forse sono convinto che le labbra possano dire molto di più di ciò che la bocca dice, forse temo che le mie labbra prima o poi diranno tutto ciò che penso senza filtro, senza permettermi di fermarle, la pura verità sbattuta in faccia a tutti coloro che incontro.
Sarebbe un disastro, se mi capitasse davvero, le persone mi si allontanerebbero, non vorrebbero più avere nulla a che fare con me, isolandomi e rispedendomi nella mia atmosfera dilatata.
Il mondo intorno a me accelera, i rumori si acutizzano e si definiscono, ho finito di osservare, di estraniarmi e di perdermi ciò che avviene intorno a me.
IL VENTO DEL RICORDO
Seduta sulla soglia del nostro silenzio
mi abbracci nel punto del canto dei grilli
e del profumo della limonaia.
Le parole non dette sono perle di luna
appese al ramo verde del tuo essere stata.
Nei giorni muti ascolto il canto dell’allodola.
Accarezzo le giovani foglie del glicine nell’attesa dei fiori promessi.
Nel frutteto manca l’albicocca più dolce.
Eppure le papille gustative sono ancora intrise dell’ amabile sapore.
Il vento del ricordo nell’aria reca soavi profumi di memorie.
Nel mio giardino lentamente cadono pezzi azzurri di cielo.
Per sempre
con me
i tuoi occhi.
sez. A, accetto il regolamento
ELEONORA
Pochi clienti, quel giorno. Erano già due ore che nessuno si presentava.
La crisi si avvertiva anche in quel settore.
Eleonora, nell’attesa, pensava al Natale, a quando sarebbe tornata a casa dai suoi, colma di doni, come un Babbo Natale in gonnella.
I suoi vecchi le avrebbero chiesto: “Come vanno gli affari Ele”?
Lei avrebbe risposto “Alla grande, famiglia!”
L’avrebbero guardata con orgoglio. “La mia Eleonora si è fatta una posizione al nord”, diceva Enza con orgoglio, alle sue amiche.
La zia Giusy, le chiedeva “E quando lo vediamo u piccirillo girare dentro casa! Ca’ solo vecchi siamo”!
Allora Eleonora rideva, rispondendo “Non c’è fretta, zia.”
Saro, il suo fratellino, adesso si era fatto grande, un bellissimo ragazzo del sud che la prendeva per la vita e la faceva girare. “Adesso, sono io che ti strapazzo, come facevi, tu con me”! La faceva girare, girare, come una trottola, tanto che Enza doveva intervenire: “Ragazzi, basta è tutto pronto! Sedetevi e mangiate!”
In quella tavola imbandita il cibo era profumato, colorato, saporito. L’appetito che al nord, stentava a venire, aspettava quella circostanza per presentarsi vigoroso, tutto insieme, all’improvviso. Allora lei mangiava quelle pietanze veramente di gusto.
Verso la fine del pranzo, si presentava Salvo a bere un liquorino, come di consuetudine insieme alla famiglia Passalà. Guardava Eleonora con adorazione. Lei avver tiva quegli sguardi che la imbarazzavano molto. Lui le chiedeva facendosi coraggio “Allora, Ele, quando torni al paese”?
Eleonora si passò una mano sulla fronte, per allontanare quei ricordi. Ma ormai il magone le aveva invaso lo stomaco.
Tutto d’un tratto, sentì il desiderio di tornare a casa. Si alzò, dalla poltrona sgangherata, si guardò intorno. Nessuno. In giro non si vedeva un’anima.
Gettò una bottiglia d’acqua sulla fiamma del fuoco che ardeva con bagliori intensi.
Prese la borsetta, e si mise a camminare lungo la statale. I tacchi, le impedivano di camminare speditamente. Si accucciò allora per toglierli.
Uno violento strattone al braccio la fece cadere. Si alzò incontrando uno sguardo duro. Udì la voce di Franco: “Che fai, dove credi di andare?” “Alzati e torna al tuo posto “Puttana”.
***
ELEONORA
Pochi clienti, quel giorno. Erano già due ore che nessuno si presentava.
La crisi si avvertiva anche in quel settore.
Eleonora, nell’attesa, pensava al Natale, a quando sarebbe tornata a casa dai suoi, colma di doni, come un Babbo Natale in gonnella.
I suoi vecchi le avrebbero chiesto: “Come vanno gli affari Ele”?
Lei avrebbe risposto “Alla grande, famiglia!”
L’avrebbero guardata con orgoglio. “La mia Eleonora si è fatta una posizione al nord”, diceva Enza con orgoglio, alle sue amiche.
La zia Giusy, le chiedeva “E quando lo vediamo u piccirillo girare dentro casa! Ca’ solo vecchi siamo”!
Allora Eleonora rideva, rispondendo “Non c’è fretta, zia.”
Saro, il suo fratellino, adesso si era fatto grande, un bellissimo ragazzo del sud che la prendeva per la vita e la faceva girare. “Adesso, sono io che ti strapazzo, come facevi, tu con me”! La faceva girare, girare, come una trottola, tanto che Enza doveva intervenire: “Ragazzi, basta è tutto pronto! Sedetevi e mangiate!”
In quella tavola imbandita il cibo era profumato, colorato, saporito. L’appetito che al nord, stentava a venire, aspettava quella circostanza per presentarsi vigoroso, tutto insieme, all’improvviso. Allora lei mangiava quelle pietanze veramente di gusto.
Verso la fine del pranzo, si presentava Salvo a bere un liquorino, come di consuetudine insieme alla famiglia Passalà. Guardava Eleonora con adorazione. Lei avver tiva quegli sguardi che la imbarazzavano molto. Lui le chiedeva facendosi coraggio “Allora, Ele, quando torni al paese”?
Eleonora si passò una mano sulla fronte, per allontanare quei ricordi. Ma ormai il magone le aveva invaso lo stomaco.
Tutto d’un tratto, sentì il desiderio di tornare a casa. Si alzò, dalla poltrona sgangherata, si guardò intorno. Nessuno. In giro non si vedeva un’anima.
Gettò una bottiglia d’acqua sulla fiamma del fuoco che ardeva con bagliori intensi.
Prese la borsetta, e si mise a camminare lungo la statale. I tacchi, le impedivano di camminare speditamente. Si accucciò allora per toglierli.
Uno violento strattone al braccio la fece cadere. Si alzò incontrando uno sguardo duro. Udì la voce di Franco: “Che fai, dove credi di andare?” “Alzati e torna al tuo posto “Puttana”.
***
ELEONORA
Pochi clienti, quel giorno. Erano già due ore che nessuno si presentava.
La crisi si avvertiva anche in quel settore.
Eleonora, nell’attesa, pensava al Natale, a quando sarebbe tornata a casa dai suoi, colma di doni, come un Babbo Natale in gonnella.
I suoi vecchi le avrebbero chiesto: “Come vanno gli affari Ele”?
Lei avrebbe risposto “Alla grande, famiglia!”
L’avrebbero guardata con orgoglio. “La mia Eleonora si è fatta una posizione al nord”, diceva Enza con orgoglio, alle sue amiche.
La zia Giusy, le chiedeva “E quando lo vediamo u piccirillo girare dentro casa! Ca’ solo vecchi siamo”!
Allora Eleonora rideva, rispondendo “Non c’è fretta, zia.”
Saro, il suo fratellino, adesso si era fatto grande, un bellissimo ragazzo del sud che la prendeva per la vita e la faceva girare. “Adesso, sono io che ti strapazzo, come facevi, tu con me”! La faceva girare, girare, come una trottola, tanto che Enza doveva intervenire: “Ragazzi, basta è tutto pronto! Sedetevi e mangiate!”
In quella tavola imbandita il cibo era profumato, colorato, saporito. L’appetito che al nord, stentava a venire, aspettava quella circostanza per presentarsi vigoroso, tutto insieme, all’improvviso. Allora lei mangiava quelle pietanze veramente di gusto.
Verso la fine del pranzo, si presentava Salvo a bere un liquorino, come di consuetudine insieme alla famiglia Passalà. Guardava Eleonora con adorazione. Lei avver tiva quegli sguardi che la imbarazzavano molto. Lui le chiedeva facendosi coraggio “Allora, Ele, quando torni al paese”?
Eleonora si passò una mano sulla fronte, per allontanare quei ricordi. Ma ormai il magone le aveva invaso lo stomaco.
Tutto d’un tratto, sentì il desiderio di tornare a casa. Si alzò, dalla poltrona sgangherata, si guardò intorno. Nessuno. In giro non si vedeva un’anima.
Gettò una bottiglia d’acqua sulla fiamma del fuoco che ardeva con bagliori intensi.
Prese la borsetta, e si mise a camminare lungo la statale. I tacchi, le impedivano di camminare speditamente. Si accucciò allora per toglierli.
Uno violento strattone al braccio la fece cadere. Si alzò incontrando uno sguardo duro. Udì la voce di Franco: “Che fai, dove credi di andare?” “Alzati e torna al tuo posto “Puttana”.
Dichiaro di accettare il regolamento de quo.
Partecipo alla sez. B
Invio:
VIANDANTI
“ Peppino…Peppino…esisti ancora?”.
Anche questa volta non ho ricevuto risposta, forse egli ha cessato di esistere.
Se ciò fosse avvenuto, significherebbe che sono rimasto solo.
Io non ricordo da quanto tempo esistiamo o chi ci ha generato, non ricordo nemmeno quale fosse la nostra vera forma.
I gas, la polvere ed il ghiaccio si sono depositati su di noi fino a compattarsi pesantemente ed ora Peppino è un blocco di roccia e metallo non diverso dai tanti oggetti vaganti che abbiamo incontrato nel nostro infinito viaggio.
Anche io devo avere, adesso, probabilmente, la stessa forma.
Eppure siamo viventi e senzienti, noi non siamo solo fredda roccia e ferro ghiacciato.
Tempo fa, abbiano udito una voce, una trasmissione ad ampio spettro che era degradata a segnale radio per via del lungo viaggio che essa aveva compiuto.
Noi abbiamo ricostruito la composizione di quella trasmissione ed essa conteneva delle immagini e delle sonorità strutturate.
Vi erano, infatti, delle entità, in un luogo illuminato dalla luce di una Stella, la quale si rifletteva sulla atmosfera gassosa di un pianeta.
Queste entità presentavano delle articolazioni superiori prensili e degli arti inferiori di appoggio.
Essi avevano una protuberanza superiore dalla quale emanavano delle sonorità vocali.
Sulla stessa escrescenza, questi esseri, possedevano l’appendice di un apparato respiratorio e due organi visivi.
Queste entità avevano dei rivestimenti di tessuto sui loro corpi.
Due di esse presentavano dei rivestimenti molto pesanti mentre una terza entità aveva una copertura più leggera.
Questa terza entità, poi, aveva un oggetto posto al di sopra della protuberanza superiore.
I tre esseri stavano comunicando, mentre un quarto, non visibile, stava incamerando le immagini e i suoni di questo evento.
Non possiamo sapere cosa essi stessero dicendo, in quanto non ne conosciamo il linguaggio.
Però siamo riusciti a ricostruire due sequenze fonetiche che sono state ripetute più frequentemente: esse sono “ Totò” e “ Peppino”.
Non sappiamo cosa significhino tali emissioni gutturali, però riteniamo che siano gli appellativi propri della loro specie.
Per questo motivo, anche noi, abbiamo assunto i medesimi appellativi, così da poter generare una emissione fonetica di riconoscimento, allorquando incontreremo queste entità.
Li stiamo cercando da allora.
Perché forse loro ci potranno dire chi noi siamo e da dove veniamo.
Il pianeta dal quale è partito quel segnale non deve essere lontano, perché il segnale si presentava, ancora, nella gamma della onda radio.
Se esso, invece, fosse giunto da tempi e luoghi più remoti sarebbe degradato in una semplice onda sonora.
Quindi, questi esseri sono qui vicino, da qualche parte.
Li dobbiamo trovare perché essi devono salvarci dal nostro infinito errare.
In questa porzione di Spazio non ci sono molte Stelle, la maggior parte sono vecchie Stelle rosse; forse è possibile trovarli nei pochi astri più giovani.
Sto osservando, da tempo, un sistema stellare terziario, con due grandi Stelle ed una vecchia rossa.
Forse essi sono lì.
Vicino a questa formazione Tristellare, poi, c’è una enorme nube gassosa, forse il resto di una antica SuperNova.
Quella nube, che quasi raggiunge il sistema Tristellare, emana una anomala luminosità.
E’ possibile che in essa si sia accesa una nuova Stella, la quale potrebbe aver riformato dei pianeti e su questi, o alcuni di essi, potrebbero esserci le entità che cerchiamo.
Vorrei che Peppino fosse ancora esistente, così potremmo decidere dove andare, se verso la nube o in direzione del sistema Tristellare.
La scelta è difficile perché, in entrambi i casi, servirà, comunque, un viaggio inimmaginabile per raggiungere uno di questi due luoghi.
Ci deve essere stato un tempo in cui, forse, abbiamo avuto la possibilità di determinare i nostri spostamenti e la nostra direzione, però adesso non siamo più in grado di farlo.
Da allora vaghiamo alla deriva negli infiniti spazi.
Io sento che la mia essenza vitale, qualunque essa sia, si sta, lentamente ed inesorabilmente, consumando.
Forse raggiungeremo uno di questi due luoghi ma, per allora, anche io avrò cessato di esistere e questi esseri che vogliamo incontrare vedranno, solamente, due pezzi di roccia vaganti nel cosmo come tanti altri.
Chissà se la nostra particolare forma allungata, diversa dagli altri corpi rocciosi, desterà qualche sospetto in essi?
Chissà se ci fermeranno e riattiveranno le nostre esistenze o se finiremo la nostra corsa infinita nelle fiamme eterne di una qualche Stella?
Comincio a domandarmi, adesso, se Peppino sia realmente esistito, o se non sia solo una mia simulazione…
Forse egli è solo un pezzo di roccia simile a me.
Forse il mio eterno vagare mi ha fatto avvicinare ad un oggetto roccioso e mi ha fatto credere che esso fosse senziente come me. Fosse come me.
Così che io non fossi, unico e solo, in questo buio eterno.
Forse, però, Peppino non è mai esistito.
Forse io, Totò, non esisto più.
Forse sono sempre stato, soltanto, un freddo pezzo di pietra e metallo.
Ma allora perchè desidero, così tanto, conservare la mia esistenza?
Se essa non fosse reale, perché bramo tanto spasmodicamente di incontrare altri esseri senzienti?
Perché la solitudine è così orribile?
Perché il terrore della eterna solitudine mi sta facendo compiere un gesto tanto terribile…!?!
Perdonami Peppino, ma io non ho altro modo di deviare la mia rotta e raggiungere la mia meta.
Devo scontrarmi con te ed imprimere una spinta verso la nube.
Ma non temere, anche tu virerai, seppur non verso la nube ma verso il Sistema Tristellare.
E’ questo il solo modo che mi permetterà di raggiungere la nube dei Totò e dei Peppino.
Forse entrambi saremo fortunati ed incontreremo altri esseri esistenti o, forse, lo sarai solo tu, in mezzo a quelle tre Stelle; mentre io, invece, in quella nube, non incontrerò nessuno.
Comunque sia, addio Peppino, addio per sempre; che tu sia esistito realmente o che tu sia solo una mia invenzione, grazie, comunque, dell’infinito viaggio compiuto insieme.
Possa il futuro riservarci la fine della nostra solitudine…in qualunque modo…
– Dedicato al passaggio di Oumuamua, avvenuto nel nostro Sistema Solare tra il 2018 ed il 2022 –
LA CAMPANELLA
Andrea non poteva ripetere quello che non aveva ancora detto.
“Ho detto ripeti” disse, senza che si smuovesse un solo capello del suo chignon.
“Allora ripeto io: quanto fa 5 diviso 2?”
Andrea aveva una voce flebile come la luce di una candela. Cantava nel coro della scuola e non faceva come i suoi compagni che aprivano la bocca fingendo di cantare. Ma in quei momenti, con una manina che stringe forte il gesso e l’altra che strofina il grembiulino, con i ditini che andavano su e giù, la voce ad Andrea non veniva fuori, anche se avesse avuto qualcosa da dire, solo un alito di vento muto.
“Quanto fa 5 diviso 2”, e stavolta la voce della maestra aveva assunto una variazione impercettibile.
“Il 2 nel 5 ci va…” furono le parole, che non sarebbero state seguite da nulla, se non da un insopportabile silenzio che solo lei poteva decidere quando terminare.
Non provavano paura, perché quella è una sensazione che nasce dall’ignoto, che spaventa perché non immagini cosa ti aspetta. Quello che gli allievi della IV B sentivano era terrore: avrebbero ascoltato una volta ancora la stessa storia, avrebbero sentito lo stesso finale, senza poterlo cambiare.
“Togliti gli occhiali”.
Si sentì un rumore duro, seguito da uno più cupo, che rimbombò per l’aula. La lavagna, malgrado l’urto, restò ferma. Anche Andrea. La fronte era rossa per il contrasto con la polvere di gesso sulle basette, che portava dietro le orecchie per accomodare gli occhiali, che dall’ultimo banco non si vedono i numeri, che forse sono difficili perché gli occhiali si muovono, e le divisioni non le riesco a fare…
“Ora mi dici quanto fa 5 diviso 2?”, chiese la maestra, mai smarrita, ma ora più sicura.
“Maestra, non si picchiano i bambini”.
Si sentì chiaro, dal banco di fronte alla cattedra, e arrivò come un’onda di fiume in piena. Il silenzio fu più acuto di quello che regnava prima. Le palpebre volevano rimanere aperte, per non oscurare la vista di quella scena agli occhi di tutti. Non era mai accaduto, in tre anni e mezzo, che qualcuno, in quell’aula, avesse parlato senza permesso e che si fosse alzato dalla sua sedia per farlo: nella vita ci sono cose più importanti della prudenza. La maestra non riuscì a dissimulare il suo stupore, inferiore solo al mio: non potevo credere che a dire quella frase, senza alcuna esitazione, fossi stato io.
Si alzò anche Giulia. La sentii scendere dalla sedia, anche lei senza chiedere permesso, anche lei con voce leggera e lucente come il trillo di una sveglia, che ti scuote da un sonno troppo breve.
“Non si picchiano i bambini”.
La maestra era terrorizzata da qualcosa di indistinto, ma di cui era convinta sarebbe stata il bersaglio. Infatti io non ero semplicemente Alessandro De Cicco, 9 anni a maggio, quello con il fiocco stirato la sera prima da mamma Teresa, ma solo dopo aver usato la sua matita rossa e quella blu, per le correzioni dei temi dei suoi allievi sfaticati, e le scarpe lucidate da papà Elio ogni domenica, prima della messa di mezzogiorno, con la cromatina, che tiene per tutta la settimana. Io ero soprattutto, il nipote della Sig.ra Adelaide Improta, già Direttrice didattica, ispettrice del Ministero, che tutti consideravano “terribile”. Quella che più di tutti la “ammirava”, come ripeteva in occasione dei colloqui con i genitori, era la maestra. Molto tempo dopo capii che, se sei abituata a terrorizzare, vivi nella certezza che i superiori possano terrorizzare te.
La sospensione del tempo fu interrotta dalla campanella che richiamò tutti alla ricreazione, riportandoci in una dimensione di realtà sbiadita, i cui contorni rimasero molto annebbiati, anche quando la maestra, avvicinandosi a me e a Giulia disse: “Voi due impiegherete bene questi minuti dell’intervallo, e spiegherete ad Andrea le divisioni”. Era il suo modo per dare risalto al nostro intervento, dandoci l’incarico di soccorrere l’amico in difficoltà. Ci considerava degni di una tale missione, almeno così ci sembrò di capire…
Ieri la maestra ha compiuto 100 anni. Siamo andati a trovarla io e Giulia; Andrea, dopo aver sentito al citofono: “Salite, cari i miei bambini”, è rimasto giù accanto al cancello di ingresso.
Abbiamo fatto bene a salire. Abbiamo trascorso del tempo con lei, che ormai ci sente poco, ci vede meno e non cammina più. Bisogna prendersi cura delle persone fragili, vanno sostenute. Lo sapevamo, fin dalla IV elementare. Oggi lo abbiamo capito. Non è una colpa essere un adulto inadeguato al mondo dei bambini, lo diventa se non capisci che l’umiliazione che impartisci ad un bambino lo può rendere inadeguato al mondo che incontrerà.
Oggi la campanella ha suonato prima, o così mi è sembrato. È che quando sei preso dall’argomento quel suono vibrante ti costringe a rimanere sospeso, con la sensazione che quell’emozione, quella che provavi in quel momento, dopo non sarà più la stessa. Forse sarà anche più bella, ma non sarà quella.
Scorrendo il tema di Antonio Somma, trovo ciò che già sapevo avrei trovato. Non c’è stata una volta che, indipendentemente dalla traccia, immancabile, come gli struffoli a Natale, non ci piazza: “Da grande voglio fare l’eletricista”, con una “t” sola…
Lo guardo rassegnato. Gli urlo: “Tonì, ma è possibile mai che per trecento volte ti correggo “eletricista”, e tu me lo riscrivi tale e quale, con una sola “t”?!”
Mi guarda. Risponde con un sorriso al mio, mentre divide il suo panino con Salvatore. Lo so che da grande sarà un bravo eletricista, anche con una “t” sola.
sez. b, accetto il regolamento
Voce ribelle: l’inno alla libertà
Nell’ombra oscura della notte muta,
sussurra il vento un lamento di pianto,
dove lacrime d’amore si dilata,
sotto il peso crudele della mano tiranna.
Oh, violenza insidiosa, nera come l’abisso,
che strappa l’armonia e la pace del cuore,
che infrange le ali della libertà,
e rende prigioniere le anime more.
In ogni sguardo spento, in ogni gemito soffocato,
si dipinge la tragedia di un’ Umanità ferita,
dalle catene dell’odio e del disprezzo legata,
nella tela oscura della violenza tradita.
Non più, non più silenzio di fronte a questo orrore,
gridiamo forte l’indignazione e la rabbia,
eleviamo le voci contro ogni sopruso,
sotto il vessillo dell’uguaglianza e della giustizia.
Che la mano che innalza il pugno si pieghi,
che il cuore indurito si sciolga nel perdono,
che l’amore sia l’arma più potente,
nel combattere l’oscurità del male.
Risorga, risorga la dignità ferita,
fiorisca la speranza nei cuori oppressi,
e danzino libere le donne e gli uomini,
sotto il cielo sereno della pace ritrovata.
Che questa poesia sia un grido d’amore e di speranza,
un inno alla vita e alla libertà ritrovata,
e che il mondo intero si unisca in un sol coro,
contro ogni forma di violenza, sempre e per sempre.
accetto il regolamento, sez. A
SOLA
Degli istanti
di respiro,
del rifugio
nella fuga
dal reale,
del coraggio
di ridere
non resta che
il rudere
d’un miraggio
da radere
al suolo: bam!
Macerie di
nascondigli
tra grovigli
di miserie,
sogni rotti in
pezzi aguzzi
di conchiglia,
fanghiglia di
memorie che
rende vana
ogni mossa
sull’isola
battezzata
col mio nome.
sez. a accetto il regolamento
L’OBLÒ
Non pensavo fosse così illuminante e introspettivo osservare la lavatrice in funzione. No, non sono impazzita all’improvviso: il mio, è un processo d’insanità mentale in corso da tempo: lento, graduale, ma costante.
Fatto sta che, prima, me ne stavo lì, nel bagno, a fissare l’oblò della lavatrice, quando, cullata dal ronzio e dal movimento circolare degli indumenti, vengo colta da un caldo oblio. Sospesa in una sorta di quiete meditativa, in cui il mormorio del motorino si accorda perfettamente con l’om che mi vibra nella gola, inaspettatamente scorgo, col terzo occhio (miope anche lui), un calzino nero in mezzo ad un mucchio di vestiti bianchi.
Incastrato in un umido, candido e vorticoso abbraccio, non sembra risentire in alcun modo del suo status di minoranza derivante dal suo diverso colore di “pelle”.
Pare, invece, godersela come il tondo nero nella metà bianca del simbolo Yin yang. A tratti, l’insieme rotante, assume le sembianze delle galassie a spirale nel loro incessante movimento, mentre il motorino ronzante da l’illusione d’essere in ascolto della musica delle sfere celesti di cui Dante cantò. Intanto, un mio capello (sì, io li lavo in lavatrice quelli morti… mi piace buttarli puliti), schiacciato contro il “vetro” dell’oblò, si piega e ripiega su se stesso, gira e ruota, su e giù, destra e sinistra, quasi stesse tentando di comunicarmi un messaggio, scritto in un un alfabeto segreto. Che sia una qualche forma di vita aliena che tenta di stabilire un contatto?
Ma ecco, dal centro, comparire i lacci bianchi delle scarpe di Viola e muoversi nello spazio, interagendo tra di loro e con sé stessi, a ricordarmi le famose stringhe della teoria quantistica che porta il loro stesso nome: sono arrivata alle “mattonelle” di cui è costituita tutta la materia. E tutto in un solo lavaggio. Pazzesco. Lì dentro c’è tutto: spiritualità, fisica, introspezione… Trovandomi a guardare l’universo da un oblò non posso non farmi le solite domande esistenziali. Ma questa volta ho anche le risposte:
1) “chi sono?” -> quell’idiota accucciata, riflessa nel vetro;
2) “da dove vengo?” -> dalla cucina;
3) “dove sto andando?” -> quando finisce, a stendere;
4) “che cazzo ci fa un calzino nero in una lavatrice di bianchi?” -> fa il gemello del solito calzino spaziato, alias la vittima sacrificale per il buco nero che sempre si origina durante ogni centrifuga, inghiottendo per lo più calzini, appunto;
5) “qual è il senso della vita?”…ehm… ehm… questa è difficile… concentro lo sguardo, terzo occhio compreso, sull’oblò che continua a girare. Alla fine ho la risposta -> senso orario!
sez- b, accetto il regolamento
Racconto simpatico. Vedo che anche tu condividi la mia idea sulla esistenza di buchi neri molecolari generati dalle fluttuazioni casuali del vuoto quantistico ( o anche dalle rotazioni dei calzini durante i lavaggi) che genetano micro wormhole attraverso cui gli oggetti passano da un punto A a un punto B in modo imprevedibile. E pensare che mia moglie dice che non trovo le cose perché sono distratto…
Con questo racconto ho perso la certezza di essere tra i 9 finalisti, visto che è il decimo. Vabbè, sarà per la prossima volta
I finalisti sono sempre 7 per sezione :)
TRANQUILLITA’
“…Sto riposando
adombrata dai silenzi che,
come attenti ascoltatori,
sanno consigliare
ogni crepuscolo pensiero…”
Accetto il regolamento – Sezione Poesia A
SAZ A
PASSIONE
Passione
nello scampolo
di colore
nella creazione divenuta
tra fili e merletti.
Nel corpo vissuto
da uomini realizzato.
Tra forbici e filo
nel ricamo cercato
nel taglio effettuato
d’anima cucito.
Rendendo vivo
lo spirito
in questa vita.
Accettazione del regolamento
Michela Minini
accetto il regolamento
Accetto il regolamento sezione A poesia inedita.
Non bisognava a parole esserci…
Non bisognava a parole esserci,
bastava un gesto, un foglio, il sangue di chi
non sapeva.
Non c’è più storia che ci consegni a noi stessi.
Accetto il regolamento. Sezione B racconto breve inedito.
Dedicato ad Andrii
La Madonna lacrima pallottole di piombo
gli hanno amputato le gambe
urla perché non l’aveva ancora capito
la follia di una guerra non è gioco e per lui non lo era, non lo è mai stato
ma adesso la madre piange,la moglie piange, la figlia tredici anni piange e non sa nulla di suo padre, impossibile dirgli “fuggi via con tutti loro, vai all’estero, mettiti in salvo” non si può, lì ci sono le sue vigne, le sue campagne, nessuno può distruggere, nessuno può mutilare i tralci, non diventerà mai un disertore, li preservera’, le donne prenderanno treni, asserragliate come bestie da tortura, gli uomini difenderanno le loro strade fino ai confini con quattro munizioni e i carri armati contro l’oppressione
lui giace su un letto militare e rivede i suoi compagni che avanzano nel fango, un labirinto senza nome lui e un altro mangiano terra dura, terra amara, ce l’hanno in gola nei bronchi collassati di dinamite, ecco appare un soldato russo con le unghie avvinghiate alla canna del mitragliatore, era un giorno qualsiasi grigio di fuliggine nell’ aria pesa, un giorno qualunque di lavoro in un ufficio, così sarebbe dovuto essere ma non era. Il nemico è un giovane dal viso serio forse la prima volta che si trova a dover fare in fretta, a dover decidere in quei secondi se ritornare neonato o accettare il suo destino di militare maledetto, maledetta l’ operazione speciale, maledetto dover morire a vent’ anni. Il compagno coglie in un istante il fottutissimo attimo di esitazione e la testa gli salta in un mare di sangue rosso come i papaveri. Quel militare improvvisato dal destino, corre via gridando, magari era il primo soldato che uccideva e non lo avrebbe mai più scordato, l’uomo, il volto della morte venuta un giorno per caso con gli occhi chiari e spaventati. Lui trema inorridito, è rimasto solo, la sua anima pesa quasi ventuno grammi e davanti c’è un campo nero, un campo immenso di terra fetida di corpi macellati, arida e crepata. Quello è il suo oceano, quelle sono onde forza dieci da attraversare. Si lancia verso l’avanti chiamando il proprio nome come un eco che rimbomba in un deserto di atrocità, l’aria lo spinge indietro e lui la fa’ scorrere lungo le braccia aperte per correre più forte, tanto da sembrare un gabbiano che sfrutta le correnti sopra l’acqua. Ma l’acqua qui non c’è , qui cadono droni, bombe a grappolo, fucili sporchi di cervelli umani, respira, respira, rantola con i polmoni che gli scoppiano fino a quando lui d’improvviso salta, vola in aria, la pelle si scompone in mille pezzi, migliaia di tasselli della sua carne vanno ovunque. Lui ricade sulla mina, bocconi, riverso, vorrebbe fuggire, muoversi, chiamare sua moglie, sua madre, ma tutto si spegne e il giorno qualunque diventa eccezionale perché un angelo lo porta giù agli inferi, le mura sporche di organi, di vomito, di bile sputata. Sopra suonano le sirene dell’allarme, e il dolore adesso è agghiacciante, l’ ospedale sotterraneo è il fondo di tutta la sua vita. Sparisce la luce, lui è un moncone di busto, manca anche l’anestesia e le voci emettono strida disumane, arti mutilati giacciono ovunque, uomini con i bisturi in mano corrono tagliando anche le coscienze.
La Madonna si piega e appoggia un telo bianco sulle ferite, uno squarcio benedetto lo tinge dei colori della follia.
La santa donna che ti accarezza ha un paio d’ali celestiali e lacrimando piombo ti trasforma in simulacro di un povero Cristo offerto e poi
risorto.
Ora lui urla, non ha più le gambe,non se n’era ancora accorto allora noi
facciamolo venire qui
perché non è un’ eroe di patria,
ma solo un ragazzo di 37 anni, un feto dentro il grembo della terra tagliata, ferita,
figlio di Giuseppe e di Maria.
accetto il regolamento sezione B
ERACLITO E ACHILLE
All’inizio, all’inizio di questa storia, non certo all’inizio di tutti i tempi, troviamo tre dei più conosciuti eroi della guerra di Troia beatamente rilassati e sdraiati sull’erba di un prato in prossimità di un fresco ruscello.
Intenti ad un meritato riposo, due giorni di ferie, tra una battaglia e l’altra di quella annosa guerra.
Achille, Ulisse e Patroclo. Ah, già! C’era anche un altro: Parmenide, un famoso filosofo.
I quattro (ma Parmenide non è che partecipasse molto) quel giorno erano immersi in una animata discussione sull’inizio.
Ma non sull’inizio della guerra di Ilio, sull’inizio dei tempi, su come qualcosa fosse venuta all’esistenza, su come all’inizio di tutto ci fosse solo il Chaos, massa confusa e informe che non era ancora nulla se non solo un peso inerte ammasso nello stesso tempo di molteplici germi degli elementi delle cose, senza legami tra di essi, e infine su come per partenogenesi Gaia avesseprogenitori degli dei dell’Olimpo.
Giunti a questo punto della loro discussione sulla nascita delle cose, alla quale Parmenide aveva contribuito unicamente con quattro interventi per ribadire che l’essere è e il non essere non è, tutto l’interesse dei tre valorosi guerrieri si focalizzò sulla natura fondamentale, sull’essenza ultima del creato.
Ulisse passò in rassegna le variegate opinioni al riguardo, partendo da quella di Talete, secondo il quale il primo principio è l’acqua, passando per quella di Anassimandro, che dice che il principio non è né l’acqua né un altro dei cosiddetti elementi ma un’altra natura infinita, l’apeiron, dalla quale provengono tutti i cieli e i mondi che in essi esistono, per arrivare ad illustrare il pensiero di Anassimene, che invece sostiene che l’Archè, il principio, si identifica con l’aria.
“E tu cosa ne pensi?” gli domandò a questo punto Patroclo.
“Mah” rispose Ulisse, suscitando le risa degli altri due compagni (Parmenide rimase come al solito indifferente) “Io sarei orientato a considerare la sostanza base molto più astratta di un semplice elemento fisico. Io racconterei la genesi con una frase del tipo: in principio c’era il verbo, DORMIRE. Poi il verbo si svegliò”
Ma il principe di Itaca ridivenne subito serio e continuò l’excursus: “In tempi recenti le opinioni sull’Archè si sono ridotte essenzialmente a due. La prima è sostenuta dal qui presente Parmenide, che afferma che la realtà è immutabile, non cambia, è data una volta per tutte. Che se potessimo guardare lo svolgersi degli eventi da un punto privilegiato, come quello degli dei sull’Olimpo, vedremmo che le cose succedono perché devono succedere, che tutto è già scritto una volta per sempre, niente cambiamento, niente divenire, l’essere semplicemente è. Dico bene, Parmenide?
La risposta che diede quest’ultimo è facile da indovinare “L’essere è, il non essere non è”
“A me, sinceramente, sembra un po’ scemo” fu il commento di Achille, un commento poco diplomatico.
“No, tutt’altro. Ma soffre di autismo” gli fece eco l’eroe di Itaca, che continuò dicendo:
“Di avviso opposto è invece Eraclito, la cui più celebre frase è: non si può discendere due volte nel medesimo fiume. Intendendo lo scorrere dei fiumi come una metafora del passare del tempo. Ogni momento è unico ed irripetibile, ogni istante è irreversibile, non te ne capiterà mai più uno uguale. Achille, se tu ti immergessi lì, in mezzo al fiume, per fare un bel bagno stando attento a non ferirti il tallone con i sassi sporgenti, mezz’ora dopo, od anche solo un minuto, non potresti bagnarti con la stessa acqua, perché il ruscello scorre, come scorre il tempo di noi mortali. Panta rei, tutto scorre, dice Eraclito, tutto è DIVENIRE. Lui sostiene che il principio ultimo è il CAMBIAMENTO. Non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua.
Proprio l’opposto dell’idea di Parmenide, per il quale tutto è ESSERE, tutto è IMMUTABILE”
Il quale Parmenide se ne uscì per confermare ancora una volta (ma scommetto che questo lo avete indovinato): “L’essere è. Il non essere non è”
“Quindi è questo il pensiero di Eraclito? Questo lui pensa? Non ci si può bagnare due volte nella stessa acqua?” domandò il pelide Achille.
“Esatto, è quello che ripete sempre. E che sostengono quelli della sua scuola filosofica, che viene dopo Talete, Anassimandro e Anassimene”
“Uhm…” fece Achille, mettendosi a riflettere intensamente, per poi chiedere ad Ulisse: “A che velocità scorre il fiume?”
Ulisse, dal sopraffino ingegno, prese un ramoscello e lo gettò proprio in mezzo al ruscello, spiegando: “Contiamo ora insieme…. uno… due… tre… quattro… cinque…sei. Ci ha messo sei secondi per arrivare a quella grossa pietra che sporge dall’acqua laggiù. Ora misuriamo quanto dista da noi “Uno, due………… ecco: 36 passi. Dunque la velocità è di 36 diviso 6, cioè sei passi al secondo. Sono astuto, io!” concluse Ulisse.
“Bene” approvò Achille che immediatamente dopo si tuffò nel fiume, uscendone subito e mettendosi a correre a perdifiato urlando “Raggiungetemi 1000 passi più a valle! A più tardi!”
E dopo alcuni minuti Ulisse e Patroclo, ma anche Parmenide, si spostarono più in basso di mille passi (noi diremmo un chilometro), dove trovarono ad aspettarli nel bel mezzo del fiume, con l’acqua all’altezza della vita, un trionfante Achille.
Quest’ultimo li accolse dicendo: “Io sono conosciuto in tutte le polis come Achille piè veloce, poiché riesco a correre alla velocità di 8 passi al secondo. Quindi per spostarmi dal luogo dove eravamo prima ci ho impiegato 125 secondi, 2 minuti e 5 secondi. L’acqua del fiume, quella dove io mi sono immerso e che è partita verso il basso della valle insieme a me, si muove invece a 6 passi al secondo e quindi è giunta qui poco dopo 166 secondi, quasi due minuti e 47 secondi.
Appena giunto qui mi sono tuffato in mezzo al torrente, e quindi dopo solo una quarantina di secondi sono stato bagnato dallo stesso liquido che mi aveva toccato due minuti e 46 secondi prima.
Eraclito ha torto: NON E’ VERO CHE NON CI SI PUO’ BAGNARE DUE VOLTE NELLA STESSA ACQUA!”
“Non credo alle mie orecchie!” commentò ammirato Ulisse “Sei riuscito a far diventare la filosofia una scienza sperimentale, a compiere un esperimento che confuta dunque una teoria su base empirica. Passerai alla storia non solo come invincibile guerriero, ma anche come grandissimo filosofo, l’iniziatore dell’empirismo!”
Il commento finale di un felice Parmenide fu, ovviamente: “ L’essere è, il non essere non è”.
E fu proprio così, cari lettori, fu proprio per questi motivi che oggi potete leggere su tutti i libri di storia della filosofia che Achille diede vita a quella corrente (di pensiero, intendo, non certo quella di un fiume) che va sotto il nome di empirismo, secondo cui la conoscenza deriva dall’esperienza, dagli esperimenti, e che vantò poi, nel diciassettesimo secolo, esponenti del calibro di Locke, Berkeley e Hume.
Achille, colui che ha evidenziato l’errore di Eraclito, dimostrando che quest’ultimo aveva torto marcio nel sostenere che non ci si possa bagnare due volte nella stessa acqua.
E che quindi, probabilmente, aveva ragione Parmenide nel dire che l’essere è ed il non essere non è.
Sezione A
Al cuor non si comanda
La mia vecchia “500” ha le porte contro vento
e la ruggine impazzita dappertutto è già fiorita;
gli sportelli son scheggiati, i cerchioni son bucati,
oramai la sua cappotta è da tempo sporca e rotta.
“Ma che te la tieni a fare?” – Ho sentito domandare.
E’ una stupida domanda: SAI CHE AL CUOR NON SI COMANDA.
Accetto il regolamento (Morena Paolini)
GRECALIA
Ulisse navigò
Il salso mare adriatico,
il colto Jonio, l’irato Tirreno.
Lo perdemmo a Citera. Lo scorgemmo tra Cariddi e Scilla.
La onda schiumosa ci trascinò lontano e lo vedemmo salutarci.
Restai casa senza padrone, campo senza aratore, allievo senza maestro.
Dèi lontani, ridatemi la vista per ritrovare la rotta verso la mia amata Atene.
Efebo, per punire i troiani, mi unii ai guerrieri del mio re.
Efebo grazioso ma povero, i nobili mi disprezzarono. Non cavaliere, non fante fui. Lavapiatti mi nominarono,
Non armi ebbi, ma stracci. Seduto a strizzar panni, mi vide Ulisse.
Con lo sguardo mi misurò. Cin un cenno della mano, mi chiamò.
Mi fece suo discepolo e io lo elessi a mio maestro e amante.
Esplorammo assieme, insaziabili, i piaceri della mente e del corpo.
Quando conquistata Ilio, mi offrirono il ritorno ad Atene,
Io, padrone del mio destino, ricco di onori e prede, rifiutai.
Mi imbarcai con il mio maestro a cui mi ero donato corpo e anima.
Entrambi fummo delusi da quella epopea diventata una squallida storia di violenze, tradimenti, massacri, stupri
Vedemmo entrambi che non vi era gloria in quanto fatto.
Il maestro ci assicurò che presto saremmo tornati in patri a,
ma io attento, colsi il canto del suo cuore deluso
Che anelava a cieli azzurri e ventosi sopra mar sconosciuti .
Là, trovare isole feraci avremmo trovato una nuova patria.
Per amore lo seguii lasciando che fosse il desiderio per la sua mente e per il suo corpo a guidarmi.
Dalla prima meritai in dono saggezza e conoscenza.
Ma, dal secondo, ebbi amore e passione che mi saziarono.
Ora solitario alle foci dell’ Istros, là dove le torbide acque entrano nel Pontos Axeinos,
vivo dei doni che mio offrono i barbari Sciti affinché insegni ai loro figli la parlata greca.
Allora racconto loro di Ilio e della guerra per la bella Elena. Illustro gli eroi, racconto come vincemmo e tornammo.
Ma, quando con la parola onoro Ulisse e i giorni della guerra di Ilio, un groppo mi chiude la gola e piango sul passato che non tornerà.
Allora gli innocenti efebi, miei attenti allievi, avidi di sapienza,
si chiedono in cosa mi hanno offeso e cercano di consolarmi.
sez. a, accetto il regolamento
Racconto breve, sez. b, accetto il regolamento
DANTESCA
Venezia 1423, il nove di maggio verso sera. In quello spiazzo, a quell’ora, di fronte a Ca’ Ponzia detta Ca’ delle Mone, veementi discutevano urlando una tonaca rossa da Monsignore e un giubbotto bruno da medico o alchimista.
Li avevo sentiti. Non parlavano delle tette e del culo di Ponzia, la meglio puttana di Venezia. Così, perché i capi di sestiere non intervenissero, li trascinai all’ Osteria della Scrofa Marina dove, nella saletta sul retro riservata solo agli amici dell’oste, avrebbero, complici due gottini di grappa di anice, potuto chiarirsi. I miei due amici, entrambi discendenti di famiglie di Templari, dimenticavano di essere sempre sotto l’occhio dell’Inquisizione. Ma io, marrano, mi spaventavo se il languido sguardo dell’Inquisitore si posava anche solo casualmente sul mio viso.
Ero pronto alla solita disputa sboccata di bigoli e mone, ma il motivo del contendere mi fece zittire. “Loci silentia late”, quindi silenzioso attesi. Diceva l’astrologo che girava voce secondo la quale Dante, il creatore della Divina Commedia, sarebbe stato portato all’onore degli altari. Risi. Era idea da bigotti, ma il Monsignore, vero uomo di chiesa, apparteneva segretamente alla congrega di Diana la strega Domina del Zogo. E questa notizia lo irritò. L’astrologo era un uno scienziato negatore di Dio, ateo e discendente di catari. E l’unico a sapere della loro vera natura e dell’amicizia che li legava ero io, il marrano. Già vissuto come Mosè ben Absalom giudeo, che a Salonicco aveva nutrito le loro menti con la Cabbala, Maimonide e i maestri sufi. Ero l’amico che li aveva salvati dai genovesi durante la guerra di Chioggia. Oggi nuovamente pronto a salvarli. Astorre Sinibaldi, astrologo e a tempo perso scienziato, sosteneva che il poema era un invito a riformare la Chiesa, e il viaggio meraviglioso descriveva l’odissea dell’anima che, attraverso varie prove, prendeva coscienza del Divino. E forse Indicava così quale itinerario dovessero seguire i peccatori per aver aperte le porte del Paradiso. Tutto ciò raccontato in lingua volgare comprensibile a tutti. A scorno della risaputa ottusità dei chierici avversi ad illuminare le menti avide di sapere.
“Ma scusate”, dissi, “A ben leggere la Commedia vedo più peccati che beatitudini. O forse non ho capito?”
“Ma taci! Tu, marrano d’un giudeo” scherzò Mattia il Monsignore. “Certo che non vedi, intento come sei a contare i denari dell’usura”. Non risposi. Tanto a che serviva. Pensai solo al divino poeta Dante che aveva scritto: “Uomini siate, e non pecore matte, sì che l’Giudeo di voi tra di voi non rida!”.
Mattia il Monsignore sembrò voler dire qualcosa di importante. Si versò un secondo gottino di anice, e tracannatolo in un lampo apostrofò rudemente Astorre:
“Imbecille amico, ma non ti rendi conto che Dante è uno stregone seguace di Diana? Basta leggere bene. Rinfrescati la memoria, rileggi Orazio e Lucano sulla dea Diana signora delle Selve, e anche Apuleio. Come scienziato dovrebbe piacerti leggere quello che la Chiesa proibisce.”
“Taci astrologo! Non rispondere, che io sono Monsignore! Ti ricordi come finiscono i poemi occitani? e le fiabe che si raccontano e le confessioni delle strie sotto il ferro dell’inquisitore?”
“Tu Astorre, hai letto la Commedia di Dante. Ti basteranno perciò alcuni chiarimenti per toglierti dal viso quello stupido sorriso e capire quello che intendo quando parlo del poeta come seguace di Diana e membro della congrega. Ecco, per entrare a farne parte questa è la via: sin da piccolo vieni scelto. Dapprima incontri senza saperlo Diana o la sua gran sacerdotessa. In seguito, quando ad un certo momento inizi a porti domande sul tuo posto in questo mondo, incontri una guida, un sapiente, un mago che ti accompagna in un viaggio periglioso fra lande desolate, dove vieni sottoposto a molte prove e devi sconfiggere infiniti nemici. Arrivi infine ad un Illuminato che ti esamina e, se ritenuto idoneo e meritevole, ti traghetta verso la strada che porta al Palazzo della Sapienza. Lungo la strada e nel Palazzo vieni istruito. Infine, incontri Diana la signora del Zogo, che ti svela gli ultimi misteri e ti fa rinascere come essere nuovo. Rinato e mutato nell’anima, puoi ritornare nel nostro mondo. Considera dunque Beatrice come Diana, Virgilio come guida, Caronte il traghettatore come esaminatore, Inferno e Purgatorio come la strada dell’apprendimento, il Paradiso come Palazzo della Sapienza rivelata. Là dove Beatrice, La Maestra della congrega degli adoratori di Diana, ti accoglie tra questi, e infine, coronato di sapienza e colmo della reale visione dell’Universo, ridiscendi in questo mondo a portare la novella che la Domina Diana è presente”.
Per me, Mosè ben Absalom adoratore del Vero Dio, dentro e marrano cristiano fuori, quelle parole sembravano oziose speculazioni di filosofastri.
Astorre sembrava una statua di sale che bene avrebbe figurato a Sodoma, finché Mattia, preso in un vortice di esaltazione, gridò: “Noi, i fedeli della Signora del Zogo, veniamo arsi e perseguitati, e lui, il poeta che si fa beffe di noi, è considerato dai lettori degno degli altari. Ma verrà il giorno in cui i saggi nutriti dal primigenio sapere lo smaschereranno”.
Fu allora che Astorre Sinibaldi, finto astrologo e vero sicario dell’Inquisizione, affondò lo stiletto nel petto di Mattia. Uccidendolo, affinché la vera natura della Divina Commedia restasse segreta.
Pensai: “Dopo un Monsignore morto, ora ci sarà un giudeo accoppato”. Così, con la daga che tenevo nascosta, tagliai la gola ad Astorre. Misi la daga in mano a Mattia e uscii dalla stanza, urlando che i compari si stavano uccidendo.
Il taverniere mi ignorò e lasciò che fuggissi. Non conveniva aver ospitato un giudeo, e, dopo un’occhiata alla stanza insanguinata, visto che non aveva altri avventori, chiuse la porta e andò a chiamare le guardie.
Racconto breve. Accetto il regolamento.
Storia de l’U. n° 9. (L’U. che baciò Liara)
La signora (Liara) guardava l’U con commovente attenzione. Lo teneva fermo per i capelli, nel mentre che gli prendeva la mano per strofinarsi delicatamente la coscia. E la lingua? Chiese l’U. Socchiudi la bocca, fece la signora, infilando la sua nella sua. Il quale, forzando l’opera in corso, l’infilò nella bocca esploranda di lei. Convenienza esibita, cercata, umettante saliva, esplò di conoscenza inturbata.
Rossa la faccia di lei, curva di sorriso su lui che pensò che un angelo sarebbe (stato) testimonio, ma gli angeli non possono essere fatti giurare: mentirebbero con le migliori attenzioni. L’U chiese scusa, la signora sorrise (ancora), di rosso carminio al quid visivo. Quel quid che indugiava nel più-su d’umidore afroroso, trattenuto nel meandro del caldo sensoso.
Bacio liquoroso: umbratile fu rispondenza nel chiuso del pertugio che le mani cercavano, per scoprirne il segreto. Assonanza di desiderio: la signora si mosse in avanti, senza dimenticare la mano. S’accavalciò, sollevandosi in volo planato, sotto del quale sporgeva il non più impedito quid sognato. Che fai? Lei chiese all’U con sfaccio alludente, allor che i fiori verdi e gialli d’arancio fumé coloravano d’ordore l’estiva serata.
All’estremità delle lunghe braccia di lei, le mani gentili s’aggrappavano ai di poltrona braccioli gonfiati di stoffa riempita di crine. Oh, mon dieu quelle chaleur! Esclamò la signora (Liara) e risuonò dell’invocazione il ciel, sotto il quale transitò inatteso un signore con signora a braccetto.
Oh! Mia cara, fece Liara, ricomponendo l’esibizione esibita. Tu conosci il mio sposo, fece l’altra con sguardo innocenso di fumo. Dunque, è lui il tuo sposo! La signora Liara glossò. Sì, disse l’altra. Poveretto, sussurrò (la s.) Liara, con voce impastata di bocca ancora linguata.
Dovreste venire a cenare da noi; a mangiare la genovese arrosto, disse l’altra. Non ci sarebbe nulla di strano, Liara osservò. E l’U.? L’altra domanda. Dentro ci salterà, nel mio, disse Liara. Nel mio che? S’informò l’altra. Nel mio mio, ammonì Liara. Scivolando? Chiese il signore (lo sposo). Qual genovese salsata, l’altra ipotizzò. Saltata, rispose lo sposo mimando lo slancio.
Verremo, concluse Liara. L’U. con-cenno-fermò. Giocheremo ambinando, riconcluse Liara.
Poesia, sezione A . Accetto il regolamento
IL BAGNO DEL MAGO
Bagnandomi nudo nella vasca
ho ascoltato la sua acqua.
Biancolivastro trasparente
in accennato ondeggiare.
Bolle in rapporto di pressione
salgono con lento mostrarsi,
movendosi appena
in acidula pienezza.
Uscendo (non più in braccio)
gocciolo freddo
di un giorno di piacere
di un uomo di piacere: il mio.
Alto taglio da sotto le ginocchia
nella specchiera ovalizzata
esperto bagnerciale.
Blu nell’accappatoio.
Spalancando le braccia
Maledicendo i benparlanti.
Sono scivolato sul sapone
scavalcando la vasca.
Sono morto così
risorgerò presto.
Mi attraversi
Se come vento
m’attraversi
E scuoti
Tenero ramoscello
Luce e ombra
Nel limbo del divenire
Tormento dell’anima
Non farmi cadere
Nel vuoto della memoria
Tienimi le mani
Come madre amorevole
Paola Pittalis
Partecipo sez. A
Accetto il regolamento
Accetto il regolamento del concorso, sezione B
LA PIANTA DEI SOLDI
Il signor Ernesto era una persona molto ambiziosa. Aveva il desiderio di avviare un’attività redditizia ma non sapeva bene in che settore sarebbe stato meglio lanciarsi. Consultò molti esperti in economia e strategia aziendale i quali gli consigliarono di fare accurate indagini di mercato per capire quali potessero essere i reali bisogni, le preferenze e i desideri della potenziale clientela. Il signor Ernesto fece come gli fu consigliato e alla fine delle sue lunghe indagini arrivò alla conclusione che la gente voleva e aveva bisogno solo dei soldi. Soldi e nient’altro.
Pensò bene a come avrebbe potuto soddisfare questo disperato bisogno e gli venne un’idea molto originale: avrebbe aperto un vivaio che vendeva le piante dei soldi. Così pensò e così fece, iniziò a vendere le piante, gli alberi e gli alberelli, gli arbusti o le rampicanti tutte con le banconote al posto delle foglie. Alcune piante grandi avevano già i soldi visibili sui loro rami, altre piccole li avrebbero messe dopo crescendo. La scelta era vasta: le piante dell’euro, del dollaro, del franco svizzero, dello yen giapponese e di tutte le altre possibili monete.
La gente incuriosita si precipitò subito in questo vivaio anche se all’inizio in molti erano scettici.
“Non è possibile, come possono crescere i soldi sulle piante?” si chiedevano increduli.
Ma il fatto era che tutti comperavano senza freni.
“È tutto vero, questi sono soldi veri”, erano entusiasti tutti. Così tutta la gente riempì i giardini con queste piante. Gli affari del signor Ernesto andavano a gonfie vele tanto che continuava ad aprire nuovi punti vendita in tutto il mondo.
“Maria, cosa facciamo con queste azalee, le togliamo? È vero che sono belle ma non ci rendono niente. Attirano solo le farfalle e le api.”
“Luisa, togliamo quest’aiuola di tulipani anche se sono così belli da vedere. A che cosa ci servono?”
“Marco, la siepe di gelsomino emana un odore così piacevole a giugno che uno vorrebbe stare in giardino tutto il giorno. Ma nonostante questo direi che non ci conviene tenerla.”
Discorsi simili si potevano sentire in tutte le case. La gente toglieva le rose, i gelsomini o le magnolie e piantava queste orrende piante dei soldi. Erano spariti gli uccellini, le farfalle e le coccinelle. Ma comunque erano tutti beatamente felici. Si stava esaudendo il loro desiderio primario. Anche il sindaco fece togliere tutti gli alberi dei parchi e dei viali della città e fece piantare le piante dei soldi dappertutto. Furono rimossi anche i platani, i tigli e le querce secolari.
La gente soddisfatta iniziava a pensare che era inutile andare a lavorare, tanto avevano in giardino tutti i soldi di cui avevano bisogno. Così il panettiere per primo chiuse il suo negozio che apparteneva alla sua famiglia da sette generazioni.
“Giovanni, chiudi veramente?” gli chiedevano i clienti stupiti.
“Perché devo lavorare di giorno e di notte se ho tutti quei soldi a portata di mano?” spiegò così i motivi della sua decisione. Poi fu la volta del macellaio, del cartolaio e dell’edicolante che chiusero anche loro i rispettivi negozi. Nessuno aveva più né bisogno né voglia di lavorare. Era così piacevole stare a letto al mattino e oziare. Chiusero anche le farmacie, i supermercati e tutte le altre attività commerciali. Ma pure le scuole e gli asili perché le maestre si erano messe tutte in malattia. Anche i vigili furono colpiti da qualche misteriosa malattia e pure il sindaco. I ragazzi non andavano più a scuola. A qualcuno capitò di non riuscire a ottenere il certificato di malattia perché il dottore si era messo in malattia. Non funzionava più niente. La gente stava tutto il giorno a letto, tanto tutto era chiuso. Non era rimasto neanche un negozio aperto e le persone non sapevano dove comperare neppure il pane. Ma quando iniziarono a finire le scorte di cibo che avevano in casa, allora la situazione precipitò. Povera gente, non aveva più niente tranne un mucchio di soldi.
Così si organizzarono e uscirono in strada a protestare. Volevano la vita di prima. Andarono davanti al comune per parlare con il sindaco, ma il sindaco era ancora in malattia. Ma poi qualcuno lo vide tra la folla. Anche lui era lì per protestare. E non si capiva più niente.
Il primo che fece una cosa sensata fu proprio il panettiere che riaprì il suo negozio.
“Meno male, Giovanni. Almeno non moriremo di fame”, gli dicevano i compaesani riconoscenti.
Si formò subito una fila infinita di gente affamata davanti alla panetteria.
“Non vi preoccupate, c’è abbastanza pane per tutti”, li incoraggiava a non preoccuparsi. Ma quando gli porgevano i soldi per pagare lui diceva infastidito:
“No, i soldi no, per carità”.
Dopo di lui aprirono piano piano tutti gli altri negozi, ma nessuno voleva i soldi in cambio della loro merce. Non ne potevano più di soldi. Anche le maestre improvvisamente guarirono come i vigili, i dottori e il sindaco. Ma la vera gioia fu quando aprirono i fioristi. Quelli che vendevano le piante vere che sapevano di vita, di profumo e di natura. Così la gente stufa dei soldi iniziò a strappare le orrende piante dei soldi e piantare di nuovo le rose, le azalee, i tulipani. Anche il signor Ernesto stanco dei soldi cambiò radicalmente l’assortimento nel suo vivaio e si mise a vendere anche lui le piante vere. Ripresero tutti a lavorare e alla gente tornò il sorriso sulle facce.
Anche il sindaco fece togliere le piante dei soldi nei parchi e nei giardini della città e fece mettere degli alberi veri dove si posavano e cinguettavano gli uccellini. Ma il danno ormai era fatto. Quelle piante secolari che erano state rimosse ormai non sarebbero state più viste da nessuno. Forse le nuove piante che cresceranno saranno apprezzate dalle generazioni future che si spera siano più intelligenti di questa e capaci di salvaguardare la natura fermando la frenetica corsa per guadagnare più soldi.
… LA CANDELORA…
… Lavoro, silenzio…
Un raggio di sole…
… La Candelora…
Partecipo al Contest gratuito di poesia e racconto breve “Conversazioni Poetiche seconda edizione”, Sezione A – poesia ed accetto il regolamento.
In questa casa non abita più nessuno (Sez. B – Accetto il regolamento)
Molto tempo fa,
ero fidanzato con una ragazza
della quale ero perdutamente innamorato
e ricambiato.
C’era qualcosa di segreto nel nostro amore,
obliquo, ti prendeva nella pancia
ma non era cattiveria
assolutamente,
ti chiudeva il respiro per l’intensità
delle emozioni che suscitava,
ma non come accade con la sofferenza:
si trattava invece di un mistero inaudito,
la voce dell’amore che non corrisponde mai
a come ce la immaginiamo
e per questo sorprende,
lascia senza fiato.
Noi tutti vogliamo un amore celestiale,
così chiaro che tutti debbano accorgersene,
a me e Sabrina
capitò invece un amore che profondava negli abissi
dei paradisi ctoni,
incontro a quel sole nascosto al centro della Terra.
Un amore misterioso e silente,
che sbocciava ogni giorno diverso.
Ci sentivamo perduti e gioiosi di esserlo,
come ci avesse unto la mano
di una creatura giubilante.
Avevamo una casa piena di bambole e luci fioche,
ci piaceva quell’aria sinistra.
Quando facevamo l’amore, mi mancava il respiro
e turbinava l’emozione nella mia pancia,
avevo la stessa sensazione che si prova
a scendere dalle montagne russe:
ci amavamo.
Io all’epoca ero un fisico delle particelle,
lavoravo in un laboratorio
con acceleratori di particelle simile al CERN
oppure al Laboratorio del Gran Sasso.
Un giorno, ebbi un prestigioso riconoscimento
per aver dimostrato matematicamente
l’esistenza di particelle
che interagivano persino con le leggi della fisica
rendendo la realtà flessibile e mutevole.
Chiamammo la realtà Struttura Libera
e iniziammo a ridefinire il concetto di legge fisica.
Dopo questo riconoscimento,
i miei amici e Sabrina
mi organizzarono una festa a sorpresa.
Ero felicissimo, ma qualcosa andò storto.
Per via di un movimento maldestro,
Luca, un mio amico,
rovesciò un bicchiere con del vino
e lo fece cadere su Serena,
bagnandola.
Sembrava una cosa da nulla, ma ci fu invece
un litigio generale che coinvolse
anche me e Sabrina.
Inizialmente, non sembrava niente di grave,
ma gli animi si scaldarono presto
come non era mai successo tra di noi.
Pareva la classica litigata che si sistema in un secondo,
eppure, qualcosa si ruppe in quel momento.
Sabrina mi disse:
“Vedo che sei tranquillo,
non te ne frega niente, Fabio, che ci stiamo lasciando?”.
Mi alzai e me ne andai pensando di fare la cosa migliore.
Ritenevo che, se un’inezia tale
poteva rovinare un amore così struggente,
a me non quadrava più nulla,
e me ne andai
sperando che il giorno dopo tutto si sarebbe sistemato.
Ma non fu così.
Ricordo che, mentre discutevamo,
allo stereo davano una canzone
che non riesco a rimembrare perché appartiene
a un altro tempo,
il titolo era “Puoi vivere un giorno di più”.
Ci lasciammo.
Soffrii in modo inimmaginabile.
Non cadde una lacrima.
Ingoiai tutto.
Una notte, mentre stavo passeggiando di ritorno da un pub,
un signore distinto in smoking
che stringeva una verga in mano – un bastone
molto elegante –
mi guardò fisso negli occhi e mi disse:
“Io posso ridartela” e ribadì
“Non aver paura, io posso ridartela”.
Lesse nel mio dolore infinito
e lo seguii senza dire una parola fino a casa sua,
entrammo e immediatamente fece segno
di raggiungerlo fino al salone.
Accese il suo stereo
e la canzone era la stessa di quella maledetta sera:
“Puoi vivere un giorno di più”.
Scoppiai finalmente a piangere
un pianto violentissimo
senza fiato,
ebbi paura che fosse la morte.
Lo abbracciai con tutte le mie forze
dopodiché si allontanò per un attimo.
Fu così che la vidi entrare, Sabrina,
bellissima come sempre e con le lacrime agli occhi.
Mi disse: “Non chiedermi chi sia questo signore
perché non lo so”,
scoppiammo tutti e due a ridere,
ci abbracciammo e piangemmo come raramente accade
anche nelle esperienze più belle,
le baciavo gli occhi
e altrove
la baciavo ovunque.
Mi raccontò che il signore in questione
l’aveva fermata per strada
e le aveva detto:
“Se sei pronta a gettare la tua vita, quella è la strada,
se rivuoi il tuo amore, seguimi.
Se scegli di non venire,
non ci saranno altre chance di rivederlo”.
Tornammo insieme.
Il giorno dopo, ci affacciammo presso la dimora del signore
per ringraziarlo con tutte le nostre forze,
ma nessuno si fece vivo sulla porta
nonostante diversi tentativi di suonare e bussare.
Un secondo dopo, attraversò la strada una donna
che si diresse da noi e ci chiese chi cercavamo.
Sabrina prese la parola:
“Cerchiamo un signore sulla sessantina,
molto elegante…”.
La donna ci interruppe e aggiunse:
“Mi dispiace deludervi,
ma in questa abitazione non vive più nessuno da un mese circa,
e non ho mai visto il signore di cui parlate,
gente elegante in questo quartiere se ne vede poca”.
Stupiti, ce ne andammo.
Qualche giorno dopo, passando davanti a un teatro,
ci fermammo a leggere gli spettacoli in programma,
ce n’era uno che catturò la nostra attenzione:
IL POETA DELL’AMORE
INTERPRETATO DA ATTORI PROFESSIONISTI.
OMAGGIO AL COMPIANTO GEORGE LIZ.
E una fotografia del poeta che non lasciava dubbi.
Era l’uomo che conoscemmo poche notti prima
e che per motivi sconosciuti
ci aveva fatto rincontrare.
Sezione “A” Accetto il regolamento.
Oggi.
Oggi che te ne sei andato, oggi che te ne sei andata anche tu.
Oggi senza più un domani stanco, oggi senza più voi.
Oggi con i miei attimi di sgomento senza voler credere
oggi che devo ammucchiare tutti i miei ricordi di te e te
ed ogni mia speranza ed ogni entusiasmo così spento.
Oggi con gli occhi stanchi che mi appannano le parole
con gocce di pioggia sul viso, guardando verso un cielo avaro
e ladro che ruba affetti e non li rende mai più.
Oggi sola su quello scoglio sommerso, in una notte di luna
scaglio lontano con rabbia le mie speranze ed i miei affanni.
Oggi so che qualunque cosa accada, gli amori veri non svaniscono mai,
io chiudo un intenso capitolo di vita senza il desiderio di riaprirne altri.
Oggi che siete andati, aspettatemi, lungo la schiuma la dove frange
l’onda, sulla prima spiaggia in fondo verso all’orizzonte…oggi io ci sarò.
Accetto il Regolamento Sezione A
Il ricordo in un diario
Essere morto tra i fogli di un diario
come qualcosa già passato, un ricordo.
Essere come un pezzo di carta scritta
in ricordo di un qualcosa che muore.
Essere tra i pensieri della gente
tra i loro amori, tra i loro odi,
le loro felicità, le loro amarezze.
Essere come un vascello silenzioso
che solca le onde del pensiero umano
e scoprire.
Scoprire d’essere un uccello senz’ali,
tremolante come lo stelo
di un fiore che nasce senza motivo:
un fiore che riporta in tanti diari
di bimbi pieni di mistero,
di piccole montagne e grandi alberi.
E poter alla fine rinascere come un uomo
che cerca se stesso in un vecchio ritratto
tenuto nascosto tra le pagine
di un libro sgualcito,
e ricordare tante cose come un diario:
il diario della vita che rompe i sogni,
squarcia le speranze e matura i pensieri.
CERCANDO UNA POESIA
Cercando una poesia,
trovo il profilo di mio figlio,
scatto l’attimo,
ciglia lunghe che volano in alto
aprendo occhi di purezza.
Cercando una poesia,
trovo scintille di coscienza,
nel ricordo di una donna
che recitava la sua vita
tra dolci rime baciate,
che l’hanno custodita.
Cercando una poesia,
trovo il tuo respiro,
calmo scivola dentro il mio cuore,
accompagna i miei misteri,
dimentico subito il diverbio di ieri.
Cercando una poesia,
trovo immagini che aggrovigliano l’anima,
mi allungo alla luna,
lecco ferite di odio,
con la mia gatta trovo somiglianza,
per pulire un mondo
che è diventato la mia stanza.
Cercando una poesia,
trovo mondi diversi,
ascolto mille cuori,
incrocio capelli di vita
in una treccia infinita
che brucia tra fuochi di silenzio
e fiamme di luce,
si bagna tra acque ialine e gocce di lacrime,
si sporca tra fango profondo e oro antico.
Cercando una poesia,
trovo la vita
e finché la sento
non è finita.
Simona Grammatico
Accetto il Regolamento Sezione A
Accetto il regolamento Sezione A
Italia
Italia
Italia, immenso rovo d’arte,
sei il sogno avuto in sorte
quasi isola tra le isole di mare
del mondo intero sei il cuore.
Italia senza freni né catene
i tuoi domani sono bolle di sapone,
vanitosa e libera fino all’osso
ancheggi fiera e folle nel tuo lusso.
Italia, pochi figli e molti cani
amori come fiori senza radici,
libertà lasciata senza freni
nella speranza di rimanere umani.
Italia che confondi il bene e il male,
la democrazia spalmata come miele
resti in bilico tra povertà e ricchezza
con una dignità che a volte t’imbarazza.
Italia, specchio infranto della vita
ognuno va col suo pezzetto in tasca.
Italia che gioca ancora a mosca cieca,
avanza, annaspa, inciampa e si rialza.
Ma qualunque cosa accada, resto
non potrei mai vivere in un altro posto
perché ti amo anche quando ti detesto
e rido, e piango, per tutto questo.
SEZIONE A poesia inedita. ACCETTO IL REGOLAMENTO
NON BISOGNAVA A PAROLE ESSERCI
Non bisognava a parole esserci,
bastava un gesto, un foglio, il sangue di chi
non sapeva.
Non c’è più storia che ci consegni a noi stessi.
Non è del tutto nuova questa vertigine che mi fa cadere giù dall’alto della mia torre.
Quando spuntano le ali, bianca e morbida vado via. Volo, corro, resto sospesa nel vento, mi guardo indietro e riparto.
Mi curo le ferite con fiori di lillà e cenere.
Mi nutro di miele e briciole di pane.
Muovo le ali, mi sposto leggera, vado e vedo.
Non è del tutto nuova questa vertigine che mi fa vibrare il cuore, che è un cuore raro.
E cado.
Partecipo con questa poesia inedita in(sezione A). Accetto il regolamento
La piramide di luce
Firenze ottobre 2021
Marco ha preso la Tramvia. Fruga nel borsetto, controlla l’orario tramite smart phone. È in ritardo sull’appuntamento al Centro Commerciale Il disappunto gli si dipinge in volto. Imbronciato, sposta in avanti il mento fermando il sorriso agli angoli della bocca. Sa che Riccardo lo aspetterà; ma percepisce qualcosa d’indefinito, quasi ricevesse un segnale che la giornata non è propizia. Mentre scende spinge giù la gamba a toccare il marciapiede e si sente sbilanciare. Una nebbiolina addensata e corporea tenta di liberarsi dalle sue membra che le si stringono addosso. Marco acuisce la vista. Il suo doppio, Eliodoro, è di fronte a lui, vestito con una cappa trapezoidale, troppo pesante per la stagione che si vive a Firenze. Ha accostato i calzoni in pelle, rincalzati nei comodi stivali, alla cotta in maglia, senza alzarne il cappuccio. Il giovane alza un sopracciglio sorpreso dalla chioma riccioluta, tagliata e domata, dalla barba sfoltita alla base delle guance. Solo le striature bianche dei capelli denunciano l’età avanzata di Eliodoro. Vorrebbe domandare in quale universo si sposterà il suo doppio, ma non fa a tempo.
Eliodoro lo anticipa nel parlare:
«Dunque ho il tuo consenso per questa missione.»
Il giovane sente il collo che muove la testa, acconsentendo. Chissà quale volontà guida il sistema simpatico. Tace, impaziente di conoscere e soddisfare la propria curiosità.
«Alcuino mi sta aspettando »
Eliodoro ridacchia spavaldo, guardando con occhio critico il proprio interlocutore.
Marco abbassa gli occhi imbarazzato, consapevole della sua sciatteria.
Una voce fastidiosa gli ronza in testa: «Sarà il caso che tu non faccia aspettare Riccardo, il tuo amico. Ricorda, l’appuntamento è presso la piramide ruotante nella sala d’aspetto.»
“La piramide!” pensa Marco,“ chissà perché, per spostarsi, Eliodoro utilizza proprio una piramide di luce.” Non riesce a visualizzarla .Il suo udito invece ne percepisce nette le vibrazioni. Il pensiero si trasforma in debole e, di passo veloce, Marco va incontro a Riccardo.
Aquisgrana febbraio 811
«Stai silente da quando stiamo viaggiando. Proprio ora ti avvicini allo schermo di luce?!» Eliodoro non parla con un cristiano. Lo sommerge, di un grigio ferro espanso, la bolla d’aria ipnotizzante che si sprigiona dalle pupille dell’amico felino. Se lo ritrova tra i piedi ogni volta che decide di prendere vita manifestandosi a Marco. Eliodoro sospetta che lo spirito di Felicefù sia responsabile di questa sua incarnazione. Felicefù è un gatto davvero strano. É impedito nel suo verso tipico, il miagolio, comunica grazie alla telepatia.
L’altra questione è che Felicefù persiste a intromettersi nel pensiero di Eliodoro. Quando incontra il di lui rifiuto, si tramuta in una forza cinetica portentosa: balzelli alle gambe, strette alle mani e quant’ altro possa risultare utile a manifestare la sua frustrazione. Vuole essere considerato.
Eliodoro è impegnato a far vaporizzare le pareti della piramide di luce, intaccando la sua riserva di energia psichica. Una parte di questa si spende per esprimere a Felicefù il rassicurante pensiero che potrà seguirlo nella sua avventura.
Le pareti della piramide si sono disintegrate unitamente alla luce che il prisma emana quando è serrato nel chiuso della sua essenza.
Disteso, il busto eretto e le gambe tese in avanti, sul terreno erboso e umido che fa da cornice alla chiesa ottagonale, rialzandosi Eliodoro ha cura di accostare alle spalle la cappa, soddisfatto di averne indovinato la pesantezza. Il clima è rigido ad Aquisgrana.
Felicefù gli gironzola attorno, impedendolo. Egli ha varcato l’ingresso dirigendosi verso la torre scalare che porta alla cripta.
La memoria lo inonda di ricordi.
Quel rompipalle di Marco fa uso della telepatia. Il cervello di Eliodoro subisce indesiderate interferenze, funziona come per gli umani. Se ignori il presente, arriva o la nostalgia del passato o l’ansia di prevedere e controllare il futuro. Tra le due meglio la prima.
Eliodoro è già stato nella cappella e nella cripta. Spera di rivivere la bellezza di quegli incontri quando l’Accademia era alle sue origini. Vorrebbe scacciare le emozioni, smancerie che gli permangono dalla frequentazione con gli umani. Non lo influenza l’eco dei dialoghi, dei ragionamenti filosofici che a quel tempo avevano presa su di lui. Piuttosto la struggente visione dei maestri e fra questi di colui che gli è stato il più vicino. Più volte il desiderio di incontrare Alcuino lo ha spinto a fare domanda a Caronte, senza successo. Si può pretendere che venga fatta grazia ad un miscredente? Lui, imprigionato com’è nel corpo di un’anima laica, riconosce la superiorità dello spirito e respinge l’ateismo, in uno sforzo sincretista che ammette e confonde le divinità.
Ora freme di intima soddisfazione. Con l’aiuto di Felicefù ha respinto l’intromissione telepatica di Marco. Torna in Aquisgrana, nel febbraio 811. Sta sperimentando un presente ucronico. A riceverlo è proprio Alcuino: La voce è certa, chiara e inconfondibile.
Eliodoro ha recuperato la sinestesia dei sensi e, superata la commozione, ha il dono della lucidità nell’ascolto e nella comprensione.
La sua missione? Gli si imprime nella coscienza. Deve la propria investitura alla sua fama di orefice e di sapiente matematico. Sarà destinato a realizzare uno degli ultimi desideri di Carlo Imperatore. Alcuino lo fa scendere nelle viscere della terra. È solo, in compagnia di Felicefù. La voce di Alcuino, consolatoria, lo accompagna: «Proprio qui, nella terra destinata ad accogliere la salma dell’Imperatore dovrai realizzare il miracolo del tempo che si ferma e conquista l’eternità…»
Sul più bello la comunicazione si interrompe. Felicefù non si scoraggia e lo sprona. Nel cervello di Eliodoro si accende una lampadina: “ Sicuro! Dovrò recarmi da Marco, evitando il ritardo, assistere alla compera del nuovo orologio al quarzo e carpirne i segreti. Da lì partirà la mia ricerca per frammentare il tempo in periodi sempre più infinitesimali…” La via è ardua e il percorso tutto da scrivere. La piramide di luce si è di nuovo materializzata. Garantirà l’incontro con Marco, certo e realizzabile, come la missione di Eliodoro.
Chiara Sardelli
Sezione B
Accetto il regolamento
Poesia sezione A
Dēflagrātio
Oh genia,
che Caron demonio anela traghettar
ove tenebra raggela l’anima
bruciando in corpore,
genia deflagrata
di ingordigia
smodata cupidigia
fauci divoratrici perpetuamente,
genia liquida
debole lo spirito
anima ossidata
debole mente ignavia progenie,
genia trangugiante
come idiozia zampillante
vanità vanitosa travolgente
trasdotta rovina,
Oh genia
perduta Via Magistra
andar che ritorno non ha
cangiando camaleontica ipocrisia,
genia avvizzita
dimentica dell’Essenza
immota senza aspirazioni
peritura senza vita alcuna vissuta,
genia transeunte
nell’ego(ismo) abissata
ritorta sul sé
ricurva asfittica,
genia distopica
tutto niente
nulla tutto
frivolezze come drappi ridondanti barocco…
Deflagrante entropia
tabula rasa di una Nuova Era.
tania Pizzamiglio (friulana), 11/02/2024 – accetto il regolamento
Accetto quanto scritto nel regolamento.
Poesia edita Sezione A
Ti cerco…
Quando c’è tempesta, quando le nubi sono grigie
in un mare deserto sarò lì a cercare ciò che è successo dentro di me .
Ti cerco…
Sono un mare calmo in apparenza e pronto a generare tempesta pur di vincere ogni mia paura.
Ti cerco ,
quando il cuore stanco non smette di battere pur essendo stanco di nuotare contro corrente.
Ti cerco
quando ho il respiro corto , senza fiato, sono nei fondali marini a cercar perle d’amor
Ti cerco in anfratti e grotte marine, protette da squali voraci di sentimenti e sangue .
Ti cerco nei velieri inabissati tra vecchi scrigni …
Solo lì posso; in un passato dove tutte le cose belle venivano conservate,
nei fondali marini.
Altri giorni
.
Esistono altri giorni, amore mio?
Sai, quei giorni presi in prestito al mattino,
e usati fino a sera e consumati,
vissuti come fossero un regalo,
non scritti in nessun altro calendario,
senza una data, senza avere un nome.
.
Giorni nostri, dipinti di passione,
privi di ore, senza giorno e notte,
fatti di tempo che non è trascorso,
senza ricordi, senza investimenti,
lontani dal passato e dal futuro.
.
Eppure nostri più di tanti altri,
eppure vivi, eppure scritti a fuoco,
nel luogo più profondo della terra,
in quella grotta dove si conserva
la storia vera dell’anima del mondo.
.
Abner Rossi
accetto il regolamento, sez. a
Il candidato inesistente
Lo studente si soffermò con la mente sul nuovo caso che doveva porre all’attenzione del relatore della sua tesi. Sperava che quello fosse il suo ultimo viaggio a Torregrande, nella casa al mare che il vecchio professore possedeva sul litorale di Oristano. Non che si potesse lamentare di doversi recare a Oristano.
Il professor Tarbesi era stato chiaro, quando gli aveva chiesto la disponibilità a seguirlo come relatore, dicendogli che sarebbe andato in pensione praticamente alla fine delle lezioni di giugno e che si sarebbe ritirato a Torregrande per tutta l’estate. Dentro di sé sapeva che quel professore, in fondo, gli aveva fatto un favore acconsentendo a seguirlo nella preparazione della tesi. Avrebbe potuto benissimo dirgli che il suo tempo era finito e che si rivolgesse a un altro professore, di quelli in servizio. Ma i migliori avevano chiesto il trasferimento ad altra sede; e poi per quel vecchio professore sardo provava rispetto e ammirazione. La passione per la materia aveva fatto il resto.
Sorrise guardandosi allo specchietto retrovisore, e fece una smorfia per uscire dall’imbarazzo del suo stesso sguardo. Un’auto gli sfrecciò velocemente in direzione contraria. La seguì dallo specchietto retrovisore allontanarsi a oltre duecento chilometri orari dalla sua auto: i cento della sua sommati a quelli dell’altra. Pensò che due auto di Formula Uno, incrociandosi in opposte direzioni, avrebbero raggiunto la velocità di 600 km orari. Sempre poco in confronto alla velocità del suono. Gli sarebbe piaciuto guidare un’auto la cui forma sarebbe stata visibile prima di udirne il suono, come accadeva per gli aerei supersonici.
Rianalizzò per l’ennesima volta il titolo della sua tesi: “Aspetti devianti del modello di democrazia indiretta: casistica ed evoluzione dalla rivoluzione francese ai giorni nostri ”. Titolo provvisorio, sperando di riuscire a far passare un altro dei titoli che lui preferiva: “Demagogie al crepuscolo di un’epoca” oppure “Le grandi farse politiche tra i due millenni” o ancora meglio “1994: l’inizio della telecrazia e la fine della democrazia “
Soprattutto quest’ultimo aveva fatto sorridere il vecchio prof. Tarbesi.
–“Si ricordi che il suo lavoro è una ricerca scientifica, non un romanzo”- era stato il suo commento, tra il compassato e il divertito. E aveva proposto, come provvisorio, quel titolo sugli aspetti devianti, che definire eufemistico era ancora troppo poco. Comunque la si chiamasse, quella ciambella, aveva il sapore amaro di una grande, quasi infinita beffa che i borghesi, vincitori della rivoluzione francese, avevano giocato a danno del popolo, poco più di due secoli prima.
Comunque la sua tesi era quasi finita. Gli venne in mente la catasta di carta che era andata accumulandosi negli ultimi due anni sulla sua scrivania; dalla immensa bibliografia, alle traduzioni, dalle modifiche, alle aggiunte, imposte con autorevolezza da un professore in sandali e calzoni corti, più pensionato che docente, ma pur sempre uno dei massimi studiosi del diritto pubblico internazionale comparato, nonché preside onorario della Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari.
Aveva iniziato da molto lontano la sua ricerca: dai direttori del Brumaio francese, primi rudimenti applicativi delle teorie di Montesquieu, alle democrazie liberali dell’ottocento post-quarantottino, passando per le democrazie pluripartitiche e distinguendo queste ultime tra presidenziali e monarchiche, senza tralasciare le numerose repubbliche e monarchie parlamentari.
Si era soffermato quindi sulle democrazie a partito unico, che con un ossimoro occulto erano state definite del centralismo democratico e su quelle popolari, distinguendo le americane da quelle asiatiche ed evidenziando come sia le une che le altre. confinassero paurosamente con i modelli dittatoriali. Qui, per la verità, il vecchio professore lo aveva messo tremendamente in crisi, facendogli notare come certe repubbliche centro e sudamericane, oppure anche dell’area mesopotamica, assomigliassero in apparenza più a democrazie dirette, fondate sull’acclamazione, che non a democrazie indirette.
Ma poi si era accorto che rischiava di non finire mai, se si fosse attardato a trattare per suddivisioni geografiche o per sottosistemi, le diverse applicazioni pratiche dell’originario modello francese di fine ‘700.
Si sarebbe quindi limitato a mettere in luce gli aspetti patologici che la pratica applicazione di quell’unico, imperfetto modello di democrazia aveva posto in rilievo. E così la paura di addentrarsi in un dedalo senza uscita e l’impronta asettica indicata come preferenziale dal vecchio relatore, lo convinsero ad abbandonare l’originario ambizioso progetto, per limitarsi ad un’elencazione quasi diacronica dei fatti.
Periodo 1: il paradosso delle monarchie; la molteplice origine e la diversa elezione dei bracci parlamentari: il braccio del sovrano, il braccio della borghesia e, più tardi, il braccio del popolo;
Periodo 2: il potere dei potentati legali e la sovrapposizione di quelli illegali;
Periodo 3: la primazia del partitismo; il soffocamento delle istituzioni e l’esautoramento tacito dei Parlamenti;
Periodo 4: i partiti trasversali e le lobby;
Periodo 5: tra associazioni consortili, multinazionali e poteri mediatici.
Con la sua ricerca era arrivato a buon punto. A ben vedere i cinque periodi abbracciavano i due secoli e passa che costituivano lo spettro temporale della sua tesi.
Nella struttura interna della sua tesi essi erano in realtà dei veri e propri capitoli e si suddividevano poi in sottoperiodi, paragrafi e sotto paragrafi.
Di materiale ce n’era d’avanzo. La sua tesi aveva una consistenza alquanto voluminosa. Ormai era giunto al Quinto Periodo
Curiosamente, all’interno del quinto periodo aveva affrontato quel mattino un caso alquanto curioso: l’elezione di un candidato, primo assoluto della lista più votata, che risultò essere “persona inesistente”!
A tal punto si era aggrovigliato il nostro modello di democrazia! I partiti e i gruppi di potere, se volevano, potevano fare eleggere anche delle persone inesistenti! Degli alias, delle persone immaginarie, create a tavolino.
La domanda però, era: chi avrebbe gestito quel consenso? Chi si sarebbe presentato in Parlamento se quell’inganno non fosse stato scoperto? E, soprattutto, quanti altri casi c’erano di candidati vittoriosi che non esistevano nella realtà?
Era curioso davvero di sentire che cosa ne pensasse il suo relatore, il prof. Tarbesi.
Non avrebbe certo potuto contestargli, questa volta, che la sua tesi non fosse un romanzo; quel caso era vero e documentato, anche se pareva tratto da una storia di fantascienza.
sez. b, accetto il regolamento
Quando ho visto i tuoi occhi
Quando ho guardato
nei tuoi occhi
mia Juana,
mi sono perso nell’infinito:
essi mi parvero un mare
non pieno d’acqua
ma colmo di sogni.
sez. a accetto il regolamento
Quanto più scavo, scevro da pensieri, non più mosso
da passioni, non più Barbaro in balia di sentimenti,
m’addentro in quel viso Orfano e cedo alla caduta
il passo leggero di un volo accennato.
Da quando sono nato ho sempre più esplorato
per compiere nel sorgere d’occhi Preziosi
quel che amo e difendo tenendolo stretto,
importando doni per crescere nel percorso
di miglioramento e mi addormento anche
perché sveglio dalle tre e ho mangiato
solo pane, perciò poco ma è l’essenziale
per vivere sereni e realizzati.
sez. a accetto il regolamento
Richiedo giustizia per la vita
Non sarà mai vano il tentativo di urlare
parole vere, spinte dal cuore,
a cercare l’ascolto, sì! Anche il più lontano!
Non siete forse stanchi di vivere nel gregge
senza più visioni autentiche.
Forgiate parole come spade ardenti, pronte
a colpire spalle deboli di uomini umili e fiduciosi!
Non vi basta vedere per le vie, lo sterminio
negli sguardi sempre più smarriti e frustrati,
direi sì, traumatizzati, quasi spenti,
mantenuti in vita dall’ultimo respiro
di questa candela che dal suo steppo,
emana ancora l’ultima speranzosa fiamma!
Non vi bastano le morti di donne
che han creduto nel sacrificio dell’Amore, perché sole!
Abbandonate soprattutto dalla legge!
Io ho giurato, sì l’ho fatto
davanti a un Murales in uno stanzone:
“La legge è uguale per tutti!”
Per rispetto verso la storia di questo insegnamento
non sono esploso in una sonora risata, perché,
fosse stato per chi penoso si gonfiava arguto
su quella prospiciente poltrona,
guardandomi come fossi un burattino,
l’avrei sputato in un occhio, per il suo alloro spropositato,
dinanzi all’ingiustizia cui libera!
Non siete forse stanchi di ripetere
nei vostri silenzi quel grosso: Vaffanculo vita?
Non siete stanchi di vedere pover uomini,
amici, parenti o anche solo conoscenti,
tuffarsi nel vuoto dei loro bui silenziosi,
schiantandosi su quella terra, dove,
non germoglierà più il suo fiore più bello della vita!
La persistente fiammella di questa candela
ci invita all’abbraccio dell’ultima speranza
per tornare a godere delle nostre vere esistenze.
Allora, fosse solo per un giorno,
fermiamoci tutti insieme e urliamo basta!
Un giorno basta a fare crollare il potere corrotto…
Niente serrande alzate, niente auto, niente viaggi!
Lo ricorderemo come il giorno della riflessione,
della “rivelazione” del popolo italiano unico Sovrano!
Dimenticavo!
-Sono italiano, non definitemi involuto-
Purtroppo non ho fatto in tempo a imparare
tutto ciò che anni di storia di Letteratura italiana
avrebbero voluto insegnarmi, che inserite
nei vocaboli. tra la dolcezza e l’eleganza
della mia lingua, parole anglosassoni;
fredde, dure e disturbanti al mio udito…
Se credete nell’evoluzione
fondetevi con le vostre anime
e mandate a fanculo codesto penoso andare…
Assumete quella responsabilità
di diffondere l’Amore e chiedo scusa,
se lo scrivo con l’iniziale in maiuscolo.
Perdonate questo poetare tra grida, lancinanti.
Ho finito e m’inchino a voi tutti.
Vostro servo della parola.
sez. A, accetto il regolamento
IERI, OGGI E DOMANI di Sandra Ludovici
(Stalag VI F – Bocholt – Germania)
27 Germania 2024 – Giorno della Memoria
Un canto
biancore urlante
implora il silenzio,
qui,
dove un tempo ululava
l’umana nebbia d’infamia.
E ancora, e ancora il perché
struscia
nel fango viscido,
sotto i piedi marci,
nella pioggia dell’oltraggio,
lo sputo e l’insulto
dalle fetide bocche.
Ora, quel vento di stracci
sulle ossa vaganti
di nuovo fischia insolente
sui cuori spinati,
smembrati
di pelle e di sangue.
A mio Padre
Sezione A – accetto il regolamento
Figlio
Figlio arrotolato sul divano
L’estate lontana
L’addio spina nella pelle
La bottiglia vuota nell’armadio
I messaggi nel buco nero della rete
Mamma tu che sei una donna
Se non risponde non ti vuole
La discesa nel pozzo del dolore
Gli amici sulla porta
E ‘ quasi primavera
L’esame andato bene
Gli occhi che si accendono
Le labbra che si schiudono
Figlio…
Sez. A accetto il regolamento
AFA
Afa. E voglia non ne ho.
Corre acqua tiepida dal rubinetto;
Il lavandino sporco, i piatti da lavare,
polvere, zanzare.
Afa. E’in casa, dentro di me, e non c’è goccia che basti.
Il verde dei pini scuri e i tigli in fiore,
è abbagliante, come il sole e poi…
Odore dolciastro, nel naso incastrato,
vento caldo e pensieri prosciugati.
Solo giorni in cui il sole non ne ha mai abbastanza
Afa.Si prende tutto, anche ciò
che serve a questo cuore per sbocciare.
Afa. Le mie gambe, sono libellule
e allontanano questo corpo
dal nero asfalto squagliato.
Eppure, ti ho aspettata tanto estate.
Ho cantato che ti ho odiato ma,
le emozioni più forti sono le tue.
L’amore che gira e rigira;
Le onde e le mie pene ,
Farfalle,api e falene,
La voglia di non dormire,
restare in giro ed esplorare.
Scusa estate ma ti odio per l’afa.
L’afa che ho dentro, voglia non ne ho.
sez. a accetto il regolamento
AMOR CH’A NULLO AMATO
Sembra anacronistico pensare
che amo la tua voce e il tuo sorriso
che non so a che ora t’addormenti
e se lo fai disegnando il mio viso,
sembra una follia pensare
che non so della tua bocca e le tue mani
ma sento il tuo respiro sul cuscino
e il tempo che ferma altri domani,
forse non accontento i moralisti
se canto la mia canzone a tarda sera
e trepidante aspetto che mi chiami
con il cuore che suda e l’anima leggera,
forse non è concesso dall’ipocrisia
che tu possa volare da me nel vento
e che mi abbracci e baci, e sono tua
mentre lei sorride e ti sta accanto,
sembra sciocco sentire che mi manchi
e che ti manco nell’identico momento
che ci stiamo pensando ad occhi chiusi
e viviamo nell’aria l’identico tormento,
forse siamo soltanto innamorati
e inseguiamo un sogno della fantasia
che trasgredisce regole e parabole
perché la vita è ora, è tua, è solo mia.
Maria Carmela Dettori (Maricà)
Sez A – Accetto il regolamento
BARZUM
Driiiiiiiiinn!
Dal citofono:
-Si? chi è?
-Sono Barzum
-Un extra-comunitario?
-In un certo senso, ma no, sono un extra-terrestre, signora. Sono di passaggio e vorrei chiederle un’informazione
-Si, e io sono Madre Teresa
-No, lei non è Madre Teresa, che è pure morta, lei è la sig.ra Pampini.
-Come ha fatto a indovinare?
-Cosa, che lei è la sig.ra Pampini o che Madre Teresa è morta?
-Senta, lasciamo perdere, cosa voleva chiedermi?
-Volevo chiederle dove posso parcheggiare la mia astronave e se mi offre dell’acqua!
-La sua cosa?
-La mia astronave… non è così che chiamate le macchine aliene? Su Cambriaromb le chiamiamo Remb.
-Immagino che lei parli le nostre lingue in virtù di qualche marchingegno tecnologico superprogredito?
-No, nasciamo così, con incluso il traduttore automatico. Mi dice dove posso parcheggiare la mia Remb? Si affacci, le sto parlando da dentro e da dentro ho suonato il campanello, il primo che il sensore ha individuato, ma non caso.
Al secondo piano una finestra si apre, il sensore capta una faccia pietrificata con occhi allucinati-
-Mi crede adesso? Su, si riprenda, non sono un nemico.
-Ah beh… -guarda giù- ma…perché nessun altro si stupisce?
-Perché mi vede solo lei, Erica, vi scegliamo attraverso un sistema di intercettazione dei vostri sensori neurologici. Però, non possiamo scomparire materialmente, quindi, gentilmente, può dirmi dove posso parcheggiare la mia Remb?
-Guardi, io non lo so se sto sognando o impazzendo, ma… con tutti i suoi sensori, non se lo capta da solo un parcheggio?
-No, Erica -replica paziente Barzum- non posso concentrarli su più di due obiettivi, perché con tutti i disturbi atmosferici che avete generato da secoli, il dintorno non viene individuato con precisione. Sa, non credevamo foste così stupidi da rovinarvi l’ambiente che vi dà la vita. Dovrò lavorarci, ma ora mi serve un parcheggio e acqua, soprattutto acqua, molta acqua… quest’atmosfera inquinata mi sta disidratando!
-Pure pretenzioso e schizzinoso! Quale sarebbe il secondo obiettivo?
-La sua casa, e lei! Ora mi aiuta, per favore?
-Ok, viri il suo…volante a destra, a circa 400mt c’è un ampio terreno abbandonato.
-Bene…e nel suo giardino c’è posto per una navicella grande quanto una vostra automobile?
-Si, ma guardi, l’avviso… se ha brutte intenzioni manco s’avvicini, sto chiamando la polizia!
-Che diffidenza! Ho solo bisogno d’acqua pulita, poi le spiego tutto!
Erica rimane alla finestra, in attesa. Poi vede una piccola navicella a forma ellittica adagiarsi nel giardino.
Driiiiiiiin.
-Mi fa salire?
-Guardi -titubante- le ripeto….
-Si, ho capito, vengo in pace e voglio solo acqua…e spiegare.
La porta si apre. Erica lo guarda interdetta: un pezzo di figliolo da levare il fiato.
-E lei…sarebbe un alieno?
-Lo sono, di che si meraviglia? Mi fa entrare?
-Ma è uguale agli umani… tra i più belli che abbia mai visto! Entri, si accomodi.
-Perché avrei dovuto essere diverso? Posso bere?
Erica gli indica due bottiglie di acqua minerale
-Tutta per lei…anche altra, se non basta.
-Grazie, le dico: l’Universo è pieno di pianeti popolati, razze tutte uguali, tranne che per il colore della pelle, che cambia a seconda del clima, della vegetazione e… dei sentimenti! I colori sono i più disparati. Voi vi chiamate uomini, gli altri popoli nel corrispondente del loro pianeta
-Il colore cambia a seconda dei sentimenti?
-Si, non tutti i pianeti vivono in pacifica convivenza, alcuni sono in pace, altri si combattono tra loro, come fate voi, stolti! Ma la pelle dei piccoli, bambini come li chiamate voi, qualunque sia il colore del clima in cui crescono, è sempre luminosa, si offusca a poco a poco per le paure e i pensieri negativi, ma se la loro anima è buona non perdono mai del tutto la loro luce.
-Si, però non prendertela con me. E tu -passando d’istinto al tu- come mai sei qui? E perché non luccichi nemmeno un po’? Sei cattivo?
-No, è colpa vostra… per entrambe le cose.
-Nostra?
-Si, io stavo tranquillamente gironzolando intorno a Cambriaromb quando una tempesta magnetica anomala mi ha tolto il controllo e trascinato qui. State facendo gravi danni al vostro pianeta, con guerre, esperimenti, rifiuti tossici… incoscienti e stupidi, quando non malvagi! Il sensore ti ha individuata, ed eccomi qua, incastrato, e non luccico perché qui l’aria è scura e offusca anche l’anima.
-Non sono mica sicura che tu sia un extra-terrestre… però le tue macchine… e le vedo solo io! Sarò pazza?
-No, non lo sei. E ora devo andare. Grazie, Erica, un giorno forse potrà esserci l’incontro tra popoli diversi programmato in pace, quando la pace l’avrete trovata tra voi e in voi stessi. Ora devo rientrare, ti chiedo solo ancora acqua, sino ad uscire dalla vostra tossica atmosfera. Ti lascerò in dono la mia Nremb parcheggiata là fuori, puoi vederla solo tu… custodiscila bene!
-Ma…cosa posso farne? Non posso nemmeno usarla!
-Per ora no, custodiscila, non si deteriorerà, nonostante voi. Un giorno i vostri figli o nipoti potranno usarla.
-Ma con quale carburante?
-Ne avete in abbondanza, solo che dovrete depurarlo per bene, così com’è oggi non funzionerà!
-E cos’è?
-L’Amore. Tu sei stata captata dai sensori perché dentro di te ne hai una buona scorta, buona, ma non sufficiente per alimentare la Nremb.
Nel salotto illuminato dal sole, Erica è scossa da una mano che le carezza il volto, e da un bacio.
-Buongiorno, amore, ti eri riappisolata?
La voce di Andrea le suona come un flauto nel bosco.
-Credo di si, e pensa…ho fatto un buffo sogno su un alieno
-Alieno? Forse quello che in giardino ha lasciato un tappeto di margherite attorno a una fontana a forma di navicella spaziale e delle magnifiche ninfee? Come hai fatto tutto questo in due giorni che mancavo?
Erica tace, si affaccia sul giardino ed è tutto vero, la Nremb spicca in mezzo alle margherite. Solo lei può vederla e…il bimbo nel suo grembo. Non è un sogno. Alza gli occhi al cielo, e le sembra più limpido.
-Ti amo, Andrea, il bimbo inizia a scalciare.
-Ti amo, piccola folle Erica.
Maria Carmela Dettori (Maricà)
Sez. B- Accetto il regolamento
Lungo è l’inverno
È imbrattata di sangue
la neve
raggrumata tra cenere
e schegge
calpestata da orme
assassine.
È un inverno lungo
col sibilo gelido
del vento di guerra
che rintrona
tra macerie e carogne
e terrorizza i bambini.
È soffocato dallo sgomento
il cuore
che accelera i battiti
e corre verso la libertà
che anche la morte
fa apparire più bella.
sez. A, accetto il regolamento
Non ci resta che la poesia
per parlare di noi.
In questa vita
che ci mette davanti
solo guerra e violenza,
differenze e rivalità,
ci salveranno l’amore,
i versi dei poeti,
il sorriso dei bambini.
E gli abbracci di chi sa
cos’è la solitudine.
Non c’è che la poesia
in noi.
© Daniela Giorgini – Sezione A – Accetto il regolamento
PASSione VIVente
Vorrei suonare il tuo corpo come fosse la tastiera di un piano.
Farei vibrare le tue corde con il mio desiderio infinito.
Avvicinati, afferrami, abbandonati alla passione che tutto divora.
Perdiamoci in una danza sensuale, di corpi nudi intrecciati, di sospiri sempre più flebili.
Diventiamo un tutt’uno.
Liberi.
Innamorati.
Folli.
sez. A accetto il regolamento
UNA PASSEGGIATA AL MARE!
Ieri, domenica 17 gennaio, una bellissima giornata di caldo tanto desiderato e ancora le tanto care vacanze estive, dove tutti corrono al mare, l’oceano sconfinato che accoglie nelle sue onde ballerine, grandi e piccini, per levare d’addosso il sudore che ci regala il caldo sole d’estate, che anche che non è tutti i giorni, quando arriva si cerca l’aria condizionata o il mare aperto per sopportarlo.
Con una coppia di nostri amici, abbiamo deciso di partire verso Dromana alle ore 9.00 tutti e quattro allegri e spensierati, ci siamo messi in macchina e siamo partiti cantando, insieme alle canzoni che la radio italiana trasmetteva.
Ci siamo fermati a Frankston, alla chiesa di S. Francesco, dove un nostro caro amico prete diceva la messa, lui, prima era nella chiesa S. Martin vicino casa nostra, un giovane indiano tanto gentile e amico di tutti; dopo la messa lo abbiamo salutato e abbracciato e la sua sorpresa nel vederci è stata così grande da invitarci a prendere il caffè insieme.
Abbiamo così deciso, di organizzare un bus turistico alla nostra chiesa di St. Martin in Avondale Heights, con tanti amici contenti di andare a trovare il nostro prete, e dopo la messa andare tutti al ristorante per pranzare e poterci divertire e scambiarci le nostre opinioni e progetti futuri.
Dopo abbiamo proseguito per un’altra oretta, con il mare che correva a fianco a noi scintillante d’azzurro, colmo di persone che facevano i bagni e si rincorrevano felici, tra le onde bianche di soffice schiuma. Ci siamo fermati a Mornington, in un bel ristorante italiano per prenderci il caffè, poi ci siamo messi a passeggiare per le belle vie con tanti negozi e ristoranti e tantissima gente indaffarata, a guardare tutte le belle cose in mostra nelle vetrine. Quanto sono belle e splendenti le cittadine marittime, le abbiamo ammirate estasiati, ricordando da giovani, quante corse e quanti bagni ci siamo fatti insieme ai nostri bambini, e poi insieme anche ai nipotini, ricordi indelebili della nostra gioventù che ci faceva correre dappertutto con tanta gioia, per far divertire i nostri piccoli tesori nelle spiagge più belle.
Stanchi di camminare, siamo ritornati in quel bellissimo ristorante per pranzare, abbiamo ordinato tanto ben di Dio, mangiato, bevuto, abbiamo passeggiato ancora un poco e poi in macchina verso Dromana, per andare a trovare i nostri amici che ci aspettavano in casa.
I nostri cari amici ci aspettavano sorridenti e pieni di gioia, dopo esserci riposati bevendo caffè, bevande e dolci, insieme tutti allegramente, ci siamo avviati a piedi verso il mare, a dieci minuti dalla loro casa, eravamo cinque coppie, abitavano tutti nelle case accanto con giardini immensi, con grandi tavole apparecchiate sotto grandiosi ombrelloni e tendoni, che riparavano tutto dal caldo sole.
I loro figli e nipoti sono andati per conto loro, noi nonni insieme per altri lidi.
Un mare splendido ci ha accolto tra le sue acque calde e la sabbia morbida e docile, ci solleticava i piedi nudi. Abbiamo nuotato e scherzato per parecchie ore, abbandonati tra quelle dolci onde che ci accarezzavano in tutto il corpo, massaggiandoci le osse un po’ arrugginite.
Una nostra amica ci ha detto, che la loro figlia e il genero erano in Italia, volevano vedere il Natale con la neve che non avevano mai visto, si stavano divertendo girando tante belle nostre città, nonostante il freddo intenso, ma nella maggior parte delle città, specialmente in Sicilia, il tempo era bello come se fosse primavera.
Siamo ritornati a casa alle ore 20.00, anche i loro ragazzi con i loro bambini, sono rientrati poco dopo. I nostri meravigliosi amici di tre case confinanti, e due di rimpetto, avevano preparato la mattina tanto mangiare squisito, accompagnato con tanta frutta, dolci, gelati, vino, birra e bevande di ogni genere, anche una favolosa torta, poi il bel caffè che tutti amiamo.
Erano le 9.30 e ancora era giorno e abbiamo deciso di ripartire per le nostre case a Melbourne.
Bellissimo viaggiare di sera con tutte le luci abbaglianti dei piccoli sobborghi marittimi e dell’oceano, con le barche che andavano veloci sotto le stelle e la luna, in una sfilata armoniosa, verso l’orizzonte lucente.
Tutta la giornata è stata meravigliosa, benedetta da Dio, ed ora in città, con le luci che splendono anche sui numerosi grattacieli e dal casinò, le fiamme che si sprigionano verso il cielo e verso il grandioso fiume Yarra, dai bei fuochi artificiali che ogni sera abbagliano i turisti e la folla che passeggia in giro alle belle vie del casinò, per la Federation Square, ai giardini botanici, St. Kilda Rd. e per tutta la stupenda città di Melbourne, che ha festeggiato nell’agosto del 2015 i suoi 180 anni di compleanno, inoltre la splendida città di Melbourne, è stata eletta per la quinta volta consecutiva, la città più vivibile al mondo.
Alle ore 23.30 siamo arrivati a casa, felici e contenti della splendida giornata trascorsa in una vacanza indimendicabile!
La fine di gennaio, dopo la Festa dell’Australia Day il 26 di gennaio, con cerimonie e spettacoli in tutta l’Australia, scoperta nel 1788, si ritorna al lavoro, finite le bellissime vacanze estive!
Si aprono pure le scuole al nuovo anno e si chiudono ai primi di dicembre.
Un giorno la nostra amica, che eravamo insieme a Dromana, mi telefona per dirmi che la figlia e il genero, erano tornati dall’Italia e avevano portato qualcosa di prezioso che era esposto nel giardino davanti la loro casa, c’invitavano a venirlo ad ammirare.
Difficile a crederci, nella loro magnifica casa a due piani e nel loro magnifico giardino, splendeva, in tutta la sua fulgida bellezza la statua di Davide di Michelangelo, in una copia perfetta.
Si erano innamorati della statua visitando Firenze e l’avevano ordinata ad un grande scultore e poi fatta venire a Melbourne e fatta installare nel loro giardino, siamo rimasti stupefatti ad ammirarla, contemplarla, trattenendo il fiato per la straordinaria sorpresa!
Abbiamo brindato a questo bell’avvenimento con infinita gioia e allegria.
Intorno all’elegante staccionata della casa in mattoni bianchi, c’era un brulichìo di gente e bambini che scherzavano guardando la bellissima statua.
Abbiamo salutato tutti con le mani alzate e il sorriso gioioso e siamo andati via felici.
Ero sempre pensando a questa bellissima idea, di avere in giardino una meraviglia di grande prestigio storico, che i nostri giovani amici avevano realizzato.
Avere un pezzo famoso della nostra Italia in giardino davanti casa, era meraviglioso, attraente, stupefacente e anche commovente. Qualcosa di originale e straordinario avere il Davide in Australia.
Pochi giorni dopo, guardando il news alla tv, ascoltai interdetta ciò che diceva il giornalista:
Una vergogna in una casa a Melbourne, una statua italiana di un bel giovane nudo, fa bella mostra nel loro giardino davanti la casa, una cosa oscena, visto la grande folla che si ferma a guardare ammutolita, questa assurdità di un uomo completamente nudo esposto al pubblico. Specialmente i bambini, le ragazze, i ragazzi, qualsiasi passando da lì, si ferma a guardare e ridere scandalizzati, non si può accettare una simile sfrontatezza, il comune interverrà per rimuovere questa cosa vergognosa, che fa arrivare bambini e ragazzi tardi a scuola e le persone tardi al lavoro, per stare lì a godersi questo stupido spettacolo.
Intanto tutto era trasmesso in tv, anche la casa a due piani e la statua alta e stupenda che troneggiava nella sua sfolgorante bellezza, tanta gente attorno a guardare affascinata la statua.
Rimasi allibita da tutto ciò, guardavo disgustata il video che trasmettevano insieme al telegiornale in tutti i canali, il news era uguale su per giù in ogni canale, per mostrare a tutti quest’evento…
L’indomani, ancora sconvolta, telefonai alla mia amica, mi rispose piangendo:
My darling, non possiamo ancora rassegnarci a capire questo disonesto e assurdo imbroglio, ma non sanno cosa significa una cretinata simile? Ma sono davvero ignoranti? Sai my sweet friend, dopo tanti battibecchi con le autorità, sono scesi ad un compromesso, o coprono la parte vergognosa, o devono rimuovere la statua.
Sai cosa hanno pensato di fare i ragazzi? Hanno coperto la parte della vergogna con una bandiera australiana, così il bel Davide, ha in mezzo le gambe la bandiera australiana.
Il Davide di Michelangelo a Melbourne, è Italo-Australiano!
– sez. b accetto il regolamento
Non ricordo se ho già postato qualcosa…
Geometrie
Ho in serbo per me
poligoni di giorni sereni.
Ho visto nel cielo
i segni dei temporali
che verranno
e che se ne andranno.
Petunie sfiorite
han già lanciato
i semi del futuro
intorno a ottagoni di luna.
E in fondo a pozzi
scuri e profondi
sì specchia il sole.
Lui sta aspettando
il momento giusto.
Sii forte.
Accetto il regolamento
Sez a. Vellise Pilotti
Il Soffio eterno dell’essere ti spinge oltre il tuo stato.
Materia solo materia…
Riecheggiano parole lontane… pensieri futuri, il cuore porta consapevolezza nascosta nelle tue vene decifrata solo dal sibilo interiore nascosto e trovato dall essenza del tempo.
Baluardo di moltitudine di sentimenti eterni in condivisione patente.
O Lacrima di Cristo, bagna il mio viso per placare l arsura del vero.
La potenza di DIO padre onnipotente impegni la mia forza per discernere il divenire.
Nessun attacco sia concesso, nessuna paura.
Poveri Cavalieri di Cristo marciano a 2 a 2 verso le porte del cielo per farvi ritorno e assaporare la fonte della quiete tanto bramata e tanto voluta nel percorso terrestre.
Fonte non concessa per accompagnare solo anime bisognose di redenzione.
accetto il regolamento, sez. B
M’emoziona
M’emoziona sempre la spiaggia mia
quando d’inverno s’appropria degli spazi
e la sabbia è ancor più candida.
Lontani i tempi di grandi folle
a segnare il bagnasciuga,
questa baia è ancora qui
testimone d’umanità in cammino.
Il mare insinua senza sosta,
sagoma addirittura,
rubando spazi a piacimento.
Anche un insolito maestrale
soffia leggero
spargendo sentori del vicino bosco
sicché il mandorlo fiorito e il corbezzolo
e tanti altri ancora
diventano una cosa sola.
Basta chiudere gli occhi e respirar profondo
affiorano sogni, prepotenti istanti,
ritornano a cavallo dei flutti,
in sella a magici refoli, vecchi quanto il mondo
ma ben presenti nella mia memoria.
“”Accetto il regolamento”” – sez. A
Fabiola Murri sezione A accetto il regolamento
Non ti posso insegnare
Non ti posso insegnare il mare
prima del suffragato amore.
Coscienti dell’inutilità’ delle profezie,
schiantati su scogli azzurrini
mordiamo la polpa dei nostri sorrisi,
estasi la frescura su anime insonni
che burrascose ingoiano impeti selvaggi e visioni,
ora sgretolati ora scarni l’uno sull’altro adagiati,
tersi, come spaventosi demoni insoddisfatti
d’ogni tempesta sospesa.
Ronchi Donatella accetto il regolamento, sez a
STUPIDE LE LACRIME
CHE RESTANO INTRAPPOLATE
TRA IL CUORE E GLI OCCHI,
TI FANNO SENTIRE COME UN BURATTINO
DIMENTICATO NELLA SOFFITTA
DEI SENTIMENTI.
Muscoli torniti a dovere e laurea umanistica
acconciatura trendy e barba molto curata
blazer di ottima fattura ed eloquio solidale
ma funziona poco da queste parti
Qui dovrai avere sogni spregevoli
e non pensare a bocche da sfamare,
ore di morte condite di disperazione
c’è solo Thanatos ed un’esile preghiera
Voglio un fiume gonfio di sangue,
la distruzione della reietta Babilonia
spavalde cicogne di metallo temprato
e novanta proiettili docili e lucenti
Davanti c’è il demiurgo della distruzione
con la sua collana di teschi ben levigati,
i suoi poderosi ululati squassano la terra
presto giungerà anche il grande drago rosso
Eccoci seduti per l’ultima sigaretta ingiallita,
impugnati a discutere dei diritti più idonei
io dico che adesso possiamo uccidere
questo è un luogo pieno di morte
Sezione A – accetto il regolamento
DENTRO IL GELO
Si fermarono al margine della grande foresta, di fronte alla sterminata pianura coperta di neve ed inframezzata da macchie di folta vegetazione scura.
Il Re scese da cavallo e si strinse nel pesante mantello, poi tossì così forte da doversi chinare in avanti.
«Altezza” disse il Comandante mentre accorreva.
«Sto meglio, sto già bene».
Il Re alzò la testa e sorrise, avvolto dai fiocchi che cadevano fitti poi sistemò con calma il cappuccio e si massaggiò il petto.
«Bene, è deciso» disse con tono pacato e nessuno osò replicare.
Il sovrano iniziò a camminare con calma; ad ogni passo i piedi affondavano fino alle caviglie.
«Lo lasciamo andare così?» sussurrò il Cancelliere.
Il Comandante serrò la mascella e rimase in silenzio.
Da solo in un’infinita coltre di gelo con dentro un branco di fanatiche stravolte dalle metamfetamine, da qualche parte in quell’inferno bianco.
Il Sovrano aveva percorso una ventina di metri quando si girò e sorrise ancora.
«È deciso» ripeté.
Poi tre colpi di tosse, bruschi e profondi.
Il Comandante ebbe un violento brivido, ma non per il freddo pungente.
Insieme al Cancelliere rimase immobile a guardare il Re che si allontanava nella neve.
Sezione B – Accetto il regolamento
ONDEGGIARE
Ondeggiare d’abeti
di prim’ordine naturale
ondeggiare di piccoli aghi
appesi o caduti
ondeggiare di terra
pastosa fragrante infangata
ondeggiare inquietante
irrequieto di ghiande
di querce o sequoie
ondeggiare di piume
nel nido d’uccelli
ondeggiare di fiocchi
di neve di sole
ondeggiare ondeggiante
di riti danzanti
si posano dentro
indelebili aurore
così ondeggi anche tu
e impari ad oziare
simultanea la pace
sincronia naturale
percepisci il rumore
di tarme al lavoro
di ladies formiche a passeggio
di gatte e fanciulle in amore
di giochi lontani, incalzanti
e il tuo viso alla fine
rugiada in cui annego.
Il tuo viso sereno
ondeggiante.
– sezione A- accetto il regolamento
Accetto il regolamento sez A poesia
Titolo: Alba marina
Ombre frizzanti,
vaghi colori mossi dal vento
da opachi bagliori,
nel tenue profilo del mare.
Salienti
Brine…
Albori evanescenti,
al levare del magico disco,
nel riflesso prismatico.
Tra i flussi,
Scintillio sprizzante
e bagliori nascenti…
Gioia, che occhi pregna d’infranti prismatici.
Rime e colori spontanei, dai sorgenti marosi,
sbuffano cristalline sorgenti d’ azzurro perlaceo.
Risplende tra spume e gocce smeraldine
il bianco a fluire nell’increspare…
le onde
a cozzar un tumulto grandioso,
sta lo scoglio,
a risponder
un esploso di mille colori.
mp47 Pasquino
Accetto il regolamento sezione A
La seggiola della giovinezza
Voglio essere una vecchia donna
Seduta sulla seggiola.
Sono stanca di correre
E di affannarmi.
Non voglio essere moderna,
Sono vecchia ormai.
Di doloranti articolazioni,
anelo il riposo e la seduta.
Lasciatemi con voi,
datemi solo
della cicoria da pulire,
dei calzini da rammendare,
un sugo da girare.
Pregherò per voi
Grani del mio rosario,
Incessanti come la pioggia
Di novembre.
E al ritorno della sera
Ascolterò la deriva della
Vostra giornata
Onda sbattuta sullo scoglio
Del mio bastone.
Voglio essere una vecchia donna
Seduta sulla seggiola.
Vi guarderò ancora
E sarò felice.
Titolo: Luna
Vi ho visto festeggiare.
Vi ho visto amare.
Vi ho visto pensare.
Vi ho visto piangere.
Vi ho visto sognare.
Vi ho sorvegliato.
Vi ho aiutato con la mia luce
a combattere il vostro buio.
E al tramonto di questa notte,
finisco il mio turno,
con una fantastica alba.
Autore: Fabio D’Alessio. Dichiaro di accettare il regolamento del Contest. sez a
Un “fiore” tra le mani
Come è strano l’uomo
in piedi su una croce
senza vesti
senza difesa
senza un perché
sotto un cielo che trema
e insegna alla fragile carne
che il lamento è umano…
come è strano l’uomo
in piedi su una croce
in un bianco e nero di nuvole cariche di pioggia
in una quiete smarrita
incerta
dove solo la preghiera
e il pianto stremato di una madre
hanno la stessa voce …
come è strano
che ogni uomo porti la stessa croce
quando i fianchi
siedono sul dolore
quando occhi docili e spenti
raccontano ciò che ora non è
agli angoli delle strade
spezzato
ma non sconfitto
lui chiesa
lui rifugio
lui, che esiste ancora,
con un “fiore” tra le mani
degno di quel nome…
Angie Patti Picciolo
sez. a accetto il regolamento
Giungendo …
In questo mare
Sballottati come fragili barchette
Incapaci di tenere testa
Alla tempesta
che da un momento all’altro
potrebbe sommergerci
Certe volte un’ondata d’incertezza
Mi travolge sbattendomi violentemente
Sugli scogli dell’ovvietà
Un’aura di malinconica
Mal celata in allegria
Mi avvolge
Mi stravolge
Giungendo sempre
alla medesima conclusione possibile …
sez. a, accetto il regolamento
Bella!
Il sentiero della notte (Sez. A – Accetto il regolamento)
Cala il sipario sul giorno.
Solo con il mio respiro mi spingo
nell’aria fredda della sera.
Fra poco la terra sarà un impasto nero,
di mota bagnata.
E quando la paura aguzzerà
i suoi denti ascolterò
la storia che il vento bisbiglia
tra le foglie del bosco;
ascolterò le sue filastrocche,
le ninnenanne,
le sue nenie imbronciate e silenziose:
parlano tutte del buio
che s’appressa ai tetti delle case;
parlano sempre di un bimbo
che ha paura della notte;
sussurrano piano al cuore di quel pargolo
che si è perduto nella foresta.
Un passo dietro l’altro ascolterò,
il vento e le sue nenie,
il vento e le sue ninnenanne,
il vento e le filastrocche
il bosco e i suoi silenzi ascolterò;
al ritmo lento del mio cuore di viandante
in un tempo oramai incantesimato
vedrò le ombre confondersi nell’unica
grande ombra della notte.
IL MIO SOGNO DA BAMBINO CHE NON HO MAI DIMENTICATO (SEZ B
accetto regolamento)
Questo racconto rappresenta un mio sogno reale, vissuto da bambino, avevo i miei quasi nove anni, frequentavo le elementari, avevo perso papà da qualche mese.
Un sogno che raccontai subito a mia madre il giorno dopo al risveglio e che ripeto più volte ai miei amici più cari, questo ha fatto sì che a distanza di cinquant’anni l’ho ancora in mente, come se l’avessi sognato la notte scorsa.
Il luogo era il mio quartiere. Ponticelli, dove sono nato, cresciuto, dove ho trovato l’amore, mi sono sposato, ho avuto due figlie, studiato, lavorato e ancora oggi vivo.
Ponticelli è la mia vera patria, altro che l’Italia, che conosco per la maggior parte sulle cartoline, perché chi ha la serenità interiore ha sempre poca voglia di evadere o di andare a scoprire nuovi luoghi, anche le vacanze estive non mi allontanano mai dalla regione Campania, da ben 21 anni le godo nella Zona Lago di Santa Maria di Castellabate.
A Ponticelli, cittadina napoletana abitata soprattutto da contadini e operai, tutti eravamo felici, tutti ci sentivamo parenti, nei vicoli, nei cortili, nei bassi, spesso ci si metteva a tavola in dieci o anche più, assieme ai vicini di casa e ai loro eventuali parenti, visitatori occasionali, ci si offendeva se andavano via senza sedersi con tutti gli altri.
Anche nel mio sogno tutto era così bello, nessuno criticava l’altro, erano tutti sereni e sorridenti.
Si cantava e si scherzava, bastava un niente per ridere a crepapelle, magari grazie ad uno strafalcione detto dal più tonto della compagnia o dal più ignorante, che rideva a sua volta, senza mai offendersi. C’era un grande spirito di gruppo e di autoironia.
Mentre stavamo tutti seduti al tavolo del compare Turillo e della comare Maria, nel cortile di via Napoli 95, zona Santa Croce, a un tratto la signora Amalia Picardi (proprietaria dell’appartamento in cui vivevo con la mia famiglia), moglie del cantiniere Romeo, ci chiamò da lontano, invitandoci all’uscita del cortile, per osservare un tizio, un estraneo che indossava un vestito trasandato e che si fermò a bere alla grossa fontana zampillante della nostra piazza Ruggiero Bonghi.
Quando arrivava uno non del posto, attirava sempre l’attenzione degli abitanti.
Si stava dissetando alla fontana che è stata la fonte refrigerante per tutti noi per interi decenni, soprattutto per noi bambini che giocavamo nei cortili col pallone e, quando ci stancavamo, facevamo a gara, per vedere chi ci arrivava per primo, tuffandoci sotto il suo getto d’acqua gelata, prima con la sola testa e poi interamente, aumentando la potenza del getto, e ci bagnavamo a vicenda facendo baldoria e chiasso a più non posso, sempre ridendo a crepapelle.
A quei tempi, per noi, anche chi veniva semplicemente da un’altra città, da una diversa provincia o una regione limitrofa era uno straniero (così come oggi definiamo soltanto chi viene da un’altra nazione).
Lo straniero aveva una faccia tristissima, ai miei occhi di bambino sembrava addirittura severo, mi metteva soggezione, avevo persino paura di avvicinarmi troppo.
Di carnagione scura, capelli ricci, anche se lunghi e spettinati.
Si avvicinarono a lui, invece, decisi e diretti, “Papuscio”, lo zoccolaro del quartiere (costruttore di zoccoli di legno per contadine), e “Peppe ‘e Vavarella”, il fruttivendolo, che aveva il suo “puosto” (l’esposizione di cassette con la varietà di frutta e verdura) proprio sotto il portico del cortile accanto alla fontana.
Vedendolo triste, silenzioso, imbronciato e con lo sguardo rivolto verso il basso, gli chiesero: «Chi siete bell’uomo? Da dove venite? Che cosa cercate?».
Lui rispose che c’era arrivato per caso, aveva vagabondato per giorni, veniva da lontano, ma non disse da dove, soltanto che non lavorava, che era morta sua moglie, che non aveva figli, né familiari e non sapeva più dove andare.
Man mano che passavano i minuti, anche altri abitanti della zona si avvicinarono, si fece una piccola folla intorno a lui e, forse, un po’ per vergogna, un po’ per soggezione, lui abbassò lo sguardo sempre più e, con labbra tremanti, sembrava volesse quasi piangere.
In quel momento, arrivò in piazza un venditore di freselle, col suo bel carretto trainato da un cavallo.
Ancora oggi ho la sua fisionomia ben delineata nella mia mente, ma non ricordo il nome, forse nel sogno non l’ho mai saputo.
Scese dal carretto, si fece spazio tra la gente e, dopo essersi fatto raccontare l’accaduto, per provare a dargli coraggio e conforto, disse all’estraneo: «Se la smetti di stare triste, se mi fai un sorriso, ti regalo una bella ciambella» (che era detta, in dialetto napoletano, “vascuotto”).
Quando in casa mancava il pane fresco, noi ponticellesi amavamo sostituirlo mangiando una fresella, un “vascuotto”, che si ammorbidiva in acqua e sprigionava subito il suo fragrante sapore.
Era uno dei prodotti tipici della Campania e si chiamava biscotto nella sua forma dialettale perché, nel crearlo, era cotto due volte, bis-cotto, per dargli croccantezza e per farlo durare più tempo, senza diventare raffermo.
Solitamente si preparava con farina integrale e una dose di segale e col criscito al posto del lievito di birra.
Lo straniero lo guardò senza parlare, lo fissò e, comprendendo che il venditore faceva sul serio e non voleva deriderlo, accennò a un timido sorriso.
Notai subito i suoi denti bianchissimi, che venivano messi in risalto ancora di più per la sua colorazione di pelle scura.
Per questo gesto benevolo non ottenne solo la ciambella ma Peppe ‘e Vavarella, il fruttivendolo, gli prese subito un pugno di pomo-dori, glieli lavò alla fontana, inzuppò pure la fresella e ci strofinò so-pra i pomodori, facendola diventare rossa, saporita e invitante.
Lo straniero se la divorò in meno di un minuto! Quando incominciò a farsi buio, Papuscio gli permise di dormire nella sua bottega, creando un accogliente giaciglio con i sacchi pieni di segatura che teneva in vendita, per evitare di farlo viaggiare di notte senza avere una meta, un posto da raggiungere.
Al risveglio, si lavò la faccia alla fontana e chiese agli abitanti, che erano stati così generosi con lui, se poteva restare a Ponticelli.
Nessuno osò rifiutargli l’accoglienza.
Restò da noi, volle incominciare a rendersi utile, a meritarsi cibo e alloggio, scoprimmo che era un buon artigiano, riparava di tutto in casa, il rubinetto del lavandino, il piede del tavolo, i pioli delle sedie, la serratura della porta.
Tutti gli abitanti di Santa Croce seppero di questo suo cambiamento, di questa sua voglia di fare, eravamo felicissimi per questo, oramai lo consideravamo uno di noi.
Finalmente tutti imparammo il suo nome: Michele.
Incominciando a guadagnare pure qualche soldo col suo lavoro, riuscì ad affittare un vano a piano terra in via Napoli e incominciò a fare il calzolaio, riparava scarpe, scarponi e zoccoli (che costruiva Papuscio).
Lavorava e cantava, col suo strano accento che affascinava tutti, incominciava a essere lui, ora, quello che al mattino invogliava gli altri a sorridere alla vita, ai primi raggi di sole, a cantare e gioire assieme agli altri.
Aveva un sorriso empatico, bello da vedersi, contagioso.
Un giorno, io e un altro bambino, il mio amico Franco (figlio dei fornai Salvatore e Iolanda La Mura), stavamo giocando e scherzando nei pressi dei regi lagni, in uno spiazzo verde, nascondendoci dietro le piante più grosse.
Trovai un grosso girasole e m’inginocchiai, mettendomi con la testa sotto il fiore.
E mentre me ne stavo in silenzio per non farmi scoprire da Franco, alzando gli occhi verso l’alto, mi ritrovai Michele che mi osservava.
Mi chiese: «Ma cosa ci fai là sotto?». Gli dissi che stavo giocando a nascondino con il mio amico e lui, senza che io glielo chiedessi, mi rivelò che nel pomeriggio veniva sempre in quel posto ricco di girasoli, perché amava vedere come si giravano col capo verso il sole e diventavano ancora più luminosi e belli da ammirare.
Mi fece sedere al suo fianco, su una collinetta di terreno, che ci permetteva di osservare il campo da una posizione più alta e, mostrandomi come tutta la zona ombrata diventasse ricca di luce con l’arrivo del sole e i girasoli che ne esaltavano i raggi, Michele m’insegnò che bastava saper aspettare il momento giusto e la vita ci avrebbe sistemato tutti i guai, ci avrebbe aperto la porta verso il futuro, ci avrebbe mostrato la via più bella per noi.
Era tutto vero: anche i girasoli erano premiati dall’attesa col capo rivolto verso il sole, diventando meravigliosamente belli e luminosi!
E la gioia, il divertimento, il sorriso, sono contagiosissimi.
Michele arrivò nella piazza di Santa Croce, a Ponticelli, solo, triste e desolato, conobbe il nostro sorriso, la nostra gioia di vivere, restando con noi fu costretto a frequentarci, a somigliarci, si contagiò con i nostri sorrisi e le nostre grasse risate anche per cose banali, fino a diventare lui stesso uno dei più allegri del quartiere.
Dopo quasi cinquant’anni da quel meraviglioso sogno, Michele vive ancora in me, mi tiene compagnia, esce ogni qual volta ho un nodo alla gola, in ogni momento triste o stanco della mia giornata, compare col suo magico sorriso, mi osserva, mi fa la linguaccia, un occhiolino e comprendo che mi sta ricordando che, per stupidaggini, non vale mai la pena di rovinarsi la giornata.
Mi reco in bagno, mi pongo davanti allo specchio, faccio anch’io una linguaccia, un occhiolino alla mia immagine riflessa, ringrazio Michele e torno a sorridere a me stesso e alla vita.
(Sergio Sito)
Sezione A (accetto il regolamento)
PERCHÉ…
la tua vita
appesa ad un filo
sottile,
non regge più
il peso delle
tue sofferenze
un bagaglio invisibile
ad occhi poco attenti
che pesa come
un macigno a
chi ti tende la
mano
Mi guardi cercando
risposte
chiedendo come
un bambino
i tanti
“Perché “
Non posso rispondere
ai tuoi “perché “
voglio farti sognare
un mondo che
per te non c’è
Ti racconto
di albe dorate
e tramonti infuocati
ti parlo di boschi
incantati
e folletti arrabbiati
e con mani tremanti
mi rendo conto
che non so rispondere
ai tuoi tanti
perché…
Perché…
Teresa Argiolas
Accetto il regolamento,, sez. A
Metafisica delle distanze
È arrivato il sogno come un treno lungamente atteso
in cui mi sono visto i piedi, seduto sulla riva
del fiume, accanto a me un uomo magro;
stranamente allegri i cieli di novembre
avvolti nella pianura ipertrofica.
Acqua cristallina sotto i miei occhi scorre,
carsica acqua sudicia è la coscienza occidentale
come olio di ricino calcificato
sulle mura di una città abbandonica, ferme,
in una piazza, una colonna d’Ercole,
una statua, delle biglie, una sedia antica.
La sbarra di un passaggio a livello
separa il sogno dal poter dire,
dalla veglia del desiderio.
Adesso l’uomo magro in piedi
con gentilezza mi chiede i giorni,
lui, apre per me i cancelli
e sono dentro: come stai?
Il sogno non dice come dalla landa desolata,
dalla pianura, che si estende ai giacimenti
di estrazione, si giungesse sotto i portici
di Bologna fino a soffocare nel grigiore
assolato di una domenica a Ferrara
Dico: ” padre, per adesso è così
ma non dispero”, e capisco il fiato
corto del tuo dire, la voce rotta
d’ospedale che appanna il vitreo
mancare delle ore, nel sonno
finalmente sereno della morte
nei miei tredici anni, la puttana
di famiglia stretta nel nodo di cravatta
che ancora strangola il tuo sorriso
e le mie stanze di disertore dove
infelicità e amore muffiscono le pareti
Qui, in questo dentro, dove
ogni cosa è amore e dolore
io mi taccio, mentre l’uomo magro
con l’abecedario in mano
ti evoca, in me si alzano figure
che dal bordo onirico avanzano
alla storia, corpi magri come cristi,
anime di sole ossa, nella violenza
dei giorni di Fausto e Iaio:
Primo Levi, poi Pasolini, la Rosselli,
tutto attorno a loro
è cieca meraviglia e non speranza,
colore sul bianco e nero del superotto
Non c’è auspicio alcuno, non tristezza
o morte che sappia morire nel mio cuore
che dentro te ci sia un pallore, un affanno
di pane, un morso di vita in sorsi
per i miei occhi di fanciullo vecchio.
Così si chiude il sogno, prima di poter dire
e solo dopo aver sognato, la pianura adesso
è fertile e avverto un modo che da dentro
esce, come un dire dopo aver udito,
un sorriso dopo così tanto amare:
vai, vai pure adesso è il momento,
io attendo qui sul passaggio a livello
e da questo cantuccio,
come in una metafisica delle distanze
sono fuori nel giorno che si espande
mentre io mi richiudo in un istante
della visone in cui tutto è fermo,
certo, al di là di sé
e abbasso le palpebre ingigantite
dalla prima luce
LA CASA DEI RICORDI
Una stradina sterrata, stretta e scoscesa, sperduta nell’affascinante e misteriosa campagna marchigiana. Durante il tragitto si poteva ammirare lo splendido panorama: le morbide colline verdeggianti, qualche casolare solitario e il paese in lontananza. Quella strada sembrava essere sacra alla natura e agli animali selvatici che vi abitavano. Spesso avevo l’impressione di dover chiedere il permesso prima di percorrerla. Difatti l’opera e la presenza degli umani erano solo elementi di disturbo, perché in quel luogo tutto era perfetto così com’era.
Quella stradina era denominata via Quercia proprio perché in un tempo lontano in quella zona vi crescevano numerose querce. L’ho attraversata sia a piedi che in automobile per ben trentasei anni e spero di farlo ancora. Essa conduceva infine a un’antica casa colonica. I miei nonni materni, Giuseppe e Maria, l’avevano affittata, assieme ad alcuni ettari di terreno circostante, nel lontano 1965. Mia nonna era incinta di mia madre. Anni e anni dopo decisero finalmente di acquistarla, assieme ai terreni. Adoravano quella casa perché corrispondeva perfettamente ai loro semplici e umili desideri. Era piccola, modesta, funzionale, circondata da un’ampia corte piena di alberi, cespugli e fiori, ma soprattutto era totalmente immersa nella campagna. Era del tutto isolata dal mondo esterno tanto che sembrava vivere in una dimensione tutta sua. Era proprio questa la sua magia.
I vicinati più prossimi erano parecchio distanti e con gli anni divennero sempre di meno. Preferirono trasferirsi in paese per sentirsi più tranquilli. Peccato. A mio parere, non vi è nulla di più rassicurante della campagna e della natura.
Il terreno circondava la casa, come se volesse proteggerla. La cingeva in un abbraccio fermo e affettuoso. E difatti l’ha sempre protetta. Quella casa, che avrà più di cent’anni, ha superato indenne guerre, incendi, terremoti e alluvioni. Se potesse parlare, chissà quante storie potrebbe narrarci. Quali segreti potrebbe sussurrare. Non posso dimenticare che mi ha visto nascere e crescere, così come ha visto nascere e crescere anche mia madre.
Quante volte ho percorso e amato ogni singolo millimetro di quella terra. Mio nonno vi era molto affezionato e la curava con dovizia. Oltre alla casa, vi era un uliveto, un vigneto, un orto e un fossato, la cui acqua un tempo era pulita e cristallina, tant’è che si poteva tranquillamente bere.
Ricordo soprattutto le estati trascorse in quella casa. La domenica sera i miei genitori ed io andavamo sempre a cena dai nonni. Poiché dentro casa faceva troppo caldo, cenavamo all’esterno, sull’aia. Io giocavo instancabilmente e allegramente con i cani dei miei nonni e passeggiavo per i campi per scoprire nuovi alberi, erbe spontanee e fiori, e magari per scorgere in lontananza la corsa sfrenata di una lepre o di una volpe. Non osavo disturbarle e mi dispiaceva spaventarle con la mia presenza, ma adoravo avvistarle, anche solo per un attimo. Loro fuggivano velocemente e facevano bene. Fin troppi cacciatori purtroppo inquinavano quotidianamente quella campagna con i fucili e la loro crudeltà. Inoltre gli animaletti selvatici avevano paura dei cani, che tentavano invano di raggiungerli.
Un vicinato dei miei nonni possedeva una sorta di fattoria con tanto di cavalli, asini e capre. Io avevo stretto amicizia con tutti loro e gli avevo dato persino dei nomi. Nulla mi risultava più facile dello stringere subito amicizia con gli animali. Erano – e sono tuttora- i miei migliori amici.
D’estate i campi erano vivi e sprigionavano gioia e vitalità. La terra si risvegliava lentamente dal suo torpore invernale. Era come una danza, come una melodia, come una preghiera silenziosa. Di solito i protagonisti assoluti erano il grano e i girasoli. La campagna diveniva così un’esplosione di giallo intenso, che Vincent van Gogh avrebbe certamente adorato e immortalato nei suoi dipinti.
Mi rivedo ancora bambina a correre come una saetta in mezzo a un mare infinito di ridenti girasoli compiacenti, incurante dei pericoli, ridendo e sognando, mentre Batuffolo, Nerone, Rolf, Puffi, Blacky e Brown, seguivano allegramente i miei passi.
Nell’aria vi erano dei profumi soavi che ora non sento più: profumo d’innocenza, di spensieratezza, di speranza. L’acqua limpida dei ruscelli risplendeva con i caldi raggi solari, gli alberi sembravano salutarci con le loro lunghe fronde, gli uccellini cinguettavano felici al nostro passaggio. Il frinire delle cicale risuonava in ogni dove e di notte il canto di un gufo o di una civetta salutava con riconoscenza il giorno che finiva e quello che nasceva.
Quei tempi, ahimè, sono inesorabilmente perduti. Troppi anni sono trascorsi, implacabili e dolorosi. I miei nonni sono morti, così come i cani. È rimasto solo Blacky, un dolcissimo e birbante cagnolino nero meticcio.
Mia nonna è stata la prima da andarsene nel 2005. Diciassette anni dopo l’ha raggiunta anche mio nonno. Era suo desiderio morire in quella casa. E così è stato davvero. Nei suoi ultimi anni non voleva più lasciarla, neanche per le visite mediche, perché quella che per altri non era altro che una vecchia e malandata cascina, era la sua casa e lui ne era fiero e non voleva abbandonarla per nessun motivo. Sono state proprio queste le sue ultime parole.
No, loro non ci sono più, eppure quella casa dei ricordi è ancora lì, malconcia ma tenace, ad attendere pazientemente il ritorno dei suoi defunti proprietari che l’hanno tanto amata e vissuta, e l’abbaiare festoso dei cani.
E io continuo a passeggiare per quella campagna sperduta e quei campi solitari in compagnia di Blacky, cercando gli amati fantasmi del passato.
Cercando quelle estati che non torneranno mai più.
Sara Staffolani
Sezione B.
Accetto il regolamento
TRE OCHE
Il recinto vuoto…
Il calderone d’acqua bollente sul fuoco…
Candide piume bianche sparse ovunque a terra…
Tre graffi nel cielo
sono comparsi stanotte.
Fino a ieri,
tre giovani oche vivevano tranquille nel loro recinto.
Non potevano certo sapere
che quell’anziano signore che vedevano ogni giorno,
che le aveva allevate e nutrite,
di lì a poco le avrebbe crudelmente tradite.
Tre grida disperate
nel silenzio raggelante della notte.
Nessuna umanità.
Nessuna compassione.
Nessuna parola.
Solo frenetici e brutali gesti.
Tre preghiere inascoltate
perse nel vuoto.
Un ultimo disperato tentativo di salvezza,
poi più nulla.
Impotente,
ho guardato un’ultima volta
quei minuti occhi limpidi che mi scrutavano curiosi,
quegli dolcissimi occhi che volevano solo continuare a vivere.
Li ho salutati per sempre.
Non ho potuto fare niente per loro.
Impotente,
fisso ora quei tre graffi nel cielo.
Sono come ferite
da cui continua a sgorgare sangue,
così sottili,
così letali.
Non se ne andranno mai.
Questo cielo non è altro che un cimitero di anime innocenti.
Sara Staffolani
Sezione A.
Accetto il regolamento
Sezione A – Accetto il regolamento.
VIVO
Non sono poi così sicuro
che per tutto ci sia una risposta
che per ogni problema ci sia
una possibile vera soluzione
che si trovi facilmente un motivo
o una ragione per continuare
a cercare una verità che non si trova
-Vivo- e questo è il miracolo vero.
Il tormento che si prova nel dubbio
il mistero che non sarà mai svelato
il silenzio la solitudine l’infinito
il confine che traccia il limite sottile
il bordo che ti vieta di tornare indietro
il nulla da riempire il tutto da svuotare
il confronto con te stesso troppo duro
-Vivo- e non ne sono poi così sicuro.
Italo Zingoni- In-finite soluzioni- Poesie
26/02/2024 – tdr
Il mollusco
Il mare si prende la sua rivincita:
tempesta, flutti, schiuma.
Dalle oscure profondità
smeraldi vegetali fluttuano
strapazzati dalle correnti,
costretti a seguire i poseidonii capricci
in eterno…
Baluardo unico alle acque crudeli:
un antico mollusco
con il suo domestico fardello gravoso,
atavico timore delle onde
della schiuma
delle forze marine
nemiche…
ps: accetto regolamento, sez. a
ROSA DI BOSCO
– Che cosa ti farei rosa di bosco
se ti adagiassi adesso al mio destino
cruda rugiada che grida nella notte
affabulante brivido in cammino?
– Non so, dimmelo tu cane da briglia
è tesa la mia pelle ad aspettare
il sobbollire languido di labbra
che cercan precipizi con urgenza.
– Ti ho vista in sottofondo mia scintilla
come di un fuoco fatuo d’indecenza
ti morderò la bocca senza appiglio
ti sdraierò su me collo con collo.
– Allora fallo, vieni con me adesso
prima che il sole invada la pianura
e che il delirio spasimi e si spanda
a me, a te, a questo folle incontro.
– …
Sezione A, accetto il regolamento
Accetto il regolamento Sezione A
Rosamaria Manca
“Codardi come Gazanie”
Nasce un raggio di sole destinato a dar vita alla Gazania, che timida la notte si nasconde. E noi quante volte ci siamo nascosti reprimendo la nostra brutale natura? Siamo nati per far cose grandi ma di grande vedo solo l’odio. Per quanto ancora sceglieremo la bugia piuttosto che la verità? Tu sarai in grado di mostrarti alla luce del sole o codardo ti ritirerai tra il buio della notte selvaggia?
Chiara Citriniti
Accetto il regolamento, sezione “A”
TERRA NATÌA
Ho fotografato quell’uomo con gli occhi
Sul ponte guardava fisso verso il basso
La spesa poggiata sulle gambe
Ho fotografato quell’uomo con gli occhi
Nel suo sguardo ho visto
L’amarezza dei giorni passati
a sperare in un domani migliore
e vedere attorno a sé crescere solo erbacce
terra deserta e arida
per i sognatori
Ho fotografato quell’uomo con gli occhi
sul ponte
poco prima di cadere
di nuovo
nella noia
L’ INTIMITÀ DEI PENSIERI
È qualcosa che ti cresce dentro,
che esce dall’ ombra e ti avvolge
nel profondo con le sue braccia
fatte di foglie e fiori…
Nel silenzio della natura ti immagini
a percepirne i profumi e i colori,
brividi di freddo e di calore
a invaderti la mente che si nutre
di te e del tuo respiro.
Abbandoni le noie, le paure,
la rabbia, la tristezza…
E ti sembra di vederti così
con gli occhi socchiusi
nel bosco delle tue poesie,
a catturare dai fiori altri versi,
a imprimerti nel cuore
altre nuove emozioni.
Tania Scavolini sezione A
Accetto il regolamento
Sez A – Accetto il regolamento –
Poesia di Floriana Porta
Ciò che dà senso al mondo
è percepire il sacro nell’ordinario
nelle mani, nei gesti quotidiani
nel riposare dei giorni
nei seni addormentati
è quel bisogno di stare
più che esserci
stare a contatto
con la nostra carne,
perché diventi
sempre più preziosa
stare nel silenzio
che disegna il mondo,
aprendo uno spiraglio nel presente
per non smarrirsi mai di fronte al buio
stare sul limite di una frattura
per conoscere meglio se stesse
e per far palpitare la vera bellezza
anche nei cammini più tortuosi.
Sez A – Accetto il regolamento –
Poesia di Stefano Pietri
Come le dita di una mano
Ancora non so capire quanto tu sia grande
Ti osservo tanto, non lo sai e non lo puoi sapere
Cerco di tradurre i tuoi sguardi ed i tuoi gesti
Ma non credo proprio di saperlo fare
M’incanto, spesso, e con gli occhi carezzo le tue guance
Se mi guardi spero duri molto, ma spesso è solo un attimo
Sei così presa dalla tua infantile concentrazione
Distogli lo sguardo, torni alla tua occupazione
Sento di essere così importante quando mi fai domande
Mi guardi e mi sembra di doverti dare il meglio
Ti rispondo amore in ogni mia parola
Tu ascolti seria e sembri un po’ più grande
Quanti giorni mancano al mio compleanno?
E’ un ritornello quotidiano che certo fa sorridere
Ma fa anche capire quanto per te sia importante
Segui ogni dettaglio per quanto la tua età permetta
Sei tenera e coinvolta, mai come stavolta
Quest’anno è diverso, sei sempre più una persona
Sorprendente talvolta nelle tue affermazioni
Nei ragionamenti e nelle deduzioni
M’inorgoglisco nel vederti essere come sei
Mi sciolgo quando mi esterni le tue paure
Le tristezze o le domande sul futuro
Mi anniento dopo un tuo bacio innocente e puro
Sono tanti cinque anni, Papà?
Sì, amore mio, sei grande adesso
Un po’ grande e un po’ piccola
Una persona e una bambina, che però non è da sola
Ma quanti sono cinque anni, tanti o pochi?
Sono pochi per decidere, ma tanti per fare i capricci
Sono pochi per far da soli, ma tanti per poter far domande
Sono pochi per avere certezze e sono tanti, ma non certo per le carezze
Vorrei stringerti forte sempre come quando piangi
Vorrei darti la mano come quando andiamo a scuola
Vorrei leggere per te come quando andiamo a nanna
Vorrei sfiorare le tue guance mentre ti addormenti, per un’ora
Vorrei sentirti ridere come quando faccio il pagliaccio
Oppure quando all’improvviso il solletico ti faccio
Vorrei tu mi chiamassi e coinvolgessi in cose solo di noi due
Vorrei stringessi sempre le mie mani fra le tue
Ma adesso sei grande o sei sempre il mio pasticcino?
Sei cresciuta, sì, ma sei sempre un po’ un bambino
Papà, i miei anni sono pochi o tanti, dillo piano piano
Sono cinque, amore mio, come le dita di una mano
Elisa Mascia
Sez.A
Silenzio.
Sento il sibilar del vento,
interrompe questo silenzio assordante
che ormai riempie ogni momento
della tua assenza desbordante,
dinanzi agli occhi passa lo scenario
del tempo imprigionato nell’immaginario
che vaga con velocità infinita
più del suono delle tue parole
attratte nel cosmo da una calamita,
speranza consola al cuor che duole
aspetta senza sosta un tuo pensiero
di serenità e pace come sempre foriero.
Silenzio è mentre brilla il sole
scioglie la rugiada cristallizzata dell’assenza
grida la mente che solo te vuole,
nell’istante interminabile è presenza
non importa se reale o immaginata
nel silenzio echeggia l’essere amata.
Ripete, amore, la tua voce a conferma
nel dialogo interiore trova sollievo
che quando è vero la Terra trema
e nuovamente nel qui ed ora ricevo.
Silenzio interrotto da interminabili minuti
da orologio lancette e numeri erano caduti
e non poter tempo segnare
sostituiti da battiti di cuore che sa ancora amare.
Elisa Mascia
accetto il regolamento
Pietro La Barbera
sez. A, accetto il regolamento
NON TI AMO
Non ti amo
perché desidero rivederti,
perché la tua lontananza mi fa soffrire,
perché amo la tua dolcezza, la tua intelligenza
perché vorrei piacerti, avere la tua stima la tua considerazione,
perché vorrei che anche tu avessi bisogno di me…
Non ti amo
perché vorrei che ciò che non conosco
si trasformasse in vero AMORE…
Accetto il regolamento.
Sez. Poesia
Tu non esisti
e ben strano
ne converrai
trovare un tuo capello sul divano
le tue scarpe in cantina
e la tua voce in segreteria
dal momento che tu non esisti
e non sei mai esistita.
Tuttavia se tu esistessi
suppongo
saresti proprio come sei.
Quindi:
A) tu non esisti
B) se ti esistessi non saresti conoscibile
C) se tu fossi conoscibile non saresti comunicabile
….e non sono il primo a dirlo.
Sezione A, accetto il regolamento
Quante volte t’ho atteso alla stazione
nel freddo, nella nebbia. Passeggiavo
tossicchiando comprando giornali
innominabili,
fumando Giuba poi soppresse dal ministro
dei tabacchi, il balordo!
(Eugenio Montale)
BLU
A ciascuno il suo,
egregio signor Montale:
le Giuba a te,
il tabacco Gauloises a me
e se balordo fu il tuo ministro,
più che scellerato fu il mio
che se non lo soppresse,
ne vietò l’importazione.
Troppa nicotina – sentii dire –
Troppo zelo – affermo io –
Tabacco Gauloises – che dico, mon Dieu! –
GAULOISES
caporal
tabac a cigarettes
proclama la confezione blu con l’elmo alato
e, accento o non accento,
non le può certo sfuggire,
egregio signor Montale,
la poesia custodita da quella “a”:
“a cigarettes”
non “pour cigarettes”:
50 g di meraviglioso tabacco nero,
mezzo etto di perfezione,
lasciati in mani francesi.
Nel freddo, nella nebbia passeggio
tossicchiando lungo le stradelle di Cittadella.
Mettono pioggia che un po’ Parigi farà.
In Rue delle cucine economiche rallento,
mi fermo, mi giro una sigaretta:
30 (striminziti) g di tabacco naturale biondo LUCKY STRIKE red.
Vado su Google.
Ecco fatto! Voilà! Edith Piaf sta intonando per me un inno “à” l’Amour mentre il fumo s’en va par le ciel bleu.
sez. B, accetto il regolamento
Quante volte con Luigi abbiamo parlato di poesia; lui parla, io ascolto e i miei pensieri si trasformano in un milione di parole che fuggono velocemente…
Non si voltano, le parole, non tornano indietro e, mentre Luigi parla, io continuo a vagabondare nei pensieri e tra le parole.
Mi racconta, Luigi, di quando Milano respirava, di quando il Naviglio scorreva e i Poeti si incontravano nelle osterie con i loro taccuini, con i libri sotto il braccio, le sigarette e il vino…
E, davanti a questo pranzo, lascio scorrere i pensieri e vedo i posti, le piazze, i ponti, le passatoie del Naviglio, i matti che ci sguazzano avanti e indietro.
E Luigi mi parla della signora che lo invita a pranzo per parlare di Poesia, solo di Poesia…
Poi, Luigi, mi dice dove ha messo i miei libri sulle mensole in camera sua e sono felice perchè Luigi ha divano, poltrone, sedie piene di libri, mentre i miei li tiene sulle mensole…
Luigi, il Poeta, l’amico, il professore di tedesco, l’uomo delle recensioni, l’uomo dei libri, l’uomo delle parole, che, quando parla, mi riempie il cuore, il sangue e tutta la vita…
A Luigi Cannillo, 29-2-24
Accetto il REGOLAMENTO sezione A
PAESAGGI ASSOLATI
Non hanno occhi le mie voglie
grappoli di frutta acerba
sotto un sole che non matura
sui lavatoi secchi
dove una lacrima d’acqua
piange le sorelle latitanti
becchi asciutti
intonano cinguettii stonati
mentre la notte
dal nero scialle
attende impaziente
l’alba dopo l’abbraccio
umido di brina
Rita Nappi
Accetto il regolamento – Sezione A
Titolo: PERLE SALVAVITA di Sara Tricoli
Le metto in fila sul tavolo in legno antico,
è un netto contrasto.
Una a fianco all’altra le osservo:
sono sfere perfette, bellissime, bianchissime, tutte
tranne una
è di un leggero rosato, quasi perlato…
Mi avvicino di più, socchiudendo gli occhi per concentrarmi solo su di lei e sulla sua curva perfetta…
Mi raddrizzo e sospiro!
Torno a guardarle tutte,
sono tante, eppure poche…
Le sfioro a una a una,
come se volessi accarezzarle!
La penultima si muove un pochino,
sembra voglia rompere la riga, ma io – con il mio indice – la riporto delicatamente al suo posto.
Sconosciute eppure amiche… a volte le odio e altre le amo…
non so decidermi!
Mi ricordano momenti difficili, eppure,
mi aiutano ad affrontare l’incerto futuro.
Racchiudono un grande mistero, conosciuto da pochi.
Io non so da dove vengono, ma so cosa fanno… o almeno, me lo auguro…
Mi avranno anche salvato la vita, ma non so quando e neppure quante volte!
Allora, per non essere ingrata, appoggiando una mano al petto – all’altezza del mio cuore malato –
mormorò un flebile:
grazie medicine!
Un fantasma bellissimo
Hada era in città. Il filo che la univa alla famiglia s’era spezzato. Aveva scorso gli annunci sul giornale e si era presentata al civico 36 di una via del centro. L’indice sul campanello. Nella porta aperta una donna grossa la fissava.
“Sono la domestica che…”
“La domestica?” Sul suo viso una smorfia. “Sembri…una ballerina, magra come sei.
Qui non c’è lavoro per te.”
“Aspetti!” Lei urlava. La porta si chiudeva. Le braccia spingevano. “Il lavoro non mi spaventa, vengo dalla campagna, io”.
I piedi di Hada si posavano con rispetto sul pavimento di piastrelle e gli occhi perlustravano la stanza: strisce di tappezzeria s’alternavano sui muri, per terra barattoli di colla e rotoli in attesa; più in là, isolato come un mango, un divano in finta pelle.
“È una casa bellissima” pensava e inspirava odore di calce. La donna la guardava dall’alto come una statua.
“… C’è da lavare, cucinare, ramazzare, ho cinque figli, io, e la nonna che…”
Dalla bocca le parole veloci. Hada ascoltava.
Improvviso un colpo sulla schiena l’aveva fatta traballare. La donna rideva, gli occhi affondati nella faccia, la mano in alto.
“Sei come un ramo di jacarà, si piega ma non si spezza. D’accordo, mi hai convinta, ti assumo”.
La giornata di Hada iniziava all’alba, nella fila di abiti colorati fermi sul marciapiede. Il camion dell’acqua arrivava, i secchi per terra pronti a ricevere il prezioso liquido.
“Non devo versarne una goccia” ripeteva mentre tornava a casa.
Hada preparava la colazione, vestiva i piccoli e li accompagnava a scuola, dribblava fra i banchi del mercato e setacciava la merce con lo sguardo, poi sceglieva: la padrona si sarebbe arrabbiata se i pomodori non fossero stati maturi!
Camminava dritta. Il cesto sulla testa. Nelle orecchie i fischi dei ragazzi che la sbirciavano e sparivano.
Mentre la pentola sbuffava, Hada si consumava le unghie sfregando le macchie sulle tute dei giovani. Dalla camera la voce della nonna insisteva, lei strofinava i palmi sul grembiule e correva.
Quando la mano tesa della notte sfiorava quella del giorno, Hada tirava un sospiro di sollievo.
Si chiudeva in bagno col sorriso sulla faccia: chi l’aveva mai visto un bagno? Non lei, abituata a fare i bisogni in un buco lontano da casa.
La cosa più strana, però, era la doccia. Le dita agivano veloci sul rubinetto, gli occhi aspettavano fissi sull’aggeggio pieno di buchi. Ma l’acqua non usciva.
Non importa, pensava, uscirà quando l’impianto sarà finito.
La padrona diceva che presto sarebbero arrivati i soldi.
Ma chi inviava sempre soldi? Hada ci aveva messo un po’ a capire che era la figlia grande; lei lavorava all’estero e guadagnava molto.
Seduta sul divano Hada si chiedeva che faccia avesse la ragazza che tutti nominavano con rispetto. Sicuramente era bellissima, ma la cosa che l’affascinava di più era il suo potere: un potere più forte di quello del nonno, un potere simile a quello di un dio.
Il denaro è il suo alleato, pensava, non c’è famiglia che abbia tanto per merito di una ragazza!
Ad Hada non sembrava vero: la misteriosa giovane pensata e sognata, ora le stava davanti. Aveva i capelli lisci, le guance color biscotto appena arrossate, le labbra lucide. Indossava jeans stretti e una camicetta a fiori, ai piedi scarpe appuntite col tacco. Hada la guardava come si guarda un idolo nella casa del dio.
Lei rideva.
“Perché mi fissi? Non sono un fantasma!”
In un certo senso lo era, almeno per Hada, un fantasma bellissimo però.
La ragazza, la domenica, portava i fratelli al mare con la macchina. Caricati i bagagli saliva a bordo e sbatteva la portiera rossa di polvere. Hada guardava la vettura sbiadita che sobbalzava sulle buche come crateri. Poi, s’aggirava per casa a cercare borse, vestiti, trucchi, riviste; con la scusa di far ordine, li prendeva in mano, li guardava: Come sarei felice se …
Scacciava quel pensiero. In fondo era soddisfatta: anche lei col suo lavoro sfamava la famiglia e curava sua figlia.
Hada aveva deciso: avrebbe usato tutto il coraggio per parlare alla ragazza prima che ripartisse.
Le mani piegavano abiti e magliette, gli occhi erano fissi sul viso davanti allo specchio.
“Se vuoi qualcosa dillo” le aveva detto la giovane senza voltarsi “avanti, coraggio!”.
Lei inspirava.
“Che… lavoro fai in Europa?”
“La parrucchiera”
“Anch’io…anch’io vorrei fare la parrucchiera, è il mio sogno, dimmi… come…”
La risata riempiva la stanza.
“E’ facile. Basta che tu vada in agenzia, penseranno loro a tutto, ti scriverò l’indirizzo…”.
sez. b accetto il regolamento
IL PICCOLO SEGRETO pag.1
Mio padre Felice,di nome e anche di fatto,sarebbe stato un degno protagonista
del mitico film “Amici miei”,le sue zingarate in compagnia degli amici erano sane
valvole di sfogo dal suo lavoro di operaio tessile.
Non si erano diradate neanche dopo sposato,ma erano diminuite coi matrimoni
degli amici,che le mogli tenevano a freno,praticamente in libertà vigilata.
Lui nonostante l’arrivo di tre figli maschi,o proprio per quello,si concedeva
delle fughe dalla realtà in compagnia di Vittorio,uno scapolo impenitente
che aveva il pregio di possedere un’auto,con cui disperdersi in provincia.
Il loro ritorno a casa non era sempre da sobri,mentre l’amico aveva una ubriacatura
allegra che lo portava a cantare una canzone da osteria i cui versi erano:”cicciona,
la porcellona,battiamo le chiappe,cicip ciciapp” a mio padre veniva quella
triste,che lo rendeva simile ad una ameba.
Mia madre appena lui entrava in casa in meno di dieci secondi lo battezzava:”Felice,
hai bevuto?”
Seguiva la scontata risposta:”sì,un poco”,dopodiché si sedeva pronto a subire
la severa filippica di mia madre:”ma cosa ti viene in mente di andare a bere vino
fino a ridurti così?,il Vittorio è scapolo e può fare quel che vuole,ma te hai moglie
e tre ragazzi,bell’esempio che gli dai,quand’è che ti decidi a mettere la testa a
posto come tutti i padri di famiglia?.”
Mio padre,travolto dalle contumelie che gli lanciava la mamma,riusciva ad avere
solo un sussulto d’orgoglio,prima di capitolare:”Beh,nessuno è perfetto.” – diceva
con voce bassa,riprendendo poi ad annuire contrito,ben sapendo però che come
un moderno Pinocchio si sarebbe fatto trascinare ancora dal suo Lucignolo appena
il grillo parlante che aveva scelto di sposare si fosse distratto di nuovo allentando
la marcatura.
Io avevo 15 anni e dopo aver assistito all’ennesima poco edificante scena mi
chiedevo come faceva la mamma a capire così velocemente lo stato di ebrezza
di mio padre,ai miei occhi tutto ciò era inspiegabile,come una magia.
Quindi mi venne naturale il giorno dopo mentre rassettava casa chiederglielo,la sua risposta mi lasciò spiazzato.
“Vedi,Marco,in effetti c’è un trucco,un segreto che ho imparato a conoscere solo io.”
Chiesi a mia madre di rivelarmelo,e lei me lo disse:”lo sai che papà ha un ciuffo pag.2 di capelli,proprio in mezzo alla fronte che gli cade giù.”
“Sì,è vero,l’ho notato anche io,specie di sera,ma cosa c’entra?”
“beh,quando ha bevuto troppo il ciuffo da giù gli va all’insù.”
“No,non ci posso credere,com’è possibile?”
“Invece è proprio così,la prossima volta che torna a casa ubriaco facci caso.”
Secondo me era più una illusione di mia mamma,solo una coincidenza,non
restava però che aspettare,per averne conferma,infatti una domenica sera,
di ritorno dalla gita con Vittorio,la mamma lo beccò:”Felice,te hai bevuto,vero?”
Subito guardai il viso di mio padre,ed era vero perdinci,non era una illusione
della signora Teresina,il suo ciuffo svettavaverso il cielo in modo disordinato,
inconsapevole spia,ma se solo lui l’avesse saputo se lo sarebbe mai tagliato,
quel ciuffo ingrato e traditore?
Ora però lo sapevo io,e mi mandava in crisi di coscienza,dirgli del segreto in
modo che lui provvedesse prima di entrare in casa con una bella pettinata,o
mantenere la parola con mamma standomene zitto?
Vissi nel dubbio per mesi,poi il destino mi dette una mano,anche se non l’avrei
voluto,perché arrivò un giorno la brutta notizia che Vittorio se ne era andato per
sempre a fare le zingarate all’altro mondo,anche se in cielo certo non avrebbe
trovato neanche un bar e il paradiso di sicuro l’avrebbe scambiato perlomeno
con il purgatorio.
Vittorio era sempre allegro,ho ancora vivo il ricordo di quando mi presentai a
una tavolata nel suo cortile,presenti tutti i suoi amici,mio padre mi chiamò a sé,
e lui mi versò del vino riempiendo mezza tazza da latte,facendomela bere tutta
d’un fiato,avevo solo sei anni,non avevo capito che erano già tutti avvinazzati.
Perso l’amico,mio padre mise la testa a posto e non tornò più a casa ubriaco,
ma a volte gli veniva un velo di tristezza rimpiangendo quei tempi,ora è lassù
con i suoi amici e Vittorio,quando salirò anch’io porterò loro un buon vino di
quelli che costano un sacco di soldi,e mi applaudiranno ancora come quando
eroicamente mi ero bevuto una mezza tazza di barbera,e per fortuna loro
e di mio papà non dissi nulla a mia mamma,mantenendo il segreto,altrimenti
chissà che daspo mia mamma avrebbe inflitto al marito.
Solo dopo anni ho capito che il più sano all’epoca a quella tavolata ero io,
loro erano di sicuro già con molto vino in gozzo,ma vista l’allegria che li
pervadeva ho pensato che ci vuol poco ad essere felici,tanti amici e un
ospite speciale,rosso,frizzante e sicuramente molto amabile.
sez. b accetto il regolamento
GESPINO E RAMINA
C’era una volta un pesce di nome GESPINO che viveva in un laghetto. Era un pesce molto curioso e amava esplorare il mondo sottomarino. Un giorno, mentre nuotava tra le alghe, vide una rana di nome RAMINA che saltava da una foglia all’altra. Il pesce rimase affascinato da quella creatura verde e agile, e decise di seguirla.
RAMINA si accorse presto di essere seguita da un pesce, e si fermò su una foglia per guardarlo meglio ed essendo molto timida e solitaria, non aveva mai avuto amici. Vedendo il pesce, provò una strana sensazione, e gli sorrise timidamente.
GESPINO si avvicinò alla foglia e le fece un cenno con la pinna. RAMINA gli chiese come si chiamava e da dove veniva. GESPINO le raccontò della sua vita nel laghetto e le disse pure che era sempre alla ricerca di nuove avventure. Disse poi che lei invece viveva sempre sulla stessa foglia, e che aveva paura di tutto. GESPINO allora le propose di andare con lui a scoprire il mondo e lei accettò con entusiasmo.
I due iniziarono così a viaggiare insieme, e si divertirono moltissimo. GESPINO mostrò a RAMINA le meraviglie del laghetto, come i fiori di loto, le libellule, e i raggi del sole che filtravano nell’acqua. Gli mostrò poi le gioie della terraferma, come i funghi, le farfalle, e il canto degli uccelli. I due si scoprirono sempre più innamorati l’uno dell’altra, e si promisero di non lasciarsi mai.
Ma un giorno, una terribile siccità colpì il laghetto, e il livello dell’acqua cominciò a scendere. GESPINO e RAMINA si resero conto che presto il laghetto si sarebbe prosciugato, e che avrebbero dovuto separarsi. GESPINO disse allora a RAMINA che avrebbe cercato un altro laghetto dove vivere, e che l’avrebbe portata con sé e che lo avrebbe amata per sempre.
GESPINO si mise in cerca di un altro laghetto, ma non ne trovò. Tutti i laghetti erano secchi, e i pesci erano morti. Si sentì allora molto disperato, e pensò che non avrebbe mai più rivisto la sua bella. Decise allora di tornare dal suo amore, e di morire con lei.
Quando GESPINO arrivò al laghetto, vide che l’acqua era quasi scomparsa, e che il suo amore era ancora sulla sua foglia; lei lo vide e gli corse incontro. I due si abbracciarono forte. Ma proprio in quel momento, il cielo si aprì, e una pioggia torrenziale cadde sulla terra. Il laghetto si riempì di nuovo di acqua, e i fiori di loto sbocciarono e tutto fu meraviglia. GESPINO e RAMINA capirono che era stato un miracolo, e ringraziarono il destino per averli salvati. Si baciarono felici, e vissero per sempre insieme nel laghetto.
ACCETTO REGOLAMENTO – SEZ. B
LA NOTTE…
…è un velo nero che copre parte del mondo
e nasconde i suoi segreti tra ombre e silenzi.
…è una melodia che canta la sua armonia
e incanta tra le liete note e diversi sospiri.
…è un sogno di luci che dipinge il cielo
e miliardi di stelle lasciano alla luna
un giaciglio sicuro per riposare…
rallegrando dolci amori e velati dolori.
…è un magico giorno che finisce,
ma già sa ricambiare…
regalando al domani colori di luce.
Accetto il regolamento – Sezione A
Poesia inedita, sez. a accetto il regolamento
SE
Se le lacrime fossero
attimi di felicità
scompiglierei il cielo
per far scendere
chi abbiamo amato
Accetto il regolamento
Sezione A
Colore
Vengo dal suono in cui le cicogne dormono
il sonno dei bambini mai nati
vengo dai sinonimi dell’abbandono
attorniato da Putti che ne sostengono l’aura
È il vuoto del nome che assottiglia
la cartilagine del guscio da cui non sono
mai uscito
Vengo da dentro il colore per cui sono
cadmio in fiore
e lapislazzulo divengo sotto i cieli di cobalto
e vergine sono di zinco per lenire le carni
Vengo al cielo, alle radici di barbe antiche
nei quadranti delle meridiane
e dalle tempie foreste di miracoli
avari, nulla temo,
il cuore del mondo
batte il mio petto
Non hanno voce
Non hanno voce
sono una moltitudine
di un eden sconosciuto
occhi appena schiusi
in un incerto destino
scivolano navigando
in un’onda invisibile
nel mare del tempo.
Raffaele Di Palma
Accetto il regolamento, sez. a
PUNTINI DI SOSPENSIONE
(I miei tre anni di amore vano)
Ho inciampato
sui tre puntini,
messi sulla mia strada
mentre aprivo,
finalmente,
le braccia alla vita,
desiderosa di andare.
Ho inciampato tra melodie
che hanno zittito i silenzi,
per, poi, riaccenderli,
moltiplicati,
tutti insieme.
Ho inciampato in un sorriso
pronto per me
come un bocciolo da cogliere,
in una voce
ammaliatrice
più del canto delle Sirene,
in uno sguardo
che mi aspettava, forse, da sempre,
perché soltanto io lo indossassi.
Ho inciampato
in un tempo
dove le età non s’incontrano,
dove le attese,
come boomerang,
tornano indietro,
dove gli slanci
vanno a morire nel vuoto,
in un tempo
dove non è permesso sperare.
Sezione A – ACCETTO IL REGOLAMENTO
POESIA PER IL CONCORSO
Una luna silenziosa
sembra appartarsi
davanti alle guerre
che quel piccolo essere
che vive sotto di lei
combatte senza pietà,
e prova vergogna per lui.
Per lui che quando
la guarda mai più pensa
che anche lei
abbia un’ anima.
E non si rende conto
che vivendo in modo
volgare e meschino
la perde
giorno per giorno.
Ignorando che
sono le ferite dell’ anima
quelle che fanno più male,
come crateri
che ti scavano dentro
mentre i pensieri
diventano buchi neri.
Ma a chi ha cuore e onestà
resta la speranza
di giorni migliori e più felice di ieri
sez. a accetto il regolamento
LA VITA (sezione b. accetto il regolamento)
Prima parte
La tua gioventù è stata sicuramente meravigliosa, in quegli anni tutto era più facile, e neanche i problemi riuscivano a cancellare il sorriso e la voglia di vivere tipica della tua generazione. Perfino sognare era più semplice…
Tu anche avevi un sogno, suonare la fisarmonica, e per farlo e unirti al tuo gruppo, andavi fino a Piacenza con la tua vespa.
Ma a parte questo, sei sempre stato un gran lavoratore: e senza sosta lavoravi alla costruzione della ferrovia che avrebbe unito l’ Italia. E la vita tu la prendevi a morsi, e con tutto l’ entusiasmo dei vent’anni, visto che la tua classe era il 1936, alternavi al duro lavoro in ferrovia alla passione per la musica, e felice come un bambino, andavi incontro al tuo destino, senza risparmiarti mai.
Ma la cosa migliore che ti capitò fu incontrare la donna che sarebbe diventata tua moglie e madre dei tuoi figli…
Due bellissimi bambini.
Con lei volavi, sulla vespa e con tanti sogni in tasca.
Ti sposasti, dopo aver finito la più famosa ferrovia italiana, e allora passasti ad un altro campo, quello della telefonia. Ogni cosa in cui ti impegnavi era un successo.
E nonostante tutta la strada che avevi compiuto per arrivare dov’eri (il tuo primo ” impiego” fu fare il bergamino, guadagnandoti “la pagnotta” nelle stalle)
arrivasti a 65 anni che senza paure né tentennamenti, e senza problemi andavi a riparare perfino i tralicci: e con l’abilità di un funambolo collegavi di nuovo l’ Italia, che grazie a te stava conoscendo i cellulari!
Ma quando la vita decide di tradirti, non ti guarda in faccia, e ti colpisce proprio dove non ti saresti mai aspettato, e quando pensavi invece di aver fatto breccia.
Seconda parte
Ma il male arriva sempre senza appuntamento, e quando te ne accorgi è troppo tardi per rimediare.
Fu così che iniziò la tua notte peggiore, di quelle talmente lunghe e dolorose che dubitavi che sarebbe finita, e che sarebbe nato un altro mattino…e correvi come un matto, perché correre ti sembrava l’unica cosa da fare, la più importante… arrivare dove non voleva arrivare Dio!
Era il 1974, e il tuo bambino, il tuo primo bambino, stava morendo, e tu ti sentivi più inutile e inerme che mai, non riuscivi a fare niente per salvare quel pezzo di cuore che agonizzante era già passato di ospedale in ospedale, nemmeno portartelo via, a casa con voi, la sua famiglia.
E arrivò la fine di quella lunga e crudele notte iniziata tanto tempo prima, ma con sé portò via anche il sole…
E adesso che niente era rimasto per cui correre e lottare, dove avreste trovato il coraggio di ricominciare? Ma a certe domande forse non esistono risposte.
Ma purtroppo la vita va avanti, deve andare avanti lo stesso, dovevi rialzarti, e contunuare a sopravvivere, per la famiglia che ti era rimasta accanto, perché toccava a te proteggerli e lottare di nuovo, per loro, in nome dell’ Amore.
E così passarono gli anni, fra piccole gioie ed affanni, finché il destino avverso fece ritorno, e compresi per la seconda volta che un fato avverso ti aveva marchiato.
Era il primo anno della pandemia quando tua moglie, la donna che avevi sposato, la mamma dei figli che avevate messo al mondo con tanto Amore, la donna che ti aveva accompagnato per quasi tutta la vita, si ammalò di quel maledetto virus.
Ma la cosa più dolorosa fu la sua quarantena, perché non potevi nemmeno andarla a trovare.
Fu la prima volta che vi dividevate, e il non poterla vedere, sentirne la voce, toccarla, era per te la cosa più devastante.
Fu così che la nostalgia e il dolore vinsero, e una sera chiesi a tuo figlio di accompagnarti al suo ospedale, perché senza poterla vedere a te sembrava di morire.
Quando ti trovasti nel cortile di quel luogo di dolore e di morte, dove il silenzio regnava su tutto il resto, e individuata la sua camera, ti sedetti sullo sgabello che ti eri portato, e, insieme alla tua fidata fisarmonica, le intonasti una serenata.
Come per magia, man mano che le note della tua melodia si spargevano nell’ aria, tutto si fermò, compreso il tempo, il personale del reparto e i pazienti; tutti avevano smesso chi di lavorare, chi di riposare, e rapiti ascoltavano in un silenzio rispettoso la tua commovente serenata D’Amore.
Tutto ciò ti commosse nel profondo, ma la cosa più bella e meravigliosa fu vedere da dietro i vetri della sua finestra la donna che da sempre amavi piangere di felicità…
E capisti in un solo momento di averle regalato un sogno…il sogno di una vita che si avvera e che continuerà, oltre le avversità, per tutto il resto del vostro viaggio…!!
CONTEST SCADUTO
Vi ringraziamo per la partecipazione.
I finalisti saranno raggiunti via e-mail.
FINALISTI CONTEST
Sez. A
Marco Leonardi con “Sotto quelle fronde”
Thea Matera con “Frottage”
Ignazio Salvatore Basile con “Quando ho visto i tuoi occhi”
Matteo Marangoni con “Le maglie della sera”
Cinzia Panuccio con “Lo chiamano amore”
Michele Pochiero con “Il ricordo di un diario”
Simona Grammatico con “Cercando una poesia”
Sez. B
Peter Hubscher con “Dantesca”
Fabio Soricone con “In questa casa non abita più nessuno”
Chiara Sardelli con “La piramide di luce”
Giovanni Ferrari con “Labbra”
Manuela Orrù con “La verità celata”
Sanja Rotim con “La pianta dei soldi”
Carlo Zanutto con “A Luigi Cannillo”
Tra qualche giorno verrà pubblicato l’articolo con i vincitori del Contest.
Complimenti ai partecipanti e finalisti!
Grazie. Lieta ed onorata d’essere parte del novero dei finalisti.
Complimenti Thea!
OPERE VINCITRICI DEL CONTEST:
https://oubliettemagazine.com/2024/03/16/vincitori-e-finalisti-del-contest-letterario-conversazioni-poetiche-seconda-edizione/
Vi ringraziamo per la partecipazione. Al prossimo contest!
Forse non avete letto bene tutte le poesie, a me sinceramente alcune che sono arrivate in finale non mi dicono niente, ma io sono solo una poeta per caso e non sono nessuno in confronto a chi invece di trasmettere emozioni trasmette paroloni di cui non si capisce nulla. Mi scuso, spero che non sto offendendo nessuno, sto solo cercando di dire una mia opinione, che secondo me scrivere una poesia è tutta un’ altra storia…
Grazie comunque per l’ opportunità che mi avete concesso, Vi porgo i miei più cari saluti. Simona Rosa.
Forse non avete letto bene tutte le poesie, a me sinceramente alcune che sono arrivate in finale non mi dicono niente, ma io sono solo una poeta per caso e non sono nessuno in confronto a chi invece di trasmettere emozioni trasmette paroloni di cui non si capisce nulla. Mi scuso, spero che non sto offendendo nessuno, sto solo cercando di dire una mia opinione, che secondo me scrivere una poesia è tutta un’ altra storia…
Grazie comunque per l’ opportunità che mi avete concesso, Vi porgo i miei più cari saluti. Simona Rosa.
Posso solo dire che in effetti arrivare in finale mi ha stupito, figurarsi essere tra i vincitori. Ci credevo di più con il racconto…
p.s. : faccio una cosa scorretta se dico che la poesia che mi ha colpito di più è stata quella di Alexander Alban?
Ri-p.s: ho appena fatto il giurato in un concorso di poesia, so quanto è difficile scegliere!
Scusate ma voglio aggiungere una cosa: ci sono poesie (come quelle di Thea Matera) che vanno lette come si guarda un quadro astratto