Butō: la danza giapponese del dolore e della gioia
Nell’estate del 1991 assistetti per la prima volta a uno spettacolo di Butō e fu un’esperienza folgorante. L’occasione era il festival Spoltore Ensemble, in Abruzzo, l’artista Kō Murobushi.
La scena era un quadrilatero di circa sei metri per lato, riempito di sale grosso per almeno 20 cm di spessore da terra, abbagliante sotto le luci di scena. Su una base continua di musica minimalista – Philip Glass e Steve Reich – il performer entrava completamente infagottato in un pesante pastrano, tenendo in mano un ramoscello fiorito e lentissimamente, con gesti minimi e nervosi, faceva poi scivolare via il cappotto (per chi conosce il teatro Nō: sembrava la parodia dell’entrata del waki, che spesso è un monaco) svelando un corpo completamente dipinto di bianco, coperto solo da un perizoma.
Il Butō è una danza fatta di movimenti tensivi e contorti, in cui alla lentezza dolorosa di alcune sequenze si sovrappongono momenti di scatto e di velocità quasi acrobatici.
Lo spettacolo di Kō Murobushi culminava in una serie di salti e cadute, come di chi cercasse disperatamente di trasformarsi in uccello (ignoravo, all’epoca, che la trasformazione animale era un tema centrale nella poetica di quel performer) e non volesse rassegnarsi al proprio fallimento: la musica, dopo tre quarti d’ora di minimalismo incalzante, si distendeva improvvisamente in una melodicità un po’ banale e mielosa.
L’impressione fu emotivamente molto forte e profonda: davanti agli occhi si schiudeva la visione di un’umanità post-atomica in lotta per non cedere a una trasformazione genetica o anche, al contrario, per trasformarsi in qualcosa di nuovo che riuscisse a superare positivamente il suo stadio attuale.
Il Butō, in effetti, è una forma di danza (o, meglio, di teatrodanza) sviluppatasi agli inizi degli anni Sessanta in Giappone, i cui creatori sono considerati Tatsumi Hijikata (1928-1986) e Kazuo Ohno (1906-2010): questa forma espressiva “estrema” nasceva proprio con intenti di rottura in una società che, uscita a pezzi dalla catastrofe bellica, stava assorbendo i modelli di vita e la mentalità consumistica statunitensi, senza peraltro abbandonare vecchi retaggi fatti di tabù e repressioni, in un amalgama schizofrenico che ancora oggi appare visibile a chi conosca da vicino la società nipponica. (Quegli stessi anni, peraltro, vedevano l’affermarsi del Pinku eiga, filone cinematografico soft core, che coniugava tematiche violente e pulp con scene di sesso esplicito: anche questo qualcosa di rivoluzionario e dirompente per la società giapponese dell’epoca).
I movimenti del Butō non conoscono una vera e propria codificazione, anche se sono decisamente riconoscibili nella loro peculiarità: si tratta di una danza apparentemente astratta, ma in realtà le sue movenze contorte e sgradevoli, spesso lentissime, nascono da un lungo training psicofisico mirante al ricongiungimento dell’espressione esteriore con gli strati più profondi della psiche, tramite l’abbattimento progressivo di tutti i “filtri”.
Il primo spettacolo di Butō è considerato Kinjiki (“Colori proibiti”), presentato nel 1959 in un festival di danza, 6 Avant-garde Artists – An Experience for 650 People, alla Daiichi Seimei Hall di Tokyo da Tatsumi Hijikata.
Il tema portante dello spettacolo, basato sull’omonima novella di Yukio Mishima, era l’omosessualità, altro tabù nel Giappone dell’epoca: la rappresentazione diede scandalo e fu interrotta per le proteste. La parte coreografata per Ohno si apriva en travesti con il personaggio della prostituta Divine, tratto dal romanzo Notre-Dame-des-Fleurs di Jean Genet, che si alzava in piedi tra le sedie del pubblico sulle note della Toccata e fuga in re minore di Bach.
Kazuo Ohno, che aveva iniziato a studiare danza moderna nel 1933, aveva cominciato a lavorare con Hijikata già nel 1954, e con lui aveva sviluppato quello che originalmente era stato chiamato Ankoku-butō (cioè: “danza delle tenebre”). Hijikata – i cui punti di riferimento dal punto di vista artistico erano scrittori come Mishima, Lautréamont, Artaud, Genet, Sade – creò molte coreografie per Ohno, incluso il suo capolavoro Admiring la Argentina.
Presentato per la prima volta nel novembre 1977 alla Daiichi Seimei Hall, Admiring la Argentina, un assolo, fu rappresentato in tutto il mondo 119 volte fino al 1994 (Ohno aveva 88 anni, ma avrebbe continuato a danzare fino ai 95). La Argentina era il nome d’arte della ballerina Antonia Mercé y Luque, innovatrice della danza spagnola; Ohno la vide ballare al Teatro Imperiale di Tokyo nel 1929 e ne rimase emotivamente travolto, decidendo di dedicare la sua vita alla danza. Dal 1980, anno in cui Ohno si esibì in Europa per la prima volta, furono aggiunte allo spettacolo due melodie accompagnate dalle nacchere appartenute alla Mercé y Luque, che i parenti della Argentina regalarono al danzatore.
Kazuo Ohno rappresentò in un certo senso l’“anima poetica” del Butō; la sua danza era molto meno drammatica e violenta di quella di Murobushi (1950-2015), che pure fu allievo di Hijikata dal 1968, ereditandone il lato più “tenebroso”.
Il Butō rimase pressoché sconosciuto al di fuori del Giappone fino ai primi anni Ottanta, quando appunto la partecipazione di Ohno a festival europei, soprattutto francesi, rivelò questa forma di danza con una forza d’urto dirompente.
Poco dopo aver visto lo spettacolo di Kō Murobushi (il cui titolo era EN) seppi che nel novembre di quello stesso anno, a Rovereto per il Festival Oriente Occidente, ci sarebbe stato Kazuo Ohno. Andai. Nell’ultimo quadro di quello spettacolo vidi con i miei occhi (credetemi) la trasformazione dell’artista all’epoca 85enne in una adolescente giapponese che festeggiava la fine della guerra, con l’ingenuità e la gioia infantile che sprizzavano fuori da quei movimenti astratti e contorti, fino a colpire al cuore lo spettatore.
Dieci anni dopo, nel 2001, il Centro di Promozione Teatrale “La Soffitta” dell’Università di Bologna dedicò un omaggio a Ohno in occasione della donazione, da parte dell’artista, del suo archivio multimediale al Dipartimento di Musica e Spettacolo.
Ma, nonostante tutto, il Butō è ancora piuttosto poco conosciuto al grande pubblico in Italia, meno ancora di altre forme di teatro giapponese come il Kabuki o il Nō, pur avendo esercitato grande influenza su più uomini di teatro e danzatori di quanto si potrebbe immaginare.
La sua storia è narrata in un libro di Giorgio Salerno di difficile reperibilità: Suoni del corpo, segni del cuore, edito nel 1998 da Costa & Nolan; oggi tuttavia è facile approfondire l’argomento sul web, partendo magari dai siti dedicati ai danzatori su cui è focalizzato questo articolo.
La compagnia di Butō attualmente più famosa è la Sankai Juku, creata nel 1975 dal coreografo, regista e scenografo Ushio Amagatsu (1949). In piena sincerità, confesso che gli spettacoli cui ho assistito non mi hanno particolarmente impressionato: li ho trovati come edulcorati rispetto alla potenza del Butō della prima generazione, con facili concessioni all’estetica occidentale del teatrodanza (una sorta di circolarità globalizzata: i danzatori occidentali che ebbero influenze dal Butō ora lo influenzano a loro volta, senza contare che esistono oggi molte scuole di Butō anche al di fuori del Giappone).
In effetti si parla attualmente anche di un’estetica del “New Butō”, in cui la “localizzazione” dell’interprete – ovvero le sue proprie radici sociali e culturali – partecipa del meccanismo psicofisico che regola questa danza “senza regole”, staccandosi quindi dal retaggio prettamente nipponico che a questa forma di teatrodanza diede origine.
È inevitabile, è la naturale evoluzione di qualsiasi forma d’arte in un mondo sempre più globalizzato e medializzato. Tuttavia chi scrive rimpiange le irripetibili emozioni che artisti come Kazuo Ohno e Kō Murobushi sapevano trasmettere, legate anche e proprio a una fruttuosa collisione di identità culturali diverse e lontane.
Written by Sandro Naglia
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