Maïmouna Guerresi: la costruzione di un ponte tra arte e fede, tra Islam ed Occidente
Patrizia Guerresi, fotografa e scultrice, nasce nel comune vicentino di Pove del Grappa nel 1941.
Convertitasi all’Islam, cambia il suo nome in Maïmouna, che in arabo significa “Felice, sotto la protezione divina”.
La sua arte vuole essere testimonianza della spiritualità sufi, vissuta in uno stretto legame tra Occidente e Africa, tra le culture di Italia e Senegal in particolare, con un partecipe interesse per la condizione femminile.
Il sufismo è un percorso attraverso il quale il fedele, non esclusivamente mussulmano, cerca di superare il limite del corpo, considerato prigione dell’anima, per unirsi spiritualmente a Dio, unica realtà. L’io non è nulla, il suo compimento è nell’unione in Dio.
Nelle opere di Maïmouna i soggetti sono decontestualizzati: potrebbero essere sia una diretta e immediata testimonianza, sia una scena artefatta, creata in uno studio fotografico; spesso sono narrazione complessa e presentano simboli alla cui interpretazione l’autrice non ci accompagna, lasciando a ognuno di noi la libertà, o piuttosto il dovere, di riflettere ed elaborare la nostra risposta personale.
Una delle opere fotografiche più rappresentative dell’artista è il polittico in sette pannelli M-eating, the Blue Table, Light Salt. Il lungo tavolo coperto da una tovaglia blu è l’elemento unitario, su di esso sono presenti quattro montagnole di sale.
Alla sinistra una giovane donna vestita di nero, seduta su un alto sgabello anch’esso nero, solo l’ovale del volto scoperto, osserva del sale che regge nel palmo della mano destra; ai suoi piedi giace un secchio rovesciato. Poco più a destra una bambina inginocchiata tira il vestito a una figura di spalle, vestita di blu. Al centro dell’opera, nel terzo pannello, una montagnola di sale è sul tavolo, mentre dall’alto pende un ricco lampadario in metallo e cristalli. Continuando il percorso verso sinistra, incontriamo una donna in abito bianco, l’unica che vediamo frontalmente, che rivolge lo sguardo verso il visitatore, e due donne in abito nero, ognuna con davanti il sale.
Sullo sfondo di tutti i pannelli, un muro di un azzurro biancastro, mentre il pavimento sembra nudo terriccio.
Come anticipato, l’autrice non ci aiuta nella decodificazione, anzi sembra volere nascondere ogni indizio non necessario. Non voglio forzare neppure io una risposta, che sarebbe soggettiva e inesatta, e mi limito a un paio di considerazioni.
Il sale è per molte culture un condimento prezioso, usato in passato come moneta di scambio, simbolo di prosperità e salute. Regalare sale è un augurio di ricchezza e versarlo porta male; se dovesse succedervi, gettatene un pizzico dietro alle vostre spalle, altrimenti, se non lo fate, peggio per voi. Ricordate che Giuda rovesciò il sale prima di tradire Gesù.
Le cinque donne si atteggiano come sacerdotesse, che gestiscano e custodiscano la preziosa sostanza.
Gli abiti da loro indossati, come da usanza mussulmana, nascondono i capelli, le forme e i lineamenti. Bisogna però ricordare che il sufismo, pur essendo molto legato alle tradizioni, non è una religione estremista: apprezza le donne e gli uomini che vestono secondo i canoni, ma non li impone o forza in nessun modo. Tutto è sempre una scelta dell’individuo.
Spesso le figure di Maïmouna sembrano altissime, testimonianza di un’elevazione dello spirito verso l’alto, di uno staccarsi dalla terra, come nelle fotografie Mother Minaret e Blue Trampoline o nelle sculture in resina Mam Diara e Moisa.
In Levitation, opera del 2007 realizzata in alluminio, il corpo sospeso della donna ha una perfezione e una bellezza classica, linee armoniose che si intuiscono sensuali sotto le vesti, le braccia aperte nell’accettazione di una visione. Il contatto con la divinità è evidente e richiama le estasi di santi e asceti, una purezza mistica che supera ogni affanno mortale.
Intense e bellissime le terracotte delle serie Fatima e Arawelo. Nelle seconde come materiale, oltre alla terracotta, sono utilizzati dei rami.
Non posso in chiusura non segnalare la suggestiva installazione Black Mountains, realizzata nel 2006 in lycra, resina e ferro, che comprende quindici figure femminili dai volti e dai vestiti neri, con gli sguardi rivolti verso l’alto, in preghiera o in contemplazione.
Se in Levitation la divinità veniva raggiunta con un percorso intimo e personale, ora l’artista ci ricorda che la vera fede può anche essere una strada condivisa, dove l’energia della preghiera e dalla meditazione di ognuno si somma e si unisce a quella delle altre persone.
Maïmouna Guerresi nella sua lunga carriera ha esposto praticamente ovunque nel mondo: in Mali, Finlandia, Baharain, Egitto, Nigeria, Cina, Corea del Sud, Giappone, Canada ecc.
In Italia è stata presente alla Biennale di Venezia, al Museo Ettore Fico di Torino, e alcune sue opere appartengono alla Gam, Galleria d’Arte Moderna, sempre a Torino.
Written by Marco Salvario