“La noia” di Alberto Moravia: una incerta piroga esistenziale

Una sorta di assai noiosa sofferenza colpisce il re-agente letterario allorché, nel leggere un’opera, sottolinea un numero eccessivo di passi, il che normalmente capita quando l’autore si chiama Alberto Pincherle, in arte Alberto Moravia, autore di questa non spassosissima Noia. Egli è un artista sobrio e complicato come pochi e, come pochi, omogeneamente multiforme: vero ossimoro scrivente.

La noia di Alberto Moravia
La noia di Alberto Moravia

Mentre stavo desinando con una mia consanguinea, tra il primo e il secondo, che è pur sempre l’attimo fuggente, sebbene rilassato, in cui do il meglio di me come acuto critico di un’opera, tale sua caratteristica mi ha consentito di dire che La noia di Alberto Moravia è un romanzo complessivamente semplice e semplicemente complesso.

Per il lettore è difficile emozionarsi a pagina, sparo un numero a caso, 134 più che alla 267 o alla 401 (in realtà cessa di esistere alla 347). Ed è praticamente impossibile non rimanere pressoché sconvolti prendendo in esame in una riga a caso del libro.

Ecco degli esempi: “La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà.” – questo a pagina 7 – “… si era tirata la maglia sulla testa, mostrando le ascelle bianche con pochi peli lunghi, molli e bruni; ma il seno era rimasto dentro, e non si vedeva che il busto magro di adolescente.” – e al lettore dell’anno ’24, colpisce l’idea di quel rado cespuglio, che forse non si riscontra più in natura, se non forse in qualche selva amazzonica o della Guinea Equatoriale. – oppure: “Cosí la presi, senza che si spogliasse; con una rabbia e una violenza maggiore del solito, parendomi che il suo corpo…” – etc etc. Di esempi analogamente scombussolanti ne potrei citare a bizzeffe. Dimenticavo di rilevare un’immensità: è sempre l’io narrante a discorrere, il qual soggetto, dopo aver ingurgitato anche pagina 347, non ho ancora deciso se prenderlo a ben volere o se ripudiarlo per sempre dalla mia vile memoria.

Un Prologo e un Epilogo rinchiudono, quasi strozzando, nove capitoli di notevole lunghezza. L’io narrante è Dino, un pittore che sceglie di fallire la sua missione artistica, a causa della sua scarsa energia emotiva, dopo aver come scannato l’ennesima (infame?) opera: “a colpi ripetuti, trinciai la tela che stavo dipingendo e non fui contento finché non l’ebbi ridotta a brandelli.” – in una specie di action destroying, che forse sarebbe stata apprezzata da un vulcanico come Jackson Pollock, o da un concettuale come Piero Manzoni. O forse no: Dino difetta di quell’umano sentire che è essenziale per la creazione artistica e che si chiama passione.

“… la noia aveva lentamente ma sicuramente accompagnato il mio lavoro durante gli ultimi sei mesi, fino a farlo cessare del tutto in quel pomeriggio in cui avevo lacerato la tela.”ognuno ha la Musa che si merita, dopo di cui può anche licenziarla e passare ad altro. Ma cosa sarà poi, quell’altro?

Tipico ragionamento uroborico di Dino (e di Alberto):Dunque la noia, oltre alla incapacità di uscire da me stesso, è la consapevolezza teorica che potrei forse uscirne, grazie a non so quale miracolo.” – stai accorto, Dino: un mio affine ormai per nulla sperduto (mi telefona varie volte al giorno, anche se mi sono da tempo divorziato dalla sua famiglia) così si espresse: In teoria saccio tutt’e cose ma è la pratica che m’esce difficile.

Dino, o Alberto che tu sia, lascio all’eventuale antropologico culturale di turno la disamina dell’affermazione che ti viene naturale di fare a pagina 10. Mi pare stupenda, ma è tua, e non te la voglio rubacchiare. Però la interpreto: la noia è quel demonietto che fa tramutare, secondo la logica einsteniana, l’energia in massa e viceversa. Se non ci fosse, essa non potrebbe essere inventata, in quanto è lei l’artefice di ogni cosa. La noia è fatta di enzimi e di reagenti chimici. La noia catalizza! E fa innamorare un genio come Leopardi!

“La noia, che è mancanza di rapporti con le cose…” – sì, è così, dopo averle partorite, le espone alla ruota o le dà in affido ai servizi sociali.

Un cenno sulla famiglia. Il padre è, anzi, era uno squattrinato nobile che sposò per interesse tua madre, la celebre riccona, per scapparsene subito via, essendo affetto da “dromomania”, salvo tornare a casa giusto per fare il pieno di fondi, al fine di potersi ancor meglio imboscare (“in Afghanistan oppure nella Bolivia”, o chissà dove), fino a che, un bel dì, cui “Una raffica di vento, nel mare interno del Giappone, capovolse un ferry-boat con un centinaio di passeggeri e mio padre annegò con loro.” – R.I.P.! La sua, era, come tu dici giustamente “la noia volgare” – quella che normalmente infetta, come se fosse un covid o un raffreddore, le persone si fa per dire normali, mica come te, che sei un genio incompreso da tutti, anche da tua mamma e da te stesso.

L’atto del leggere stranamente (antifrasi) t’annoia: “Le parole sono simboli di oggetti, e con gli oggetti, come ho già detto, nei momenti di noia, io non avevo rapporti.”

Colgo a pagina 22 una divertente notizia: “… io non volevo morire quanto non continuare a vivere in questo modo.” – ricordati che la tua è un’infima speranza che è sempre, noiosamente, accolta almeno fino all’ultimo respiro emesso dall’annoiato.

La madre è un’ottima donna con alcuni carismi: grazie alle sue speculazioni finanziarie fa un sacco di soldi, e lascia libero di esistere nell’angoscia te, come fece col padre, a cui concedeva ogni volta la facoltà d’abbandonarla.

Intorno a pagina 65 (e seguenti) parli di Balestrieri, un tuo collega pittore che ti reca disgusto per la sua pochezza artistica, ma così opimo di donne che non si sa perché e come lui riesce ad accalappiare come modelle/amanti. Fra di loro brilla (ulteriore antifrasi) una smunta ragazzetta sui “diciassette”, che alla fine ti recherà a una mezza rovina (spoiler), e che un giorno scoprirei che si chiama Cecilia.

La descrivi con dovizia di particolari (sei un astratto figurativo, che non sa di esserlo) a partire da pagina 68: lo dico per chi è eventualmente interessato. In tre parole: non t’attizza affatto (sono quattro, alla fine). Per tua fortuna/disgrazia, presto il tuo rivale de-cede e tu, più o meno inconsapevolmente, erediti la fresca giovinetta.

Come già facesti, in modo da far vergognare il lettore, ma di certo non te, ora che è morto Balestrieri e tu te la trovi casualmente (e disgraziatamente) in casa, la sottoponi a “un interrogatorio quasi poliziesco, al quale lei, d’altronde, pareva sottomettersi di buon grado…”occorre diffidare di due tipi di persone, quelle eccessivamente reattive e quelle apparentemente atarassiche. Lei fa decisamente parte della seconda schiera. È reticente, quanto tu sei inquisitivo. Chi vince fra i due? Secondo me il match finisce a reti inviolate. D’ora in poi, prima che tu ne prenda coscienza, sarai a lei, per sempre, correlato quantisticamente, entangled. Anche lei lo è, a modo suo. Il suo nome, per la cronaca, è “Cecilia Rinaldi” – e te lo scrive su “un pezzo di carta” – insieme al suo “numero di telefono” – ed è fatta! Che cosa? La tua dolente sorte…

Scopri poi che “… Cecilia, cosí esperta nel rapporto sessuale, non sapeva baciare” – nel bacio, come giustamente spieghi, è racchiuso un simbolo “nel quale il piacere è più psicologico che sensuale e la psicologia, come si vedrà, non era il forte di Cecilia…”il suo forte non era l’indifferenza, né la resilienza, bensì un’armonica conciliazione fra queste due silenti virtù.

Lo ripeti troppe volte: ha un fisico insignificante, da bambina (nel senso di braccia, musetto etc), con un seno abbondante, da donna venusta e matura.

L’uomo più di tutto anela a essere dissetato, al fine di placare il suo nauseabondo amaro in bocca.  “Veramente, Cecilia pareva sempre duplice, ossia donna e bambina nello stesso tempo; e non soltanto nel corpo ma anche nell’espressione e nei gesti.”

“Dopo l’orgasmo…” – che i francesi chiamano petite mort“… che le scuoteva più volte il corpo come una piccola crisi epilettica ma non turbava l’immobilità apatica del volto, Cecilia giaceva esausta sotto di me.” – ed era l’unico attimo in cui tu riuscivi a sovrastarla, scusami se te lo dico. La tua sta diventando una disgraziata kam’a, passione; la sua, non so, forse una gratuita abitudine.

E poi ti ripeti, sempre più noiosamente, le stesse questioni, come talvolta capita a me: “… udivo squillare il campanello nella nota maniera breve e reticente…” – e poi la signorina Cecilia entrava nel tuo ampio e ristretto mondo (il tuo atelier).

Tu trattai da schifo tua madre, poveretta milionaria che non riesce a tenersi appresso il figliolo disgraziato che sei, ma a cui dà del denaro, tutto quello che lui esige d’avere, come faceva con l’ormai deceduto marito.

Compi una mezza estorsione, quando le intimi: “… Su, dammi questo denaro.” – comportandoti, scusa se te lo faccio notare, come una prostituta, essendo quello lo scotto che la signora deve pagare per vederti ogni tanto.

Quando scrivi che, secondo come ti immagini il cosmo, “non c’è niente fra le stelle, lontane, le une dalle altre, miliardi di anni luce…” – vai errando, poiché ignori che l’attrazione gravitazionale (sebbene non sia stato ancora rinvenuto la sua ontologia) determina, per esempio, il livello del mare, ogni nostro pur minimo atto, nonché ogni rivoluzione degli astri intorno alla galassia e ogni rotazione intorno a se stessi.

Tornando quaggiù, alla tua bella, ora giungi a una splendida (e fallace, perché è solo uno dei tanti tuoi inizi) conclusione: “… adesso soffrivo e sentivo che non avrei potuto lasciarla finché non mi fossi di nuovo annoiato.” – ma lo sai o no che lo spazio e il tempo sono discontinui, almeno così si dice in giro dai tempi di Zenone di Elea?

Altra faccenda pluri-ripetuta: quando lei ti entra in casa, ti salta addosso, com’è sua costumanza (a meno che non sia tu a farlo) e, ogni volta che lo fa, scrive Alberto Pincherle che “lo bacia maldestramente e freddamente, con le sue labbra puerili e allo stesso tempo gli assesta al ventre il solito colpo duro e voglioso col pube.” – e non si capisce poi chi penetra chi. Quel lo è il tuo rivale, un biondo (ossigenato), alto e più giovane di te attore con cui la tipa (e presto ti confesserà con noncuranza il suo crimine), ti sta tradendo. Tu immagini il loro incontro sessuale, non potendo vivere, un po’ annoiandoti, al momento, il tuo. E poi, narri che, quel pomeriggio, “Cecilia fu puntuale. Alle cinque udii la nota scampanellata che tanto le rassomigliava, cosí breve e reticente e, al tempo stesso, cosí intima.” – siete due abitudinari ripetitivi.

Ora che tu la interroghi come sempre, come sempre lei svicola con noiosa pacatezza fino a che… Ma questo non accade oggi, forse domani, o un altro giorno… Le bugie hanno il seno grosso, le spalle piccole, le gambe corte e il naso lungo, ma prima o poi tutti i pettini vengono al nodo e viceversa.

A pagina 174 ti attenti a dire chela bocca in lei era un orifizio falso, senza profondità né risonanza, che non comunicava con niente di interiore.”: un immoto laghetto appenninico?

Se ti gli chiedi, in una di quelle tue pallose perrimesonate:Quante stanze avete?” – lei ti dà la sua riposta esatta: “Non le ho mai contate.” – perché, con le cose, Cecilia ha la tua stessa tendenza a ignorarle quando non servono nell’immediato, solo che lei è una campionessa mondiale, tu un innocente (?) dilettante. Si tratta, come dici tu a pagina 178, “un buon esempio di quello che ho chiamato l’astrattezza di Cecilia.

Le fai il primo quesito filosofico che ti balza in mente (è il maggiore, del resto): “Ma tu pensi mai alla morte?” – e la sua risposta è spiritualmente cinica: “No, non ci penso mai.”

Suo padre sta male da morire? Lei dice: “Finché è vivo, anche se è malato, non penso alla sua morte. Ci penserò il giorno che morirà. Adesso penso soltanto che è malato.”e Krishnamurti, dall’alto dei cielo, mi sa che stia annuendo. Come il maestro testé citato, anche lei vive al di là del conosciuto, se non nell’istante in cui il conosciuto non le serve per andar avanti.

Come tuo scopo vitale, per dimostrare che sei becco, ti accorgesti di una necessità: “dovevo spiare Cecilia direttamente”.

Tuo obiettivo, lo spieghi a pagina 224, è “la svalutazione di Cecilia, la sua riduzione da creatura misteriosa a piccola adultera insignificante.”

Messa alle corde, quell’ingenua adultera confessa (con tranquillità) il fatto: ama (anche) un altro. Dopo di cui, dici, “Cosí la presi, senza che si spogliasse…” – e le soffiasti poi “in faccia” ‘sta dolce parolina (“nel momento dell’orgasmo”): “Troia.”.

Lei svariate volte ti dice che tu e il biondone, “Siete due cose diverse.” – e tu così le replichi: “Io ti do il denaro e Luciani l’amore, non è cosí?”. No, non glielo dici, ma ti limiti a pensarlo. Anche questo è uno dei tuoi ritornelli: dentro di te covi delle male parole, ma all’ultimo spesso ti censuri. Non sempre hai la sfrontatezza che t’illudi di possedere.

E tu la paghi regolarmente, sperando che, quando fai finta di scordarti, lei ci rimanga male. Invece, allorché non scuci manco una lira, “… Cecilia, infantilmente impenetrabile, mostrò di nuovo di non essersi accorta di niente.” – mi hai fatto ridere: impenetrabile! Detto di lei! Ah ah ah!

Il tempo, secondo taluni fisici, non è altro che un’illusione appesa qui e (poi) là. Forse anche per “Cecilia: passato e futuro per lei non esistevano; soltanto il presente più immediato, anzi, addirittura il momento che fuggiva, le pareva degno di considerazione.” Per te (e per tuo padre) e per tua madre, il tempo è una cosa che bisogna necessariamente (e noiosamente) inseguire perché, prima o poi, servirà. Per l’istantanea Cecilia tutto era un acte gratuit (anche divertente, però). Lei mai cova in mente un numero eccessivo di parole, però, a pagina 270, dice: “No, tu stai zitto, la sola volta che hai parlato, mi hai detto: ‘troia’.” – la poverella qualcosa sa ricordarsi, dunque. Anche, se poi, due pagine dopo, dice: “Ma io non ho memoria, lo sai. Non ricordo neppure le cose che tu mi hai detto cinque minuti fa.” – mente oppure gioca, oppure non lo sa manco lei?

Mi fai ridere, a volte bella, con la tua naïvetè: Dino ti chiede se “ti piacciono le canzonette napoletane”, e tu gli rispondi, senza tanto pensarci: “Beh, dipende. In trattoria, sí. Se venissero a suonarmele mentre dormo, no.” – trattasi di banalità assolutamente condivisibile!

Alberto Moravia citazioni
Alberto Moravia citazioni

Tu, Alberto Pincherle, ora fai dire al tuo io:Su tutto questo non so dare altra spiegazione, se non che la contraddizione costituisce il fondo mobile e imprevedibile dell’animo umano.”

Noiosissima e ulteriore ripetizione: “Cecilia si presentò con la solita puntualità, all’ora fissata.”

E ti (anzi: ci) avvisa con noncuranza di un’atroce verità: “Dentro non sono di nessuno. Dentro ci sono i polmoni, il cuore, il fegato, gli intestini. Che te faresti?”.

Poco o nulla, perché quello che ci serve per proseguire il nostro percorso esistenziale è il motore, la centralina: “Cecilia era sempre, per cosí dire, pronta al rapporto sessuale” – al quotidiano, salvifico, movimento del suo minuscolo corpo fisico.

Bisogna che ora confessi una mia assurdità: sto leggendo, in contemporanea, I miei pensieri di Teresa di Lisieux, che a Ben Altro puntava. Ma anch’ella, se ho ben capito, perseguiva il fine di andare sempre avanti, verso il suo Divino Ideale. Che è, pur con altre più trite sembianze, quello di Cecilia. Facile a dirsi: il suo fine costante è la giornaliera esistenza.

Lei è capace di rispondere al tuo quesito: “Ma il denaro ti piace?”con la più che serena delle risposte: “Quando ne ho bisogno, sí.”

Non sei fuori strada, come talvolta ti succede, quando dici: “Sapevo pure che lei non era in grado di pensare che ad una cosa sola per volta, quella che era più vicina e immediata e che lei piaceva di più.” – similmente una particella segue unicamente la sua geodetica, lo spazio (curvo) più limitrofo da A a B.

Tót à fîn, ogni passione o cessa o si evolve in qualcos’altro. Alla fine del Capitolo Nono ti accade un accidente o incidente, come dir si voglia.

Nell’Epilogo de La noia pare che tu sia guarito da quel male oscuro che è la brama di possedere l’ineffabile. La domanda che si pone il tuo lettore, a cui lo stesso Pincherle forse non saprebbe rispondere, è: quanto durerà la tua rinuncia a perseguire quel che non potrai mai raggiungere?  Riuscirai a voler bene a quella ricca patrizia che è tua madre? Una volta le dicesti che ti ripugnava l’idea di esistere insieme a lei (ho cambiato, colpevolmente, le tue parole). Sappi che la tua mammina, nel suo borghese modo, in fondo ti ama troppo. Solo tu le sei rimasto covato nel suo lussuosissimo e desolato cuoricino.

Mi domando se, come successe a tuo padre, prima o poi la tua piroga esistenziale finalmente si ribalterà.

Quien sabe?, direbbe Tex Willer!

In sintesi?

La noia è un romanzo mirabilmente terribile, noiosamente intrigante, pincherlamente moraviano.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Alberto Moravia, La noia, Bompiani, 1978

 

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