“Underworld” di Don DeLillo: il mondo geme sotto di noi?

Finalmente, a pagina 80 di “Underworld” di Don DeLillo, colgo qualcosa a cui aggrapparmi per iniziare la mia reazione scritta.

Underworld di Don DeLillo
Underworld di Don DeLillo

Ma prima di parlarne, mi viene in mente una frase che ho raccolto a pagina 59, in chiusura di quello che l’autore chiama Prologo – Il trionfo della morte: “Tutto sta scivolando indelebilmente nel passato.” – che somiglia al detto arşân Tutto ha fine.

Che significa se non che, come ha previsto svariati migliaia d’anni fa l’ignoto autore dell’Ecclesiaste, tutto è vanità, anche se, contemporaneamente (il tempo è la maggiore delle illusioni, a meno che non lo si concepisca, come il fisico Julian Barbour, come un unicum che esiste sempre, un’infinita serie di cartoline appese a un filo tramite un ciappetto) se, dicevo, nel medesimo ed eterno istante, non c’è niente di nuovo sotto il sole: però esiste e lo si può (o lo si deve?) trascrivere.

Sennò quell’autore biblico mica si prendeva la briga di affaticarsi tanto.

A pagina 75, essendo già nella Parte prima – Long Tall Sally, Primavera-estate 1992, leggo: “Sapete come certi posti acquistino una forza sempre maggiore nella mente col passare del tempo.” – evolvendosi come se fossero animati da un’energia sconosciuta, per cui paiono diventare non solo memorabili, ma immortali, assai più di noi.

A pagina 79 (quante cose ho raggranellato, senza manco accorgermene), un’intervistata di nome Klara parla di un ritratto di “una giovane donna in gonna a balze e topo con le bretelle. Era molto alta e molto bionda, aveva un paio di gambe straordinarie e teneva le mani…” – a volte, vedendo siffatte bellezze che paiono esistere solo sui rotocalchi o nei video, mi domando se sono reali.

Anni dopo mi accorgo, che anche loro sono invecchiate: l’entropia non perdona nessuno. Beh, quella ragazzona dipinta pare sia davvero esistita: “sotto il dipinto c’era il suo nome a grandi lettere: Long Tall Sally…” – Sally l’altona lunga.

“… Forse faceva la cameriera in un bar di aviatori. O la ragazza di qualcuno in una piccola città di provincia.”la donna che parla non dà importanza a questi fatti di “vita individuale”: “… io voglio che questa vita faccia parte del nostro progetto…” – qualunque esso sia!

Poi lei si ricorda di una foto: “… mi ci è voluto almeno mezzo minuto per rendermi conto che la donna ai margini dell’inquadratura ero io…” – ricorda che “si trattava della famosa festa, un evento epocale…” – che aveva a che fare con i “giorni cupi del Vietnam” – e quello che mi ha smosso e costretto a interrompere la lettura e a scrivere queste amenità è che tutto accadeva “accanto a un uomo che potrebbe essere Truman Capote o J. Edgar Hoower, l’uno o l’altro, perché avevano la stessa forma di testa, e la maschera, l’angolazione rendono difficile stabilire quale dei due.”il che m’angustia, perché guardando su Uncle Google m’accorgo che è proprio così, l’egregio scrittore assomiglia un po’ al noto funzionario F.B.I.

Ma quello che più m’inquieta è quanto la donna va dicendo: “… cosa c’è in questa foto che mi rende così difficile riconoscere me stessa? Non so chi sia quella persona, ho pensato, né cosa si faccia lí. A cosa sta pensando? Che mutande porta sotto quello stupido vestito…” – ecco, questo è il problema.

L’uomo moderno, anche quando svolge funzioni eccelse, e in cui è vestito come la circostanza lo impone, sotto ha le mutande, non si sa quanto pulite: anche se è un sovrano, o un pontefice, o un giudice che delibera, un capo di stato etc. questo ormai ci unisce come poco altro al mondo: la necessità di indossare slip, e di non girare nudi (se non in campi appositamente creati per occasionali nudisti).

Ma ora sospendo queste scemenze e torno a leggere, finalmente.

Dice l’io parlante, l’ennesimo che passa e che aspira a dire la sua:E più ascoltavo, trovandola sempre meno appetibile, più volevo infilarmi nelle sue mutandine, per motivi che nessuno al mondo riesce a capire.” – forse per vedere di nascosto l’effetto che fa

“Non sapevo perché la volevo, ma sapevo perché non la volevo.” – se capire cosa significhi essere è un problema, immaginati non essere. E uno è poi costretto a scovare la prima spiegazione che passa: “Sarebbe stato sleale nei confronti di Klara.” – si è morali perché il ricordo ce lo intima, non la scena attuale. Ma come puzza di religione!

“La mia azienda si occupava di rifiuti. Noi manipolavamo rifiuti, trattavamo rifiuti, eravamo i cosmologi dei rifiuti.” – forse eravate come quei cosmonauti, che seminarono la loro monnezza sull’unico nostro satellite: M’hanno rubato anche la luna!, si lamentava Alfonso Gatto.

“… e controllavo uomini in tuta spaziale che seppellivano bidoni di rifiuti pericolosi in giacimenti di sale sotterranei vecchi di milioni d’anni, i resti disseccati di un oceano mesozoico.” – e se fossi stato un precario anch’io avrei chiesto di dare il mio contributo a quella delinquenziale terra dei fuochi.

“È tipico dell’adolescente immaginare la fine del mondo come un accessorio del proprio scontento.” – e la vita, quando è giovane, quando è fresca, paradossalmente pare che bruci (sé e quel che le sta attorno) più in fretta che può.

“Rimisi a posto i libri sugli scaffali. Mi fermai nella stanza a guardare i libri…” – è sempre stato come un rito per me.

“A casa nostra volevamo una spazzatura pulita, sana e sicura…” – l’orrore sia ovunque, but not in my courtyard “Waste, ovvero rifiuti, è una parola interessante, che si può rintracciare nell’inglese antico e nel norvegese antico e si può fare risalire al latino, con derivati quali vuoto. Svanire e devastare.”vastus è deserto. The waste land e The hollow men di Eliot, ne sono due strambi esempi.

“Marian e io vedevamo i prodotti in termini di spazzatura anche quando luccicavamo sugli scaffali dei negozi, ancora invenduti…” – per cui capitava che: “… Ci chiedevamo, Che tipo di spazzatura sarà?” – anzi, meglio: “Quanto vale come spazzatura, ci chiedevamo?”.

Finita la sezione, c’è Manx Martin I, di cui poco cito e riporto se non: “No, non ci credo. Quale palla?” – e quel cinnazzo dice che possiede “quella del fuoricampo che ha fatto vincere il campionato…” – una reliquia santa, come quelle che ci sono in talune cattedrali: uno delle tre o quattro rotule o gomiti di un qualche santo.

Ma ora è il tempo della Parte seconda di Underworld – Elegia per sola mano sinistra – Metà anni Ottanta – primi anni Novanta. Raramente (ma talvolta occorse) mi parve di scrivere una reazione così sgangherata a un pur nobile e complesso testo. Che questo lo sia, nobile e complesso, non ho dubbi, ma pure esso è variamente sgangherato. Dirò di più: ognuno ha i gangheri che si merita.

“Era una di quelle giornate, su in mezzo ai pini, in cui il sole e la brezza dolce ti penetrano fin nelle mutande.” – e da esse tu emetterai i tuoi singulti, i tuoi aulenti afrori.

Dice un vetusto signore: “La mia defunta moglie ci avrebbe servito il tè con i biscotti appena sfornati, ma a parte questo tutto è rimasto uguale.” – forse simile, diciamo. Lo dice un altro proverbio delle mie parti che di quello che manca, si fa senza come a Fidenza.

Si parla ancora, tant’anni dopo, “della famosa partita di spareggio del 1951”, quella che occorse quando forse, finalmente!, anche in Russia fu realizzata la prima bomba atomica! Viviamo nell’era più esplosiva di tutti i tempi! Trent’anni sono un battito di ciglia di un gigante, quale l’uomo attuale crede d’essere! Ma si tratta di un gigante affetto da nanismo.

Siamo in un tempo che “quando devono coniarli, i loro termini, significa che ti stanno dicendo addio e tanti saluti.” – questo c’insegna l’Antropocene! e il Capitalocene! Poi Matt parla di “Gangbuster” – “scacciabande” – e questo non è un libro irreale, anzi, lo è, anche se è così realistico. La realtà viene inventata come fece quel bastardo pittore che per primo realizzò uno sfondo stupendo, con una magica e aerea prospettiva, e poi c’infilò davanti una signora un po’ in carne e la chiamò Lisa, forse perché logora nell’anima, però sorridente all’esterno. Questo è il realismo a cui penso, leggendoti, Don, no, non quello di Leonardo, che me lo sono inventato, ma il mio che l’ha fatto (ri)nascere come se fosse davvero accaduto.

Ogni tanto un personaggio fa da professore all’altro e l’altro ascolta, che talvolta annuisce. Io non lo faccio mai, avendo spesso il torcicollo. Dimostrami che sto mentendo, se puoi!

“Questo è lo spirito di New York. Eddie Robles con una scacchiera in miniatura che provava le mosse alle due del mattino nella sua cabina, e la gente che faceva capolino allo sportello per proporgli una partita, e lui che accettava, perché giocava, giocava davvero, dietro cinque strati di vetro antiproiettile, con i treni che sfrecciavano vicini alla notte.” – cose che capitano una notte sì e l’altra pure, anche a Gavâsa, Rèş. Siamo indigeni rintanati in un villaggio globale, che i sachem dirigono stando opportunamente celati, essendo privi di dignità umana.

Il tuo romanzo Underworld è così pieno di azioni, di personaggi, di situazioni, che poi uno torna indietro e rilegge, quasi fosse la prima volta. O aveva letto male, o aveva dimenticato. No, non dico l’essenziale, ma lo sciabordio dei milioni di particolari.

“C’è un equilibrio, una specie di contrappeso fra la continuità del tempo e l’entità umana…” – per forza, è l’uomo che la gestisce, la metafora del tempo, scordando ogni volta la sua illusorietà.

Albert dice: “Pensaci bene, Einstein, caro omonimo Albert…” – egli fu il primo ad accennare a una salvifica scorciatoia che negava il fatto che non ci capiamo granché di quel che realmente accade. Ovvio che ho interp(i)olato, il suo complesso pensiero.

Perciò ha senso il detto latino che citi: “Festina lente. Affrettati lentamente.”

“Come il tempo sui libri. Il tempo sui libri passa nel giro di una frase, molti mesi e anni.” – ma non nell’Ecclesiaste!. Lì tutto è fisso, fesso, rotto.

“La preghiera è una strategia pratica, la conquista di un vantaggio temporale nei mercati capitali del Peccato e della Remissione.” – serve a farci ricordare che, anche solo respirando, si è in fallo.

Noi che siamo ficcati dentro “l’era della spazzatura domestica” – l’era di tutto quel che porta alla fine di tutte le ere. Non so, Don, ma tu vivi in America e allora ti spiattello una diceria che gira in Europa, diffusa da chi ha avuto degli yankee teenager tenuti in casa alla pari: sono simpatici, comunicativi, ma più che altro capaci di pattumare misticamente metà delle risorse: “lasciando buche scavate a metà, utensili buttati, bicchieri di plastica, pizza alla salsiccia.” – etc… Ci sono volontari, nelle vostre grandi città, che vanno raccogliendo il cibo che è stato messo nei bidoni della spazzatura, per donarlo ai poveri. Lo vidi un reportage anni fa, girato da uno yankee come te, non so se anche lui di origine italiana. Non me ne frega nulla. Voi yankee non siete né meglio né peggio di noi: ma siete più avanti, più prossimi al baratro.

“Era su questo muro che Ismael Muñoz e la sua banda di scrittori di graffiti dipingevano a spray un angelo commemorativo ogni volta che nel vicinato moriva un bambino. Angeli rosa e azzurri coprivano quasi la metà dell’alto muro.” – in Lingue d’Europa di Emanuele Banfi e Nicola Grandi leggo che sui muri di Pompei sono rimasti dei graffiti il cui stile è lontanissimo da quello degli autori coevi – che ora consentono agli studiosi del latino di ampliare le loro conoscenze glottologiche. Ed è per questo che amo salvare non solo i disegni dei murales, le cui immagini stanno riempiendo le memorie di massa del mio computer, ma pure le scritte a volte dissennate che sono sparse nel territorio. Anch’io, come te, mi chiedo come facciano a realizzare opere sui cigli di rischiosi viadotti: “Era il pericolo che gli scrittori affrontavano per produrre i loro graffiti. Non c’erano scale antincendio o finestre, sul muro commemorativo, e gli scrittori dovevano calarsi dal tetto attaccati a una corda, o lavorare su impalcature improvvisate e traballanti, quando facevano un angelo nella parte più bassa.” – come se quel beato pennuto avesse loro prestato le sue ali. Non sono buoni o cattivi, ma sono arditi. A volte disegnano degli orrori, a volte delle meraviglie. Come tutti gli scrittori, come te per esempio.

“Se si sa di non valere niente, solo la scommessa con la morte può gratificare la vanità.” – quel che non c’è, come se si ambisse, titillandone l’immagine, al tutto: ma che fesseria!

A pagina 255 parli del complottismo che nasce quando sorgono le catastrofi. Quel che conta è diffondere la certezza che tutto è (accade) perché qualche infame l’ha voluto. Gli untori sono sempre gli altri. È la fede che t’impone l’Anarchico Potere di pasoliniana memoria. Devi difendere il Suo mondo da quegli assassini. Perché è quel bieco Lui è chi ti permette di sopravvivere.

“La morte era solo una versione allargata del mercoledì delle Ceneri.” – e dopo di cui è sabato, e poi domenica. Giovedì e venerdì: non pervenuti!

“La fede del sospetto e dell’irrealtà.” – non date retta a quel che udite, vedete, toccate. La realtà ve la confeziono io, a prezzi popolari.

Due persone mature non si amano ma si posseggono. Una frase che non riesco a non riportare: “Lei gli fece cadere la cenere sul pelo del pube.” – quel che eravamo, fors’anche polvere. Ma pure ora stiamo ardendo, o no?

Si ha bisogno dell’altro (a prescindere dal sesso, talvolta): “… puoi anche non crederci o infischiartene, ma lui non era veramente se stesso finché non parlava con lei.” – e questa è la vita sociale, l’uomo è un lupo solitario che sogna ogni tanto il branco.

Appena abbiamo un po’ di tempo, tuffiamoci nella Parte terza de Underworld – La nube della non conoscenza – primavera 1978. Un tuo recente avo era molisano. Dice l’io narrante: “La parola che non spiegherebbe niente in questo caso è lontananza”nell’idioma di Dante. Non spiegherebbe, forse solo avvolgerebbe. Poi c’è “Dietrologia” – che vuol dire complottismo, bah… “– Cos’è che sappiamo? – chiede Sims.” Dopo un po’ spunta la risposta: “– Che tutto è collegato, ecco cosa sappiamo – disse Jesse.” – che un uovo è rotondo e che ogni suo punto si chiama punto della sfera.

Terzo vocabolo italiota: “Aiuto.  – Troppe sillabe.” – dice qualcuno. Sì, a dirlo uno fa in tempo ad annegare. Help! Poi tocca a un noi: “Ci sedemmo nel suo ufficio.” Poi a un lui: “Stava aspettando Chukie Wainwright”. Lo riporto per vedere l’effetto che fa al lettore del tuo lettore: “Marvin sentí una fitta al petto come un coreano in pigiama che spezza un mattone con la forza della mano dura.” – dubito che tu abbia mai assistito a una scena del genere. Te la sei costruita mentalmente. Bravo!

Nel Capitolo terzo torna l’io narrante:C’erano sette avventori, io e Sims compresi…”. Uno degli argomenti che lasci sospeso è: “Come si chiamano quelle scarpe di cui sto cercando di ricordare il nome?” – e anche dopo qualche pagina il quesito rimane insoluto. Lo stesso Uncle Google non m’assiste!

Si parla ora, come già in precedenza, di una nave che sta girando per il globo, chissà perché, chissà con che, chissà per chi: “Da un porto all’altro. Da quasi due anni.” – come passa l’inesistente tempo! Poi c’è l’interessante questione su quanti milioni siano i “neri in America” – e Sims sospetta la truffa. Mi domando anche quanti siano i continenti: forse sono 5 (senza contare né il Sesto continente, che secondo Folco Quilici è l’oceano, ma ve ne sono tre, di quegli acquitrini!; né l’Antartide, né il Polo Nord, poveretto, così privo di coste). E Sim tira ora fuori l’annosa questione della Groenlandia, che nessuno ha mai visitato, non si capisce come le sue dimensioni e la stessa posizione varino di continuo nelle cartine: Se pare che Sims non faccia che creare questioni idiote, si sappia che lo fa per ridere. Tutto ciò è molto interessante. Ogni tanto rileggerò questa parte per vedere se ho rimembrato l’essenziale.

Ora tocca a Manx Martin 2, di cui ricordo i punti salienti: “Bene, ecco le notizie. Proprio all’altro capo del mondo. E voi ve ne state qui a dire che tanto per voi non significa niente…” – ma di cosa si sta cianciando? Maledizione!, ora “i russi hanno fatto esplodere una bomba atomica all’altro capo del mondo.” – e voi yankee avevate l’esclusiva! O no?!

Poi si parla ancora di quella biglia rubata: “Ti dirò una cosa, forse riuscirai anche a vendere la palla da qualche parte, ma certo non ci comprerai un divano da Ludwig Buaman…” – qualunque cosa sia. Infine: “L’immondizia viene sballottata da tutte le parti e sembra dotata di vita propria, una specie di minaccia vegetale in fermento che fa pressione per uscire dai bidoni e dalle scatole, è rumorosa e irrequieta, ma forse sono solo gli insetti che si agitano, in preda al mal d’auto.” – fine della fola? No, Don, ti devo dire una cosa. La tua scrittura non è spazzatura, essendo eccelsa come poche che ho avuto la gioia di trattare nell’ultimo mezzo secolo. È soltanto caduca. Dopo che le cose sono state dette, non perdono il loro senso, ma lo smarriscono nella formazione del pensiero successivo: un’energia che si trasforma in massa, che torna energia etc etc. Pensa a quel ramo del lago di Como etc di di manzoniana memoria, oppure a un romanzo (scegli tu quale) di Cesare Pavese. Il lettore tutta la vita si rimembrerà le parole una a una. Di te egli ricorda alcune battute e la sensazione che sai far nascere in lui, che però non vede l’ora di arrivare a co’, come diciamo noi, in cima, a Codemònd, ridente frazione arşâna, per vedere cosa è rimasto in testa.

Don, ho una grandissima fiducia in te, ma talvolta mi sorgono dei legittimi dubbi.

Parte quarta – Cocksucker blues – Estate 1974: “Eric aveva una finta balbuzie che gli piaceva infilare nella conversazione, un’abitudine che aveva sviluppato per prendere in giro se stesso o l’interlocutore anche se nessuno dei due balbettava, o forse imitava qualche comico da night club, oppure semplicemente un personaggio pubblico. – Matt non avrebbe saputo dirlo.” – ma Victor Hugo sì, anche Honoré de Balzac, Henry James forse no, anche se alla fine avrebbe detto la sua, James Joyce avrebbe lasciato la decisione finale al flusso di memoria del personaggio. Tu, Don, ti astieni da ogni commento, salvo che non sia opportunamente superfluo.

“Le disse che l’equilibrio degli armamenti era necessario, anche quando i numeri diventavano assurdi, perché era l’unica salvaguardia apparente contro l’attacco di una delle due parti.” – paura, eh?! Recentemente ho avuto da dire con un yankeesta che obiettava sul mio definire imperialisti i tuoi connazionali (che poi non sono dissimili dal tuo trisnonno italico, solo più perniciosi a livello planetario). E quel tapino mi disse: allora vogliamo parlare anche dei navahos? Sì, risposi.

Discetti ora di un film che ti sei sparato non so in che occasione, “di Sergej Ejzenštein intitolato Unterwelt” – cioè sotto mondo malavitoso, un “underworld” europeo – “Miles conosceva Ejzenštein a menadito. Conosceva a memoria la sequenza della gradinata della Corazzata Potëmkin.” – io no, avendola vista una volta o due, ma ricordo l’essenziale: da che mondo è mondo l’uomo scappa dall’uomo, insieme ad altri uomini da cui un bel dì pure fuggirà. – “Basterebbe pensare all’altro Underworld. Un film di gangster del 1927 e un record di incassi.” –  money does matter, no?

Che fatica essere uomini!, cantava il mite Sergio Endrigo, e che paura che fa!: “Altro che succo d’arancia, amico. Era quello il nuovo killer dei graffiti, una merdosa sostanza chimica procurata dalla Cia.” – che non è il diminutivo di Lucia, per intenderci.

“Tutto quello che Ejzenštein vuole farti capire, alla fine, sono le contraddizioni dell’essere.” – e poi spieghi in che senso (lo leggo a pagina 474). io vado di fretta, mi dispiace, non posso aiutare il mio lettore. Perché non mi va.

“Perché alla fine, tutto è collegato, o sembra solo che lo sia, o sembra che lo sia perché lo è.” – è chiaro il concetto o no? E poi qualcuno inizia un discorso: “In cambio tu.” – che, dopo un’altrui inopportuna interruzione, viene ripreso: “Dacci un taglio. In Cambio tu…” – e questo capita ai vivi, quando fingiamo di ascoltare il prossimo, cercando solo di pensare a come contraddirlo. Finiamo allora l’altrui ragionamento: “… e inoltre. Inoltre puoi alzare la cornetta, dall’altra parte del filo c’è sempre qualcuno.” – quasi sempre. Esther tira poi fuori dal cappello (o dalla parrucca) un termine italiano: “È come la tramontana.” Ogni tanto tu, dal medesimo cappello, o dalla medesima parrucca, estrai un gioiellino puzzolente: “Perfino l’aria inquinata tiene a galla un nome di donna.”

Il tuo chissà chi narrante (io so chi è), quando ci si mette, sa cogliere le sfumature: “… si sentì un po’ gelosa naturalmente, e si sentì gelosa anche mezzo minuto dopo – non gelosa, ma rancorosa – quando Acey si mise a ballare con una donna.” – complimenti al cronometro!

Klara “non riusciva a capire bene di cosa si trattasse…” – esprime delle ipotesi e poi… non si capisce se lei o quel chissà chi, ha la risposta più probabile (non certa, ché nulla è assodato in ‘sto quantistico sottomondo): “Un luogo carico di epifania, ecco cos’era.”

A pagina 527 colgo la più perfetta definizione (mai del tutto definita!) del tuo mondo: “ispirata catastrofe di New York.” – chissà se la visiterò prima o poi. Non New York, la catastrofe intendo.

Mi getto ora e di certo sprofonderò, nella Parte quinta – Cose migliori per una vita migliore grazie alla chimica – Frammenti scelti pubblici e privati degli anni cinquanta e sessanta.

Nel Capitolo primo rispunta l’io. Il vero protagonista è però Lenny Bruce, il comico sociale, così mi viene da definirlo, anche se so che non è l’accezione corretta (ricordo il film con Dustin Hoffman. Mio dio, che geniale orrore fu!). Mi piace un suo esordio: “Buona sera, concittadini.” – ecco! Il comico con-cittadino! Un grillo parlante?

“Il nero carismatico disse: – C’è un sentimento diffuso nella cultura attuale, stando al quale i neri dovrebbero sviluppare una gran voglia di morire.”per fare felici i razzisti? È simile il pregiudizio che un tempo (ora non più, m’auguro, anche perché incombono altri e più schifosi razzismi) colpiva i rossi di capelli, che puzzano di selvatico!, si diceva. E anche si diceva che il migliore di rossi ha ammazzato suo padre!

Poi c’è la girata di frittata: “Perché ogni volta che vedete un bianco e un nero insieme sapete che sono uniti nello sforzo di migliorare il mondo.” – dovunque? Anche in Iraq? Sommando Colin Powell a George Bush qual fu il totale?

Leggendo pagina 566 di Underworld raggiungo la consapevolezza che è autodistruttivo parlare male degli yankee, perché saremo come loro fra vent’anni. Se non prima. Probabilmente fra un anno o due.

Poi rispunta l’io! Che dice (essendo qui non solo narrante ma anche esplicativo): “Secondo il canone beatnik era la malattia dell’America ad aver prodotto la bomba.” – lo si chieda all’anima di Gregory Corso e alla sua dirompente Bomb “L’intero paesaggio beat era dominato dalla bomba. Lo era sempre stato.” in carenza di essa non ci sarebbe stato l’Howl di Allen Ginsberg.

Non so quanto ti sia costato il cast del romanzo. C’è Sinatra, Andy Warhol (“con una maschera che era la fotografia della sua faccia.” – così la ricordo, come pure ho ancora nelle orecchie la sua voce che era dispersa fra innumerevoli e silenti pause), Little Richard e qualche altra celebrità che ora non rammento.

“– Trova i collegamenti. È tutto collegato. I contestatori della guerra, i ladri della spazzatura, le rock band, la promiscuità, le droghe, i capelli. Hai un po’ di forfora nella giacca, – disse Clyde.” – i due sono entangled, collegati da una vita e mezza, forse due, come ora anche io, anche tu. T’informo che a pagina 631 di Underworld sbuca dal suo covo un’altra parolina italica: “Cosa nostra”. A pagina 645 ce n’è una meno mortifera: “Sett’ e mezz’” – e poiché Matt ci gioca mi viene da chiedere se usi le carte piacentine o le napoletane, oppure le francesi (così chiamano ad Amalfi quelle da ramino).

A pagina 646 raccolgo (era cascato a terra) un “salut’’

A pagina 678: “… a me sembrava Bomb, una vibrazione dal tono gravido di preghiera, ripetuta più volte, ma non avrebbero intonato una parola così carica di cattivi presagi, vi pare, con i bambini legati al petto e alla schiena.” – non si voleva di certo bombardarli!

C’è poi quella mefitica storia del black out che colpisce “Maine”, “Massachusetts”, “Pennsylvania” – mah. A volte i miracoli all’incontrario vengono più facili.

“Nostra figlia sarebbe nata nel 1970, l’anno in cui un piccolo gruppo di radicali mise una bomba a…” – non m’importa dove, una delle tante: “Ci fu un morto, e cinque feriti”.

Manx Martin 3: “Manx si toglie la palla di tasca. Non sa bene perché lo faccia visto che il gesto non dimostra niente, a parte il fatto che è in possesso di una palla, almeno questo, e la tiene in modo molto simile a come la teneva suo figlio Cotter…” – sempre la benedetta biglia che mi sta facendo girare le mie!

“E Manx si immagina già una piccola cospirazione durante la trattativa, con il padre e l’imbonitore che lavorano insieme per convincere il ragazzo che la palla da baseball è quella vera.” – quella santa… Non come le sanguigne lacrime che in quell’afoso giorno del ‘95, a Cavriago, grondarono dal viso marmoreo di Lenin, il cui sguardo pareva tanto adirato!

“… e non si muove niente a parte una macchina o due, macchine guidate da persone misteriose che sbucano dalle tenebre, vive come insetti a tutte le ore nella notte.” – o come marziani che stanno invadendo la Via Lattea, a questo penso la sera, mentre cerco d’assopirmi, udendo i pur lontani (mai saprò quanto), misterici vroom vrooom!

Sto ora entrando nella Parte sesta – Composizione in grigio e nero – autunno 1951 – estate 1952.

A pagina 706, caro Don, scrivi: “Ma non lo chiamano più gioco del mondo, vero? Qui è campana, o saltarella. È su-e-giù, non salta cavallina. È tana – si conta cinque, dieci, quindici fino a cento…” – delle regole diverse. L’hai letto o no Rayuela di Julio Cortazár? Non so se è più confuso del tuo. Diciamo che è una bella gara, in cui tu non parti sfavorito. E nemmeno lui. Ve la dovete giocare. La differenza è questa: lui la gara l’ha disputata prima in Europa e poi in Argentina. Tu solo in quell’ibrida Yankeeland, e talvolta ti fai scappare delle espressioni a chilometro zero dei tuoi avi molisani. Il tuo scarno romanzo più assomiglia a I Detective selvaggi di Roberto Bolaño che è, come te, scrittore stanziale e col tempo che scorre in tutte le direzioni ma non in quella salvifica.

“Mi ricordo che frugavamo nella spazzatura. Trasformavamo i rifiuti in giochi. Strappavamo il sughero dai tappi delle bottiglie.”yankee!, ogni pattumiera è ormai piena dei vostri detriti!

Don Delillo citazioni
Don Delillo citazioni

Pag. 712:Dagli un po’ di capozella, allo stronzetto. Gli farà venire le palle.” – che vuol dire questa espressione italiana? Deve aver a che fare con quel “capretto intero appeso in vetrina.” – boh! Pag. 726: “Sboccato” – e qui non ci sono problemi. Pag. 733: “Animale” – Pag. 740: “U’ gazz’” – questa è facile. Pag. 741: “scucciament’” – ma quanti napoletani frequenti? – “Jimmy sapeva un po’ di dialetto. Abruzzese.” – simile al tuo campobassino, forse un po’ differente, I guess. Pag. 754: “stunat” – e poi: “scungilli” – bboni da magna’! Pag. 757: “Baci a tutti” (anche nella pagina seguente) e “un po’ complicato”. Pag. 758: “che succede” – Pag. 771:Madonn’” – e poi ancora “stunat’” – purtroppo raccolgo qualche grammo di “Eroinaa pag. 774. A pag. 803:Domani mattin’” – a pag. 809Malavita” precede di poche righe un “Madonn’” – e, finalmente, a pag. 815 è pronunciata una catartica: “Mannaggia l’America” – che non sarebbe una brutta terra, se non fosse per tutto quel pattume: “In questo maledetto paese la spazzatura è buona da mangiare, più buona di tanta roba che si mette in tavola in altri paesi…” – parliamone! – “… In questo maledetto paese ci puoi arredare la casa e nutrire i figli, con la spazzatura.” –  anche la baby sitter?

“Giocavano e puntavano e sottolineavano con lunghi sibili la folle abbondanza di vestiti ancora buoni da indossare in quella spazzatura.” – una volta, sotto casa mia, ho trovato un Armani dell’anno precedente (sto pazziando). Pag. 816: “Quanti sold’?” – e mi sto appassionando a quell’apostrofo elidente. Stessa pagina: prima c’è “cafone” – poi “Porca miseria” – un giorno, se ti ci metti, arriverai anche a Mannaggia la miseria! Forse ignori che l’espressione Mannaggia reca in sé una maledizione! – “Gli uomini parlavano per lo più inglese, ma usavano il dialetto quando un’idea aveva bisogno di una spinta, o di uno spintone, dentro un luogo più familiare.” – senza tanti rallentamenti glottologici. Il nonno di una mia consorte, nato a Pisciotta (SA) ma trapiantato a New York che ancora allattava, parlava il vernacolo dei suoi genitori, nonché il broccoliniano. L’italiano manco sapeva dove stava di casa. Durante la guerra fece da interprete agli alleati! Il dialetto è più veloce perché è materno. Le altre lingue vanno più meditate e frenano inevitabilmente il discorrere.

A pag. 826, prima di ì a cuccà, colgo un “Finalmente”, un “stunat” e un “bowling”, termine ormai comune dalle nostre parti: Panta Rhei, su questa pazza pista cosmica! Poi, nella pagina a fianco un ancora “u’ gazz’” e una “briscola” in quella dopo. Domani leggerò lo scarno Epilogo – Das Kapital – una cinquantina scarsa di pagine. M’auguro solo che non si parli anche di quella maleodorante suora di nome Edgar, con cui hai sapientemente imbruttito tante pagine, di cui non vorrei dire nulla, se non che ho desiderato di strangolarla, tanto m’è parsa l’allegoria dell’anarchia del potere sempre di pasoliniana memoria. A proposito (lo dico al mio lettore): il corpo del romanzo sbocca in un omicidio che più stupido non può essere. Tutti lo sono, stupidi, anzi, gli atti umani, ma questo batte il record! Una domanda: è l’epilogo di tutte le vicende narrate? Che casino!

“Il capitale elimina le sfumature di una cultura.” – le parti soccombenti del business.

“… e dove l’uomo al tavolo vicino, con la testa pelata, gli occhi socchiusi e la barbetta a punta, che finalmente si è girato verso di me, è chiaramente un sosia professionista di Lenin?” – può anche essere che vi sia quello di Cristo, coi buchi nelle mani e nei piedi e la ferita nel costato. Tutto può essere oggi riprodotto, basta pagare il compenso previsto contrattualmente.

A pagina 855 de Underworld enumeri, tanto per variare, alcune sontuose schifezze, nonché talune immonde opzioni previste dalla tecnologia moderna. Ne indico una sola: “A Dallas fabbricano feci sintetiche.” – era un po’ che le aspettavamo, noi del gregge. A pagina 857 enumeri alcuni orridi prodigi, anche se “il vero miracolo è la rete, il luogo in cui tutti sono dappertutto nello stesso momento, e c’è anche lui, nascosto.” – e tu? – “e io resto qui impotente in questo posto deserto e guardo i libri.” – chissà, forse stai immaginando quante anime sono ivi racchiuse. Poi dici: “Ho nostalgia dei giorni del disordine. Li rivoglio…” – io non più, essendo tutto così incasinato. Con meno energia. Come quella sorellina, che è ora mogia e quasi umana: “Edgar non fa una piega. Non è questione di miscredenza. C’è un altro genere di credo, una seconda forza, incerta, sospettosa, una fede alimentata dalle cose che ci fanno paura di notte, ed Edgar si sente soccombere.” – la poverella è invecchiata male, è ormai priva d’energia, per cui vive in un modo rallentato. Poi decide il suo destino: “Non resta altro che morire, ed è precisamente questo che fa suor Alma Edgar, sposa di Cristo, muore serenamente nel…” – povero maritino, quante ne ha passate! Ora la può amorevolmente accompagnare nel suo ultimo tragitto. Riposi come e dove vuole.

L’epilogo non c’è stato, perché non ci può essere, poiché tutto avanza, ci sono più avanzi che cibi, c’è la nostra monnezza che regge le umane sorti. Quando essa ci ricoprirà per intero sarà la prova provata che siamo schifosamente ricchi, bisognosi unicamente di una salvifica miseria.

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Don DeLillo, Underworld, Einaudi, 2014

 

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