Derby Club Cabaret: la comicità anarchica e surreale di Milano
Dagli inizi degli anni Sessanta fino al 1985, anno in cui chiuderà definitivamente i battenti, il Derby Club Cabaret fu uno dei punti di incontro più alla moda di Milano.
Per più di vent’anni, sul palcoscenico dei coniugi Bongiovanni, si esibirono varie generazioni di comici destinati a entrare nella storia dello spettacolo cittadino e nazionale. Enzo Jannacci, Cochi e Renato, Massimo Boldi, Teo Teocoli, Diego Abatantuono, Giorgio Faletti, Paolo Rossi, Claudio Bisio, solo per citarne alcuni, affermarono una scuola di comicità attraversata da venature anarchiche e surreali destinata a rimanere senza eguali. Fu un periodo indimenticabile, una vera e propria epopea.
Il problema al Derby era quando entravi in ritardo. Poteva capitare. Il traffico, un contrattempo. Immancabilmente, il cabarettista che apriva la serata ti accoglieva con la famosa battuta del compianto Gianni Magni: “Ben arrivati, eravamo in pensiero, credevamo non veniste più, ci avete ripensato?”
Avevi tutti gli occhi su di te, certo. Ma se abbozzavi, ti sedevi in fretta nei posti che ti venivano indicati e trascorrevi i successivi minuti con lo sguardo basso, evitando di incrociare quelli dell’artista sul palco, potevi ancora dire di essertela cavata a buon mercato. Sì, perché se invece ti veniva in mente di fare lo spiritoso, magari tentando di rispondere a tua volta con una battuta, be’, allora potevi avere qualche sorpresa. Diventavi il bersaglio preferito della serata, ecco tutto. E se in scaletta c’erano tipetti come Diego Abatantuono e Mauro Di Francesco, le successive tre ore sarebbero diventate un calvario per te e uno spasso per gli tutti gli altri.
Il Derby Club di viale Monterosa, mitico locale di cabaret che, per più di vent’ anni, ospitò varie di generazioni di comici che segnarono un’epoca. Si era agli inizi degli anni Sessanta, Giovanni Bongiovanni, per tutti “Il Bongio”, geniale personaggio e grande scopritore di talenti, insieme alla moglie Angela, avevano trasformato un vecchio ristorante in un locale dove si cantava e si suonava jazz. Il locale venne chiamato Intras Derby Club, dal nome del direttore, il pianista jazz milanese Enrico Intra; poi, quando le redini furono esclusivamente nelle mani dei proprietari, i coniugi Bongiovanni, semplicemente Derby Club, per la vicinanza con l’ippodromo di San Siro.
Il Derby divenne in poco tempo un punto di incontro per artisti, personaggi dello spettacolo e professionisti della Milano più all’avanguardia, fra cui molti architetti, che contribuirono ad arredarlo in modo originale e, per i tempi, anticonvenzionale.
Quando nacque il Derby Club si era nel pieno di quel boom economico così efficacemente descritto dal milanese d’adozione Luciano Bianciardi nel romanzo “La vita agra”. Dal dopoguerra alla fine degli anni Cinquanta, la produzione dell’industria era aumentata dell’95% e il paese, colto da un irrefrenabile esigenza di ammodernamento, si stava rapidamente trasformando da agricolo a industriale, con nuove aspirazioni e nuovi consumi. A un secolo dall’Esposizione Universale del 1867, Milano, riprendendo il filo interrotto dagli eventi bellici, si stava riappropriando della sua vocazione di capitale economica e morale del paese, rinverdendo i valori borghesi ed europei di efficienza e laboriosità efficacemente riassunti nel detto ambrosiano “Milan dis, e Milan fa”. Già nel 1951 il film “Miracolo a Milano” di De Sica e Zavattini aveva efficacemente rappresentato i due simboli principali della città, il Duomo e la Stazione Centrale, a cui si doveva aggiungere la Fiera campionaria. La ricostruzione del Teatro La Scala, accompagnata dalla nascita del Piccolo Teatro di Paolo Grassi e Giorgio Strehler, edificato in via Rovello in quella che era stata la sede della famigerata Legione Muti – classico esempio di eterogeneità dei fini urbanistici ‒ furono altrettanti segnali di un rinnovato fervore culturale; e con la nascita della Feltrinelli e con lo sviluppo della Mondadori e della Rizzoli, anche la Milano dell’editoria tornò prepotentemente a dire la sua.
Questa belle epoque inattesa – dal titolo di in intervento di Italo Calvino del 1961 sulla rivista Tempi Moderni ‒ trovò la sua migliore rappresentazione simbolica nei titoli di coda del film “La Notte” di Antonioni, che, con in sottofondo la musica jazz del milanese Giorgio Gaslini, scorrendo sulla facciata di un altro simbolo cittadino, il grattacielo Pirelli, edificato l’anno prima e ideato da Giò Ponti, Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli e Pierluigi Nervi cristallizzarono la perfetta coincidenza fra boom economico e identità meneghina.
In questo clima effervescente, il Derby Club, cabaret alternativo e, a suo modo, rivoluzionario, divenne in poco tempo il locale notturno più alla moda della città, entrando di diritto nei luoghi identitari di Milano. Arrivati in viale Monterosa, l’insolita insegna del civico 84 ti accoglieva con il suo fascio di luce giallognola. Scendevi una ventina di gradini e trovavi una grande entrata con locandine e poster alle pareti. Pochi passi e incontravi la Rosa, addetta al guardaroba, sorella di Angela Bongiovanni e madre di Diego Abatantuono, che sistemava cappotti e pellicce dietro una tenda di velluto rosso. Passavi per il bar, l’anticamera del teatro vero e proprio e ti ritrovavi in uno spazio arredato con tavolini con sedie, divanetti e puff bassi, grandi vetrate, pareti nere, con al centro un trapezio disegnato sul pavimento che fungeva da pedana e su cui si esibivano gli artisti. Era la Milano alternativa a frequentare per lo più il cabaret cittadino, certo. Ma anche l’intellighenzia d’élite passava le sue serate al Derby; quella dei Luciano Bianciardi, dei Bruno Munari, dei Giorgio Strehler. Neppure la Milano dai contorni noir si faceva mancare l’appuntamento notturno di viale Monterosa. Sì, perché in una di quelle affollate serate degli anni Sessanta poteva capitare di incrociare Luciano Lutring, il “solista del mitra”, il celebre bandito gentiluomo aduso a nascondere per le sue malefatte il mitra in una custodia per violini, che si presentava al Derby in compagnia della modella Yvonne Candy, nome d’arte di Elsa Candida Pasini.
Oppure, fra nuvole di fumo e luci soffuse, si intravedeva Joe Adonis, pseudonimo di Giuseppe Antonio Doto, boss della famiglia Genovese e transfuga dall’America, che, avendo scelto il capoluogo milanese come luogo d’elezione, era spesso seduto a uno dei tavolini in compagnia di splendide donne e litri di champagne. Sapete com’è, no? L’attrattiva del locale alla moda.
E poi quarti di nobiltà, decaduta e non, attori, calciatori e sportivi in genere, giornalisti, artisti, perché era un pubblico importante quello che veniva a passare le sue serate dal “Bongio” e dall’Angela Bongiovanni. Senza spartiti o repertori prefissati, al Derby Club descritto nel libro “Il Derby Club Cabaret”, edizioni Zelig, a cui queste note sono debitrici, si sono succeduti artisti le cui gag sono entrate prepotentemente nella storia del costume cittadino, ma non solo. Gli sketch di Jannacci, Pozzetto, e poi di Teocoli, Abatantuono e soci, rinverdendo la tradizione tipicamente meneghina dei cantastorie da osteria, sono diventate performance entrate nell’immaginario comico di una nazione. E quella comicità, contrassegnata da una vena anarcoide e surreale, divenne un modello che non riuscì più a essere eguagliato. Il palcoscenico del Derby fu una sorta di scuola in cui si formò un nuovo tipo di intrattenimento e che portò a considerare quel locale come un club per iniziati, in cui avventori e artisti formavano una casta di illuminati sui generis. Una particolare sensazione di complicità pervadeva coloro che si ritrovavano a passare le serate al numero 84 di viale Monterosa; al termine dello spettacolo, ogni volta che usciva dal locale, quell’allegra bolgia fumosa aveva una convinzione: avere in qualche modo fatto parte di un’epopea irripetibile. Al Derby Club si sono succedute almeno quattro generazioni di comici: da quella degli Jannacci, Pozzetto, Andreasi e Valdi, a quella dei Boldi, Teocoli e Beruschi, per passare a quella dei Porcaro, dei Faletti, degli Abatantuono, fino ad arrivare a quella dei Rossi, dei Salvi e dei Bisio.
Poi, improvvisamente, si era nel 1985, quattro anni dopo la scomparsa del suo padre ispiratore Gianni Bongiovanni, le luci del Derby si spensero, chiudendo definitivamente un’avventura quasi venticinquennale.
Quel mitico locale aveva fiutato in anticipo che certe atmosfere che avevano accompagnato la sua storia si stavano irrimediabilmente modificando. L’aria tutt’intorno si stava appesantendo e la Milano allegra, scanzonata, tollerante e generosa, stava lasciando la scena a un’altra città, meno solidale, più individualista e incarognita, quasi geneticamente modificata nel suo tessuto connettivo più profondo.
E il Derby Club Cabaret decise che non era più tempo per ridere.
Written by Maurizio Fierro