“Il tatuatore di Auschwitz” di Heather Morris: morti che camminano
Heather Morris è la scrittrice di “Una ragazza ad Auschwitz”, scritto dopo questo, “Il tatuatore di Auschwitz”, ma che io ho avuto modo di leggere e recensire prima.
In questo caso narra della storia di Lale, deportato e diventato il tatuatore.
La scrittrice ha davvero incontrato Lale, il quale le ha raccontato la storia sua e della moglie Gita, deceduta prima che l’autrice scrivesse questo testo.
Quindi, il libro Il tatuatore di Auschwitz è improntato sulla memoria storica del protagonista, ma le scene e le parti mancanti, da quanto mi è dato capire, sono state inserite dall’autrice.
Scritto al presente racconta di tutto il periodo di detenzione di Lale, da quando si offre spontaneamente per il lavoro nei campi, imbrogliato dall’offerta che così verrà salvata la sua famiglia, a quando, visto che parla molte lingue, viene messo a incidere i numeri sulle braccia dei tanti prigionieri.
“Tatuare il braccio degli uomini è un conto, ma profanare il corpo delle ragazze gli fa orrore”.
Un giorno davanti a lui passa Gita, una ragazza della quale si innamora subito, del classico colpo di fulmine.
Farà di tutto per incontrarla e stare con lei.
E qui i dubbi mi sorgono… la scrittrice racconta dei mille sotterfugi di Lale, di come riesca a reperire pietre preziose e soldi per corrompere i Kapò e le guardie.
Addirittura riuscendo a fare più volte l’amore con Gita in una stanzetta accanto all’ufficio dove lei viene impiegata.
Si narra dei suoi baratti coi muratori che vengono nel campo a lavorare, facendo in modo che lui possa ottenere salsicce e cioccolato da barattare a sua volta, oppure da spartire coi suoi amici delle baracche, dove, tra l’altro, lui entra ed esce come vuole.
Ecco, tutta questa parte mi sembra inverosimile. Conosciamo tutti gli orrori dei campi di concentramento e non sembra davvero possibile che questi fatti siano potuti accadere svariate volte.
Addirittura si parla di ben tre anni!
Detto questo, di sicuro c’è un fondo di verità, anche se il libro verrà pubblicato dodici anni dopo la morte di Lale e perciò nessuno può venire a dire quanto di quello che troviamo scritto sia vero e quanto no.
Concentriamoci sull’amore dei due ragazzi: di come, nonostante l’atrocità del campo, questo sia potuto nascere, abbia potuto crescere e resistere. Tanto che, quando i due saranno liberati, dopo alcune peripezie, riusciranno a rincontrarsi e a sposarsi.
Nel libro incrociamo anche Cilka, la protagonista del secondo libro della Morris che parla di Auschwitz.
Una parte che mi è piaciuta molto è quando Lale si trova nella baracca accanto a quella dei Rom. A come comincino a parlare e a scambiarsi le varie storie di vita famigliare, notando similitudini e differenze.
Capendo che, qualora fossero stati “fuori”, nemmeno si sarebbero parlati, entrambi restii a mescolarsi con una cultura diversa; mentre lì… si è tutti prigionieri, tutti morti che camminano, tutti uguali.
Scampati all’inferno del campo di concentramento, Gita e Lale ricostruiscono la loro vita, portando con sé una filosofia ottimistica: “Con un gran sorriso stampato sul volto mi disse che se passi degli anni senza sapere se di lì a cinque minuti sarai ancora vivo, poi non resta più molto che non sapresti affrontare”.
In fondo al libro la postfazione a cura del figlio di Lale e Gita: “Ma soprattutto ricordo il calore della nostra casa, un luogo pieno d’amore, di sorrisi, di affetto, di cibo e dell’arguzia pungente e asciutta di mio padre. È stato davvero un ambiente meraviglioso in cui crescere e sarò sempre grato ai miei genitori per avermi mostrato questo modo di vivere”.
La prova più grande di come tutto il male del mondo non possa niente contro l’amore.
© 2018 Garzanti
ISBN 978-88-11-60725-0
Pag. 223
€ 10,00
Written by Miriam Ballerini