“Madre d’ossa” di Ilaria Tuti: un thriller insolubile?
Prima di quasi divorare, nonché dopo averlo fatto, quest’enigmatico thriller intitolato Madre d’ossa, scritto in maniera (parola assurda!) perfetta, da Ilaria Tuti, ho avuto modo di leggere la dotta recensione di Federico Ielusich, che ho molto apprezzato. Dopo di cui mi son detto: è inutile che aggiunga qualcosa, avendo già detto tutto lui.
Mo’ vediamo. Ogni lettore è un romanzo a sé. L’ho accertato dopo aver letto il Quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell, in cui la medesima storia è narrata da quattro diversi io narranti. Il ragionamento deve valere anche per eventuali quattro (e più) io leggenti.
Mia madre diceva: il portafoglio ce l’ho, la lingua ce l’ho e via che andiamo! In Campania dicono che chi tene ‘a lingua va ‘n Sardegna. C’è poi, alla bisogna, una specie di doping, sia a Gavâsa, Rèş, che presso alcune tribù Arapaho (Wyoming), che consiste nel tenere, camminando, ‘na giarlèina in bóca, una ghiaina in bocca, sia per compagnia che per aver l’illusione di biascicare qualcosa di sostanzioso. Tutto questo cascame retorico m’è servito come stretching. Ora posso iniziare a reagire con la mia, eh eh, consueta professionalità.
Protagonista principale, ma per nulla assoluta, anche nel senso che si cerca di non lasciarla mai sola, essendo talvolta preda da attacchi di Alzheimer, è l’ex Commissaria Teresa Battaglia, ormai (quasi) consunta protagonista di una serie di romanzi di Ilaria Tuti.
Prima delle tre e più analogie tra lei e l’inclìto collega Valerio Varesi (le altre seguiranno a breve), altro maestro di thriller (parmense senza averne l’aria, come la bionda di Giccini): a casa mia la più grande ammiratrice della Tuti è una mia strettissima congiunta, mica io, che pure tanto l’apprezzo. A lei questo romanzo ha dato da fare. È scritto benissimo, mi disse, ma non vedeva l’ora di finirlo per poi consegnarlo a me. Lo stesso accadde con Reo confesso, la penultima opera di Valerio.
Come narrano sia Ilaria che il suo lettore Federico, all’inizio del libro (e ora tocca a me), Teresa Battaglia appare dove non dovrebbe essere, accanto a un cadavere di un giovane. Ad attestare il fatto, per sua fortuna, è il suo ispettore Massimo Marini, con cui Teresa tante volte si è confrontata (spesso irridendolo col suo selvaggio humour) negli altri romanzi. Quando si accorge della problematica, Massimo cerca d’inventarsi qualcosa per risolverla.
Teresa stessa, in uno dei suoi momenti (anche lunghi e frequenti, per fortuna) di lucidità, prova una duplice, ambigua preoccupazione: “Un’indagine su me stessa, rifletté. Si sentì fremere e riconobbe l’eccitazione per la caccia. Ma in quella caccia non poteva essere sola.” – e mai lo sarà. Il suo necessario accompagnatore sarà per lo più (ma non solo) lui: Massimo.
Il lettore e i suoi due eroi fanno poi la conoscenza del padre della vittima, che appartiene a un’antica schiatta familiare e che, nonostante, la perdita subita, non riesce a ispirare una grande compassione, semmai un senso di fastidio, a causa della sua supponenza.
Teresa, quasi fosse una docente, ora espone al suo fido scudiero (a volte così pare) la storia di alcuni “guerrieri longobardi”: “‘Sono entrati dal passo del Predil, un’orda di trecentomila uomini’ la sentì dire, ma Massimo non trovò quell’informazione nella tavola che avevano davanti agli occhi. Teresa l’aveva pescata nei ricordi, che più remoti erano e più sembravano nitidi; una beffa, dato che a volte lei non ricordava nemmeno il proprio nome.” – per motivi familiari miei, so che questo è un fatto ricorrente con tali tipi di infermi. Che poi, tanto in-ferma, ‘sta Teresa non è. Pur non essendo più in servizio (nonostante sia del ‘58, come pure un giovanotto che conosco da oltre sessant’anni), ella sarà sempre, per tutta la storia, ovunque si rende necessario che lo sia. Non sarebbe una mitica eroina, se fosse diverso.
Altra analogia con Valerio: leggendo il thriller di Ilaria, vengo a conoscenza di sconosciuti vocaboli, per esempio a pagina 57: “fibule a S” – che certamente già conosco (ma che cavolo sono?!), dei misteriosi “potori di vetro colorato”, delle “armille di bronzo”, nonché della “fermafrecce in osso”, beh questo è comprensibile (?), etc etc.
I due pards (manco fossero una coppia tipo Tex Willer e Kit Carson), insieme a una “soprintendente per l’Archeologia” – una certa “Belleri”, scendono in un “ipogeo”, dove fa mostra di sé un’antica tomba, per cui “Teresa si avvicinò, togliendosi dal braccio della sopraintendente. I resti erano miseri, un mucchietto d’ossa. Chissà da che avevano dedotto che fosse poco più di una ragazzina. Chiunque fosse stata, era tornata alla polvere.” – come tutti gli enti del caotico Kósmos (malcelato ossimoro: il kàos è un vortice a spirale, mentre il cosmo è una forma curvacea di ordine, forse l’unica che esiste), anche noi umani ci trasformeremo, prima o poi, in qualcos’altro.
Particolare curioso (e più che altro inquietante): quell’essere antico portava “il bracciale di Teresa al polso destro”.
Teresa incontra o pensa di incontrare Sebastiano, il suo ex marito (ex nel senso che è morto), il quale le dice, tra l’altro, che “L’infermo è un luogo umano.” – verità religiosa e non scientifica, direbbe Karl Popper. Dopo un breve e acuminato scambio di provocazioni, “l’uomo se ne andò controvento, la testa incassata nelle spalle, il passo veloce.” – ulteriore analogia fra Ilaria e Valerio: sono due eccelsi per quanto umili scrittori.
Chissà chi sarà stato quest’uomo? Ma senz’altro è esistito, se Teresa l’ha conosciuto!
“Teresa gli avrebbe detto: ‘Difendono le tane, scemo…” – a proposito di animali che lo scrutano “con occhi iridescenti” – il mio riporto intende mostrare un abituale modo di parlare di Teresa: volgare e offensivo, ma non a caso, e a volte per affetto, essendo un mezzo per rendere più dinamica una sua osservazione. Ha una motivazione strategica, più che altro; ma anche catartica, perché, nel dirla, Teresa, finisce per star meglio. Ella rispetta sempre chiunque, anche quando lo manda a dar via il… suo bene più caro e immondo.
Massimo “Puntò la torcia e trovò la conferma che stava cercando: Teresa aveva ricreato una spirale che probabilmente, nella concitazione del momento, loro avevano distrutto. Ricomporre, riordinare, riportare un ricordo allo stato originario era la sua ossessione.” – di tipo cosmica, anche se, purtroppo, talvolta lei ricadeva nel suo spietato kàos.
Un mio sp(i)oiler (ma la colpa è di Ilaria, che l’ha scritto a pagina 98): “Massimo si chinò a esaminare la figura. Sapeva qual era il suo significato più profondo, glielo aveva insegnato Teresa: il continuum vitale, la ciclicità di ogni esistenza. La spirale apparteneva agli script paleolitici che precedevano di millenni la scrittura sumera: vortici, onde e reti.” – in una perenne, seppur incerta, vitalità. Credo che due autorucoli come Giovan Battista Vico e Friedrich Nietzsche dall’alto dei loro cieli, annuirebbero. Forse il secondo che ho detto arriccerebbe pure il baffetto.
Nell’intera faccenda è covata un’insidia: la Storia è un’eterna giovincella che soffre gravemente d’Alzheimer. La si deve esaminare con la dovuta attenzione e cautela. Quando la mia mamma era sottoposta a visita dal suo neurologo, questi gli diceva di scrivere delle parole in un foglietto, poi gli diceva di arrotolarlo e infine di gettarlo alle proprie spalle. La mia ironica genitrice allora si metteva a ridere, perché lo reputava uno scherzo.
A pagina 100, ma questo avviene per tutta l’estensione del romanzo, la narrazione s’interrompe per una stramba apparizione: una mezza paginetta scritta in corsivo, in cui si dice di una Madre che soffre, anche e forse perché: “… non era sola. Dentro di lei cresceva se stessa, stava formando il frutto. La bambina avrebbe avuto il suo volto e il suo sapere. La Madre d’ossa era nata per vivere per sempre in lei.”
Come sanno i fan della Battaglia, un certo Romeo De Carli è un caro (ex) collega di Teresa, la quale nel vederlo le va a sparare addosso l’ennesima indecenza, ma lui ogni volta l’accetta con disinvoltura, per affetto, poiché “aveva visto in lei una madre fin dall’inizio.”
In un paio di occasioni, colgo nel testo il termine “roggia”, che ben conosco, avendolo letto ripetutamente in Il labirinto di ghiaccio di Valerio Varesi, che mi permetto di consigliare a Ilaria. Quel romanzo, secondo me, è ambientato in Trentino, anche se non è chiaro il luogo esatto, e non in Friuli. A entrambi dico che quelle due regioni sono diversamente meravigliose, casomai non lo sapessero!
Elena è l’archeologa sposa di Massimo, ed è incinta grossa. Prendendo la mano di Teresa, le fa sentire i calcetti dell’assai prossimo umano. Che umano è già, e chissà da quando! Mistero!
“Massimo si tese. Non sapeva come Teresa avrebbe reagito. Forse ridendo, forse piangendo, o urlando per il bambino che aveva perso, che non trovava, che forse un giorno non lontano avrebbe riconosciuto in lui.” – ed era, ‘sta Teresina, come la particella quantistica, il cui tratto finale e apparentemente definitivo fa parte, secondo Roger Penrose, premio Nobel per la fisica, delle questioni finali, al momento, e chissà se per sempre, insolubili. Teresa è come il gatto di Schrodinger che, come Pinocchio, secondo la dotta opinione di un medico, se non è vivo è morto. Forse deriva da fors-fortis, caso.
A pagina 127 c’è un’ulteriore paginetta in corsivo, in cui emerge un’entropica affermazione: “La maledizione dell’immortalità era il silenzio di ogni desiderio, di ogni afflato.” – secondo quel maledetto secondo principio della termodinamica, il Kósmos cesserà un bel dì d’essere ordinato, quando ogni suo componente sarà del tutto disperso e immoto, privo della pur minima energia, a meno 273 gradi sotto zero: come se quell’illusorio Nulla avesse cessato di esistere e di agire! Unica nostra speranza: recenti studi ammettono la possibilità che, in ambito locale, l’entropia sia, sia pure a istanti alterni, hater e lover dell’interazione gravitazionale e che i due enti (forse consanguinei) non cessino, chiedo scusa della metafora, di fornicare tra loro, al fine di riprodurre in eterno un salvifico statu quo. Senza s, mi raccomando! Sennò so’ c..asini!
A pagina 130 si parla di “morti inquiete” – di cui non dirò altro che se uno le vuol vedere si trovano (come gentilmente si avvisa la gentile clientela nella Nota dell’autrice a pagina 98), “nella necropoli di San Mauro a Cividale del Friuli.” – e personalmente non vedo l’ora di andarle a scuriosare.
A pagina 134 c’è l’ennesimo, non so se consapevole, richiamo a Valerio Varesi. Senz’altro, Ilaria saprà che egli, nelle sue presentazioni del suo ultimo romanzo, cita spesso questo disgraziato omino: “La mummia è stata ribattezzata Ötzi e si trova in Italia. Non dovete mandare il reperto a Torino. Dovete mandarlo a Bolzano.” – a chi lo vuol vedere, suggerisco di prenotare on line l’entrata, ché altrimenti fa in tempo a morire assiderato. C’è normalmente una fila di un paio d’ore: esperienza da me non vissuta in quanto poi ho preferito visitare la città.
Anche a pagina 147 (continua poi in quella dopo) c’è l’ennesima variazione in corsivo: è troppo commovente, per cui decido di non parlarne affatto.
Un’atroce metafora occorre a pagina 179: “… la presenza umana lasciò spazio a un mondo antico, che sembrava avere denti di stalattiti…” – per cui avverto un po’ tutti, anche l’autrice e Valerio, qualora mi stiano leggendo: le stalattiti puntano verso il basso, le stalagmiti verso l’alto, perché quello che fa la differenza è, nelle prime, la t, che punta chiaramente verso giù, nella seconda è la m, che pare un quid che poggia stabilmente sul terreno. Similmente il dromedario ha una gobba, il cammello ne ha due: a causa del numero di m.
Qualora un giorno venisse a trovarmi a Reggio Emilia, offrirò a Ilaria del buon Lambrusco Campanone. E, se poi ce me andremo a Parma, il generoso Valerio non ci farà mancare una bottiglia di Gutturnio. Hic…! Et Nunc…!
Questa Madre d’ossa dà tanta tristezza, per cui consiglio almeno un paio di bicchieri di brugnolèin (a Parma è detto bargnolèin: in italiano è prunella; in ogni caso digestivo!), alla fine del pasto. Di ciascuno dei due pasti principali. E, all’occorrenza, anche durante lo spuntino pomeridiano.
Elena si dà un po’ troppo da fare, nonostante il suo stato di gestante, per cui Massimo le dice: “Per favore, vai a dormire.” – e questo piccolo episodio mi inquieta assai.
I thriller, anche quelli di Agatha Christie, i quali sono di forma geometrica, come quei cioccolatini avvelenati che gli assassini talvolta utilizzano nei loro omicidi, dei solidi regolari e quasi banali, ma assolutamente micidiali… i thriller, dicevo, sono consanguinei delle tragedie greche: c’è bisogno di almeno un assassinio, che però, oggi come oggi, quando la morte entra quotidianamente nelle case, rappresentata tanto nelle fiction quanto nei TG, non ce la fa più a fungere da fenomeno catartico. Per quanti delitti e guerre inaudite si succedano, sempre di più ce ne saranno, senza che si possa prospettare alcuna soluzione a tanta umana infamità.
Per tutto ciò, sto temendo un po’ per la salute di Elena e del suo prossimo neonato.
Ho tanto amato, è vero, i romanzi di Agatha, giungendo a leggerli tutti. Il mio preferito autore è però Cornell Wollrich, la cui scrittura è tanto magistrale da essere definito l’Edgar Allan Poe del XX secolo. Non so quanto Ilaria e Valerio lo conoscano, ma mi sento d’esprimere un’assurdità non del tutto improbabile: è anche grazie a Cornell che i due autori italiani scrivono in questo modo così drammatico e complesso.
Tanto per restare in argomento, leggo a pagina 233: “Teresa lasciò Alice e Parri impegnati nella lettura ad alata voce di un romanzo thriller che nel titolo comprendeva la parola ‘ossa’.” – ed è interessante quel che salta in mente all’ex poliziotta: “Non lo trovava fuori luogo, anzi. Aveva imparato a chiamare senza timore la sventura, tanto quella faceva un po’ come le pareva.” – mia mamma, fino all’ultimo, è stata un’acuta narratrice senza manco saperlo, e soleva dire: le disgrazie e le ciabatte stanno sempre a bocca aperta!
Un fisico quantistico direbbe che Teresa e Massimo (come anche Ilaria e Valerio) sono correlati, entangled, come due particelle che sono venute, anche solo una volta, e per un piccolo attimo, a contatto, e l’unica speranza cosmica è che Tutto fu adiacente a Tutto in quell’enigmatica Singolarità Iniziale.
Lei dice: “Lasciami.” – e lui risponde: “Lei non lasci me. Ci siamo quasi.” – la prima, entropica, tende a evadere dall’Altro, il secondo, gravitazionale, a trattenerla.
Quel che succede dopo (nella medesima pagina 243), beh… lasciamo che sia ogni altro lettore a giudicare. Due pagine dopo occorre l’ennesima tragedia, di cui non intendo riportare alcunché.
Massimo, due pagine appresso, si chiede “che cosa ne sarebbe stato di loro, di lei. L’Alzheimer, la perdita di un ragazzo che era sempre stato più di un figlio da crescere e proteggere che un collega. Quanto ancora poteva sopportare?”
Teresa dice che “Il pagliaccio sacro porta in sé la conoscenza, è una creatura sibillina, per certi versi oscura…” – Arthur Rimbaud, con l’affreux rire de l’idiot, tenta di dirci una malsicura verità, quel che sente, che non sa dire diversamente, essendo pressoché indicibile.
La squadra dei nostri eroi è composta da: una demente a intermittenza, Teresa; una non vedente, Alice; un cane molto olfattivo, Smoki, un’archeologa incinta grossa, Elena; e un ispettore insicuro e deciso, Massimo.
Questa gente è non, come si dice di solito, diversamente, bensì essenzialmente abile. Più di tutti, forse, confido in Smoki. Anche noi uomini, quando abbiamo pochi indizi, andiamo a usta, espressione che forse deriva dal latino ustulare, bruciacchiare: sentir odore di bruciato…
Dice Elena: “Le ossa sono sacre tutt’oggi in diverse culture.” – e ne enumera alcune.
“Per lei…” – si parla ora di Teresa – “… era iniziato il vero calvario, gli venne da pensare. Non per la malattia, non per la memoria che se ne stava andando, e nemmeno per la perdita progressiva di autonomia a cui era condannata. Aveva visto morire un altro figlio.” – la tragedia vera è ogni volta di chi sopravvive.
Quel che finisce per salvarci sono le imprecazioni di Teresa, che fungono da benedetto seppur aggressivo antibiotico, tipo quello che spunta dal nulla a pagina 314: “Col cazzo.”
Teresa poi chiede a Massimo: “Che cos’è la fede?” – e lui le risponde prontamente: “Lo sta chiedendo alla persona sbagliata.” – e statisticamente credo che la maggior parte degli umani viventi fanno parte di tale club di ignoranti.
Però qualcosa si può dire di ogni divinità. Il mio amato Padre Aldo Bergamaschi, il teologo che mai riuscì a convertirmi, una volta chiese a un anziano cosa pensasse di Dio. E quello rispose, urlando: al drōven! – lo adoperano. E questa è la sorte anche di ‘sta penosa Madre d’ossa, di cui non voglio rivelare quasi nulla. Non è che non ci creda, perché l’ho vista, Ilaria me l’ha descritta bene, ma perché anch’ella non fa per me. Io sono e non so per quanto tempo rimarrò uno sfiduciato. Poco prima che egli morisse, lo confessai ad Aldo, che si mostrò dispiaciuto senza per altro arrabbiarsi; anzi, egli mi iniziò a parlare con dolcezza del Dio di Platone, che è la massima misura di tutte le cose. Che sia quello il Kósmos di cui andavo cianciando?
Le ultime 20 pagine sono magnifiche, istruttive (per capirle, suggerisco l’articolo di Federico, ben più del mio). Io amo troppo l’orrore che scaturisce da questa frase di pagina 386: “Nulla di nuovo, in fondo: un pugno di persone aveva creduto di poter fare quel che voleva di vite altrui.” – e questo capitò al cristianesimo, al bolscevismo, eccetera eccetera. L’amo perché è vera, anche se la paragonerei a una martellata sui… ehm… sui miei neuroni!
La figlia di Elena e Massimo avrà un nome che inizia con una bella lettera: “Zoe”. Ora manca solo Arturo. Chi tradusse con quei due nomi i personaggi del cartoon di Ernie Bushmiller (che si chiamavano, originalmente, lei Nancy, lui Sluggo), non so se si rese mai conto di aver usato la prima e l’ultima lettera dell’alfabeto.
La Storia è un ardito e vile uroboro, per cui nella fine si giunge puntualmente a un nuovo inizio.
Dice Teresa (e qui mi contraddico, come spesso mi capita) parlando di Lei, quella tenera genitrice, di quando l’ha toccata, che fu: “‘Come abbracciare l’umanità intera’ disse piano. ‘Come attraversare le ere. Come essere al cospetto di un cuore animale, una mente immensa. Quando ho incrociato il suo sguardo, ho avuto l’impressione di guardare dentro occhi primordiali.” – Amen e così sia! Questo lo dice di sovente Kit Carson.
E poi aggiunge: “Ciò che ci circonda è fatto più di mistero che di materia conosciuta. Io credo che quella creatura appartenga al mistero.” – dai è normale in un Kósmos in cui l’energia oscura ammonta, si ipotizza, al 69%, mentre la materia oscura si accontenta della medaglia d’argento: solo il 26%.
A noi sempiterni e illuminati fortunelli, spetta un buon 5%. Ed ecco perché alcuni di noi sono così spietatamente iper-bulimici e tanti altri, invece, crepano, a ogni umano sbadiglio, di fame e di stenti.
Per cui deve ritenersi fortunato chi, ogni giorno che passa, può combinare il pranzo con la cena.
E questa è la vera tragedia! Il thriller Madre d’ossa insolubile!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Ilaria Tuti, Madre d’ossa, Longanesi, 2023
Info
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Un pensiero su ““Madre d’ossa” di Ilaria Tuti: un thriller insolubile?”