Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Materia Lucida”
“La vita va affrontata con la sacralità che si riserva ad un vero e proprio percorso iniziatico, senza infingimenti o patteggiamenti, mentre invece lui s’illudeva di poter reggere impunemente alla soppressione dei suoi più autentici sentimenti, prigioniero d’un sacrificio insostenibile per chiunque!” ‒ tratto da “Materia Lucida”
Regolamento:
1.Il Contest letterario gratuito di poesia e racconto breve “Materia Lucida” è promosso da Oubliette Magazine, dall’autrice Daniela Balestra, e dalla casa editrice Tomarchio Editore. La partecipazione al contest letterario è riservata ai maggiori di 16 anni.
La partecipazione al Contest è gratuita.
Tema libero.
2. Articolato in due sezioni:
A. Poesia (limite 100 versi)
B. Racconto breve (limite 1000 parole)
3. Per la sezione A si partecipa inserendo la propria poesia sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con poesie edite ed inedite.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Per la sezione B si partecipa inserendo il proprio racconto sotto forma di commento sotto questo stesso bando (a fine pagina) indicando nome, cognome, dichiarazione di accettazione del regolamento. Si può partecipare con racconti editi ed inediti.
Le opere senza nome, cognome, e dichiarazione di accettazione del regolamento NON saranno pubblicate perché squalificate. Inoltre NON si partecipa via e-mail ma nel modo sopra indicato.
Importante: cliccare su Non sono un robot, è un sistema Captcha che ci protegge dallo spam. Per convalidare la partecipazione bisogna cliccare sulla casella.
Ogni concorrente può partecipare ad entrambe le sezioni con una sola opera.
4. Premio:
N° 1 copia del libro “Materia Lucida” edito nel 2023 dalla casa editrice Tomarchio Editore.
Saranno premiati i primi due classificati per entrambe le sezioni.
5. La scadenza per l’invio delle opere, come commento sotto questo stesso bando, è fissata per il 7 gennaio 2024 a mezzanotte.
6. Il giudizio della giuria è insindacabile ed inappellabile. La giuria è composta da:
Alessia Mocci (Editor in chief)
Daniela Balestra (Scrittrice)
Carolina Colombi (Scrittrice e Collaboratrice Oubliette)
Stefano Pioli (Collaboratore Oubliette)
Antonietta Fragnito (Poetessa e scrittrice)
Rebecca Mais (Collaboratrice Oubliette)
Manuela Orrù (Scrittrice e Collaboratrice Oubliette)
7. Il contest non si assume alcuna responsabilità su eventuali plagi, dati non veritieri, violazione della privacy.
8. Si esortano i concorrenti per un invio sollecito senza attendere gli ultimi giorni utili, onde facilitare le operazioni di coordinamento. La collaborazione in tal senso sarà sentitamente apprezzata.
9. La segreteria è a disposizione per ogni informazione e delucidazione per e-mail: oubliettemagazine@hotmail.it indicando nell’oggetto “Info Contest” (NON si partecipa via e-mail ma direttamente sotto il bando), in alternativa all’email si può comunicare attraverso la pagina fan di Facebook.
10. È possibile seguire l’andamento del Contest ricevendo via e-mail tutte le notifiche con le nuove partecipanti al Contest Letterario; troverete nella sezione dei commenti la possibilità di farlo facilmente mettendo la spunta in “Avvertimi via e-mail in caso di risposte al mio commento”.
11. La partecipazione al Contest implica l’accettazione incondizionata del presente regolamento e l’autorizzazione al trattamento dei dati personali ai soli fini istituzionali (Gdpr 679/2016). Il mancato rispetto delle norme sopra descritte comporta l’esclusione dal concorso.
Buona partecipazione!
TI SEPPELLIREMO
Ti seppelliremo
durante un temporale e sarà come
aggiungere alla terra
tutte le tue ragioni
già intrise di speranze
sul prato ripulito dalle erbacce.
Resteranno a vegliarti
poche gocce
finché anch’esse avran vita.
Fino al sorgere pieno
e mortale del sole che cancella
ogni traccia.
Così sempre ogni volta
e per ogni terra, ogni goccia,
ogni sole perduto che scivola
indietro ripiegando alla notte
adagiata sui corpi.
Ma con dolci intenzioni.
sez. A – accetto il regolamento
UN FATALE INCONTRO
Era rimasto da solo in mezzo all’oceano sotto le stelle scintillanti che guardava beato, crogiolandosi nell’acqua gelida e scura.
In quel momento un rumore lontano gli fece abbassare lo sguardo e così ne scorse alcune mai viste prima, appena sopra l’orizzonte.
Come era nato? Da dove veniva? Non ricordava bene. Nelle notti gelide sognava, talvolta, una grande muraglia bianca da cui si staccava precipitando nel mare, dove cominciava a navigare. Ricordava solo, con chiarezza, i suoi simili allontanarsi sempre più da lui, scomparendo a poco a poco tra le onde; e allora si scopriva felice di avere un cuore di ghiaccio.
Ma anche un cuore così era in pericolo, di fronte alla belva che ogni mattina divorava notte, luna e stelle.
Usciva dal mare, la bestia infuocata, poi lentamente saliva nel cielo, sempre più in alto – come fanno i pulcinella di mare prima di gettarsi nei branchi di aringhe – e infine si rituffava in acqua dalla parte opposta, rossa di sangue.
Un giorno gli fu sopra e lo accarezzò con un piccolo raggio che gli diede un brivido, uno strano brivido caldo.
Quando si riebbe notò che la sua pelle era diventata, dove era stata toccata, liquida; ma bastò solo un refolo freddo a ripararla. Poi si accorse che, carezza dopo carezza, ciò avveniva sempre più lentamente…
C’era comunque più vita, da qualche tempo, nel mare, nel cielo e sulle coste. Pesci, uccelli, foche, balene. Strane creature capaci di muoversi, ma di muoversi davvero, libere da venti e correnti.
Creature che spesso nuotavano, volavano o camminavano con loro simili più piccoli, molto più piccoli a volte, che chiamavano figli.
Figli. Gli sarebbe piaciuto averne almeno uno, farsi chiamare papà!
Fermò una megattera che giocava con la sua bimba e glielo chiese.
Lei lanciò uno sbuffo enorme nel cielo grigio, un po’ per la sorpresa, un po’ per il divertimento…
“Come fare per avere un bimbo o una bimba, mi chiedi? Ma non puoi, sei un iceberg! Bisogna essere in due, per fare dei figli… E con il cuore di ghiaccio che ti ritrovi e quella pellaccia piena di spuntoni aguzzi, chi vuoi che si avvicini a te? Pensa piuttosto a goderti la vita, prima di scioglierti!”
Scioglierti. Quella parola non gli piaceva.
“Cosa significa scioglierti?” chiese.
La megattera rimase un attimo in silenzio, perché si era accorta della gaffe.
Poi riprese a parlare…
“Significa che col tempo diverrai sempre più piccolo e ralla fine ti spaccherai in tanti pezzi, con grande fragore… Ehi, magari i figli degli iceberg nascono così!”, concluse.
Lui accennò un: “Può darsi” di cortesia, ma sapeva che non era vero. Perché i figli non sono pezzi di noi.
Se ne stava dunque da solo in mezzo all’oceano il nostro iceberg, preso da pensieri, timori e ricordi, quando vide quelle strane stelle.
Nonostante la nebbia che cominciava a coprire il mare se ne accorse quasi subito: non stelle, erano, ma luci che brillavano sul corpo di una enorme creatura, scura come un capodoglio, grande come dieci di essi, che in mezzo al dorso aveva tre enormi sfiatatoi, da cui però non uscivano spruzzi violenti e fugaci d’acqua, ma qualcosa che aveva l’aspetto e la consistenza delle nuvole temporalesche e saliva lassù come un sottile, alto uccello senza forma e senza ali.
Poi ecco la sua voce, fatta di tanti suoni diversi: mugghianti, stridenti, pulsanti, musicali, comunque affascinanti in quel silenzio…
Era, quella creatura misteriosa, la cosa più meravigliosa ed eccitante che l’iceberg avesse mai visto.
E si stava avvicinando a lui…
Al termine di tutto, cercò di riordinare le idee.
Era stato unicamente un sogno?
Un sogno il suo strusciarsi impudico contro di lui e quello stridio, forse di piacere? Un sogno la vista di quei piccoli bipedi chiusi nelle uova luminose, un sogno il tuffarsi di centinaia di essi nelle buie e sicure profondità marine, a fianco della mamma?
No, non un sogno, ne era sicuro: un giorno si sarebbero reincontrati e i piccoli, forse, lo avrebbero chiamato papà.
Sezione B, accetto il regolamento.
Racconto originale e scrittura elegante! Visivamente mi ha ricordato “Il mare di ghiaccio” di Caspar David Friedrich. Complimenti!
Un racconto stupendo, titanico!
Bello il gioco di parole!
HISTOIRE D’UNE VIE
(A Cesare Pavese)
A te, che assorto
ad ascoltare il mare,
ancorato ad una stella,
mai tacesti parola
che non fosse terra d’alberi
e di strade, il luminìo di acque
sugl’infebbrati frutti,
di nidi sopra i tetti,
ostinata brezza
sulle colline avvolte.
Urla il cuore
all’alba che non giunge
a placare l’anima
sul soglio dell’ignoto,
si torce la luce
nel fiotto del bacile.
Esacerbata notte che s’arrende,
affiora dai disciolti nimbi
la fievole apparenza,
cuspide la ruga sullo specchio
il segno del prodigio
nel cuore di una viola…
e quell’amore,
che non fu mai gancio
ma fuggente desiderio,
inafferrato gaudio,
agognato sorso.
SEZ. A – Accetto il regolamento
23 Settembre 2023
“Aequinoctium”
Ti vedo nell’ondeggiare di chiome
mezze verdi e metà di altri colori.
Ti sento dentro lo zefiro fresco
e nei nembi dalla pioggia carichi.
Ti odo nel silenzio dei pomeriggi
e nell’ultimo frinire dei grilli.
Tornato sei, amato Autunno, nel madido
suolo e gli effluvi cangianti. Stagione
ricca di frutti la tua e di profumi.
Vedo il contadino terra zappare.
Vedo il contadino uva vendemmiare.
Autunno, tu arricchisci la stagione.
Sezione A-Alessio Romanini- Accetto il regolamento
CONTANDO LE FOGLIE IN AUTUNNO
Novembre 2023
Ciao madre,
oggi è il mio compleanno(chissà se lo ricorderai), un altro
autunno a contare le foglie cadere da quanto mi hai
abbandonato; sono quattordici gli anni miei e dodici anni
sono che tu mi hai lasciato come un pacco nell’oblio.
E sono quattordici anni che ti aspetto! Madre.
Non voglio il tuo regalo. Il più grande regalo da parte tua
sarebbe quell’abbraccio che mi hai negato. Ed una parola di
chiarezza sul motivo per cui mi hai abbandonato.
Sicuramente avrai avuto i tuoi motivi, che siano validi o
meno non spetta a me giudicare; il giudizio un giorno
so che te lo darà il tuo cuore.
Mi avrai amato un po’ quando ero nel grembo tuo? Avrai amato
il primo vagito? Sicuramente ti sarai emozionata, quando la
prima parola che sono riuscito a pronunciare a l’età di
due anni è stato: “Mamma!”
Proprio quando mi hai abbandonato! È la parola da me pronunciata che ti ha spaventato? Perché hai capito l’importanza del ruolo che avresti dovuto ricoprire? Bastava
l’amore!
Ma tu, dopo il mio compleanno, mi hai abbandonato. Hai lasciato
un vuoto nel mio cuore che ancora adesso non riesco a colmare.
Sono rimasto con papà e i nonni paterni…i quali si sono
presi cura di me con amorevole gioia.
Di tanto in tanto venivi a suonare al campanello di casa nostra, ma non per vedere tuo figlio, perché cercavi soldi.
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A cosa ti serviva il vile denaro? Per bucare le tue vene
con quel veleno? O perché avevi deciso di vagabondare e avevi
solamente fame?
La tua casa era diventata la strada. Mi dissero che tu non
volevi un figlio. Ma io non sono un abito vecchio che tu puoi
cambiare per rinnovare il guardaroba. Io, sono un frammento
della tua vita e lo sarò per sempre!
Madre, dimmi ti prego perché mi hai abbandonato. Ero solo
un bambino che voleva essere amato…
Madre, dopo che tu mi hai lasciato, papà si è ammalato.
Ho visto il suo viso consumato giorno dopo giorno. Ma lui era muto nel dolore e per me aveva sempre un sorriso d’amore.
Papà mi ha amato ogni giorno fino a quando è dovuto partire
per il viaggio più lungo, quello senza ritorno ed io sono
rimasto con i nonni paterni; loro, mi hanno allevato come
fossi figlio suo!
Oggi sono qui, al quattordicesimo compleanno, perché
comincio ad essere uomo e vorrei capire.
Ti ho visto qualche mese fa quando sei tornata a chiedere elemosina…e nonno, con disprezzo ti ha dato qualcosa.
Quando vieni a suonare, ti guardo di nascosto dalle imposte
socchiuse. Il cuore fa molto male ed ogni volta comincia
ancora a sanguinare.
Vorrei parlarti di tutto quel dolore che ho provato quando
a Natale, tu non eri il regalo che avevo agognato; Babbo Natale non mi ha mai ascoltato…
A scuola tutti avevano la mamma ed io ero solo un orfano…papà era morto ma in cuor mio anche tu sei morta.
Madre, oggi vorrei dirti che finalmente ho trovato una
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fidanzata. È molto bella e dolce. Con lei non ho paura e non
sento quel vacuo che non ho mai colmato.
Anche se sono solamente adolescente, sento che è la donna
che compensa una parte di quel silenzio che ha sempre fatto
rumore nel mio sterno.
Non so se sarà la donna di tutta una vita, questo nessuno lo può sapere, quello che so di certo è che ho capito finalmente cosa vuol dire amare ed essere amato.
Madre, perché non sei riuscita ad amarmi? Io non ti ho chiesto
di venire in questo mondo…ma se hai fatto un gesto d’amore per avermi, che sia stato un momento sbagliato o meno, potevi provare ad amarmi.
Non fraintendere madre, non ti voglio giudicare; vorrei solo capire perché mi hai abbandonato.
Io e te, sai quanto amore al mondo avremmo regalato?
In questo giorno del mio quattordicesimo compleanno, è tornato
nel cuore un amaro ricordo; quando tu te ne sei andata da me!
Ricordo le mie lacrime che graffiavano le tumide labbra, mentre
dalla finestra di camera vedevo la tua scura figura allontanarsi. Ero solo un bambino che vedeva la sua mamma
andarsene. E nel mio cuore ho sempre creduto che la colpa fosse mia. E nella mia anima ho portato il fardello della colpa.
L’ho portato come un nero drappo sigillato in ogni palpito
del petto; e per difendermi avevo smesso di amare.
Ma oggi sciolgo il nero drappo e anche io voglio essere felice!
Tutti hanno diritto ad esserlo…anche tu, ma anche io.
Quindi madre, oggi abbandono quella colpa che non è mia
e senza giudicare quale tipo di errore hai commesso, vado
avanti lo stesso…e voglio ricominciare ad avere speranza
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nell’amore che mi fu rubato.
Madre, comunque ti abbraccio con affetto…non voglio sapere
se ti senti in difetto ed anzi, la porta del mio cuore
sarà sempre aperta per quando vorrai suonare.
Tuo Figlio.
4 Sezione B-Alessio Romanini-Accetto regolamento
TERRA MIA!
Nello scorrere
del tempo
sei rimasta ferma
nello stesso spazio.
Ce stata una sfida
tra me e te
in quei giorni
del nostro addio…
Tra sospiri è malinconia
ci siamo promessi
di rincontrarci nella
stessa via…
La tua bellezza
non l’ho dimenticata
anche se dopo tanti anni
sono un po’
preoccupata…
Il nostro desiderio
è rimasto per lungo tempo
sospeso
eppure viviamo
sotto lo stesso cielo…
l’inchiostro della distanza
non è mai finito…
Ti prego resta ancora
nello stesso spazio
prenderò il volo
arriverò da te
camminerò a piedi nudi
sul fazzoletto di terra che
ci siamo detti addio
tanti anni fa…
Ti abbraccerò ancora
amica mia
preziosa terra mia.
MariaVittoria
29/11/2023 sez. A, accetto il regolamento
M’aggrada il gusto molle della vita
l’accoccolarmi addosso
agli angoli smussati dal tramonto
dentro l’inezia che forma perfezione.
Assesto pelle e ossa in quello spazio,
da mai e come sempre e ancora
a dispetto di ogni ingenua follia
malgrado un residuo di tempo
contrappeso di un senso preteso
non mi abituo a non avere nostalgia.
Rosella Bucari – sez. A – accetto il regolamento
“Caro Etichetta”
Caro etichetta
Due cose
Ti dico
La tua linea
Appesa a
Un filo Di squilli
Quanti squilli
Ha il mio telefono
Della tua etichetta
Quanto insisti
Quanto squilli
Con questa Etichetta
Altri due Squilli
Vado di fretta
Ma se sei amico
O etichetta
Impara A parlare
Etichetta
Mi hai preso
Forse
Ci vedi
Per un cibo
Confezionato
Un abito Usato
senza Etichetta
Impara a Rivolgere
I tuoi pensieri Altrove
non trovi
La tua Testa
La tua Etichetta
È affissa
Allo stesso Muro
Su cui Leggo
quando Passo
ogni Volta
Davanti quel muro
“pestato” “passato di pomodoro” “euro 5 e 13 centesimi” “max mara”
Ma davvero Ci vedi
O è un pò Chiunque
che Vedi Per etichette
Ma ti sei visto In faccia
N’è Etichetta
Vuoi cambiarmi Il nome
Ho un NOME
Ma il tuo
Te lo sei Messo
Per bene
Pietosa Etichetta
Merce
Esclusa
Scaduta
Obsoleta
Etichetta Sei TU
Quanto avrai
Ripetuto
I tuoi squilli
la tua amicizia
Etichetta
Con questa etichetta
Che ti sei Dato
Caro Etichetta
Ciao
accetto il regolamento, sez. a
Angelo NAPOLITANO
Sez. A; Accetto il regolamento
BETLEMME
Tenevo i pugni stretti e gli occhi chiusi.
Gridavo…! Gridavo a tutto il mondo
della violenza assurda che subivo.
Vivevo il paradiso, il bello-tutto.
Vivevo. E all’improvviso sono morto!
Tutti dicono, invece, ch’ero nato.
Ora ho imparato a nascere e morire;
la culla, cenotafio del futuro,
dell’oggi… del presente, del mio sempre.
Verginemadre! Verginemaria!
Tu porti molte cose nel tuo sguardo,
la terra tua, il cielo, le parole;
i segni di un pudore riservato,
tenuto ben protetto, clandestino
ma tutto rivelato sul tuo viso,
nel tuo bicchiere colmo del mio vino.
Porti la croce con i chiodi aguzzi,
porti la coppa di resurrezione.
Porti… Ma solo a chi ti sa guardare:
ai falegnami, ai vecchi carpentieri,
le donne col grembiule da cucina,
le mamme austere, bianche di farina,
gli schizzi del ragù domenicale;
come un presepio tutto da inventare,
col muschio colto al sole del mattino,
e con la greppia fumigante e piena.
Nell’aria le campane della festa
di tutti i giorni; per il mio natale.
QUELLA PAROLA
Quella parola non va pensata,
Né detta, né tantomeno scritta:
Deve stare sospesa tra dita e tastiera,
Come impigliata, un po’ falsa un po’ vera.
Poi verrà, qualcosa verrà; spegnerà la brace
Nascosta, tenace, disperderà la cenere:
E sarò lucida pietra, stolido scoglio
Striato qui e là da guano di gabbiano.
Sezione A, accetto il regolamento
Bellissima!
La morte si sconta vivendo!
Grazie anche per questo parere, vedo che sta leggendo brani di almeno 6 mesi fa!
E’ di nuovo natale
Tornano le voci,
come scintille di stelle
cadono sui pensieri che prendono fuoco
Arde la nostalgia
e brucia vigorosa i ricordi di infanzia
e gli affetti mancati
Devastanti attimi passati guardando le stelle
incupite da nuvole grevi,
appese lassù a guardia del nostro futuro
Le orecchie esplodono e gli occhi si abbagliano
La mente vorrebbe fuggire nella notte
ma gambe malferme inciampano
negli alti gradini del passato
Stesi sul selciato umido i palmi protesi a difesa
si aspetta l’ultimo rintocco
che zittisce la festa
e addormenta le pene.
Sezione A – Daniela Cavazzi – Accetto il regolamento
L’alter ego
-Trovarsi, perdersi-
È qui vivido davanti ai miei occhi il momento in cui ti ho visto la prima volta. Non lo sapevo, ma avevo trovato me. Solo dopo molto tempo ho acquisito la consapevolezza che eri, sei, il mio alter ego. Io sento il tuo battito e sento il tuo dolore. Ma anche la gioia e il tuo sorriso, quello è in me sempre.
Talvolta mi chiedo perché ci sono voluti tanti anni di assenza, di lontananza prima di capire che a metà non potevamo vivere felici. Eri quel passo che mi mancava, quella parola che non sapevo pronunciare. Eri quel pensiero senza volto e senza profumo che sentivo girarmi intorno silenzioso. Ringrazio sempre il tuo coraggio, la tua risolutezza nel cercarmi. La tua voglia di trovarmi, la tua decisione di restare. Quante parole mi hai anticipato? Quante risate mi hai regalato? Ne ho perso il conto. E vorrei continuare a perderlo.
-Riprendersi-
Ricordi come ero quando ci siamo “ripresi”? Pensa a quello che ti dicevo di me. Pensa alla domanda che mi facesti durante una delle prime volte che ci siamo sentiti: “Sei felice?”
Ti risposi di no e tu mi dicesti con foga “lo sapevo!”. Io ti ho immaginato trattenere il fiato in attesa della mia risposta. Ma l’ho immaginato solo dopo aver sentito il tuo “Lo sapevo!” Da allora è stato tutto diverso. Eri riuscito a tirarmi fuori un pezzetto di me, a farmi parlare di un mio stato d’animo, di un mio sentimento. Eri entrato in me, un tuffo rapido, diretto. Come sei tu. Diretto. E questa cosa mi piace, mi è sempre piaciuta. Come mi è sempre piaciuto condividere momenti con te, parlare con te senza badare ai minuti, le ore che scorrevano in parallelo a noi. E in questi ultimi anni ho scoperto anche il leggerti.
Ma ora non scrivi più, sei inquieto, sei diverso. Come quando ci siamo “ripresi”. Eri diverso ed eri inquieto. Ma non è che sei stato così tutti questi anni. No!
Ti avevo sentito più sereno, sicuro. E la tua sicurezza mi ha aiutato ad uscire dal mio tunnel di tristezza e di insicurezza. Mi hai insegnato a credere in me quando altri mi trovavano inutile ed incapace. Mi hai insegnato ad ascoltarmi, a trasformare i pensieri in parole e le parole in azioni.
E il tempo con te scompariva, con i suoi ingranaggi bloccati su di noi, sulle risate; o se passava non lo avvertivo se non quando sentivo il tuo “ciao”. Allora come una diga che esplode improvvisamente, riversava su di me tutto il presente lontano da noi.
Se penso a tutti questi momenti che, forse, messi insieme non coprono nemmeno un anno, mi sento felice e scrivo con il sorriso stampato sulla faccia.
E le nostre “vacanze”! Aspettate di anno in anno. Momenti solo per me e te, la mia metà. Un ricongiungersi appena accennato, sussurrato ma gioioso. Ci penso e sorrido. Era per me una certezza, una meravigliosa certezza. Ma in realtà era solo una possibilità tra tante.
Ora è diverso.
-C’è tanta differenza tra sentirle dentro le cose e dirle?-
Ricordo una tua domanda più recente: “potresti anche innamorarti?”
Qui la mia risposta fu si, mi è uscita da sola di getto, non pensata. Però vera.
Ma forse non avrei dovuto dirlo, forse il nuovo varco che ho aperto, spalancato andava lasciato chiuso, serrato, segreto. Perché da quel varco non escono più risate, chiacchierate, momenti sereni. Ovvero qualcosa esce ma è frettoloso, ancor più rubato, più doloroso. Per tutti. E tu sei muto.
Tu mi hai sempre ascoltato. Perché non posso ascoltare te? Sento spesso un impulso interiore a scriverti, a raccontarti i miei pensieri e i miei sentimenti.
Ma poi mi blocco. Il tuo silenzio mi blocca e anche il timore di ritrovare in te quello stesso sguardo che conosco molto bene che mi parla di noia, di sopportazione, che mi dice, senza parlare, “ma quando finisce ‘sta storia?” Tutte queste parole non dette mi stanno scoppiando dentro. Stanno gonfiando l’anima come il grisou le miniere. Se mi stappi, ti esplodo in faccia impiastricciandoti di tutta me.
E allora ho deciso di aprire solo un po’ la valvola di sfogo e lasciare andare qualche pensiero, bello o brutto non importa, basta che esca.
Oggi hai fortuna sono solo pensieri belli. Anche se mi sento sola, un po’ abbandonata dalle tue canzonature, dalle nostre risate, mi sento comunque felice anzi inquietamente felice. Ho tuttora una voglia irrefrenabile di chiamarti di sentirti dire il tuo “come va?” Sentire la tua voce che ho sempre amato. Mi andrebbe bene anche se mi leggessi una favola. Sono poco esigente, vedi?
Non so perché hai smesso di scrivermi con scioltezza, con la tranquillità di un bel sogno. Ora mi sento sempre oppressa dalla tua non comunicazione. Cosa pensi? Aspetti che sia io a parlarti? Oppure non ne hai mai il desiderio?
Inutile chiedertelo, non rispondi. Ora come nella realtà. Cosa vuoi che faccia?
Beh! forse nulla ed invece io desidero che tu voglia qualcosa da me.
Non possiamo tornare ad essere come eravamo “prima”? Tu dici che non si può per via di quel varco. Io non so…
C’è tanta differenza tra sentirle dentro le cose e dirle?
Sezione B – Daniela Cavazzi – Accetto il regolamento
Tu sei complicata, lui è semplice. Tutto qui il problema!
OMBRA
Stanotte
ho tradito la mia ombra silenziosa
ed ho seguito la tua
solenne
conforma a quella dei miei sogni
ondeggiante
come un cavallo ubriaco
Ho litigato con le lucciole
gelose compagne mie
e la luna
oh quella luna
restava inutilmente a corteggiarmi
Io seguivo la tua ombra
sognante, quieta
scevra dell’onta di quest’epoca
risonante di un romantico sorriso
ma ho temuto quando
è scomparsa all’alba
ed io quasi gridavo spasmodico mi agitavo
e mi svegliavo
abbracciato ad un’altra donna
sezione A accetto il regolamento
Complimenti!
Mi ricordo di te
dalle prime gesta
profuse d’amore
quando nel dolore ho cominciato
a respirare sul tuo petto
che batteva piu’ forte
dell’esistenza medesima.
Siamo due fuochi
che corrono
per comprendere il cosmo.
accetto il regolamento, sez. a
Storie
I pensieri vagano nelle trame
di arazzi incantati,
storie vecchie
disegnati ad arte,
mani che intrappolano pensieri
nei fili intessuti,
imbevuti d’amore,
storie di donne cresciute
in mezzo ai colori,
storie normali
rese straordinarie.
Magie di colori
passioni di mani artigiane,
mondi paralleli
di vite vissute
fiori e case,
animali e pastori,
Storie di donne
rese eterne nel tempo
da mani sapienti
lavorate in fili di rame.
Ilse Atzori
Accetto il regolamento sez A
UN PULVISCOLO DI STELLE
Un pulviscolo di stelle
Mi scende sulla pelle,
fa splendere la mia mente
e mi fa dimenticare
i miei tormenti.
Un’espressione enigmatica
mi tranquillizza e mi commuove,
sento il cuore che vibra
di dolce emozione.
Ammiro le stelle su nel cielo
e vorrei volare lassù
e con loro vivere nell’azzurro,
senza pensare al
mio vivere quaggiù,
che è solo tormento e nulla più.
Giovanna Li Volti Guzzardi
ACCETTO IL REGOLAMENTO, SEZ. A
“ The wall “
Cadono le ragioni
nell’ombra del disprezzo.
Una colata di cemento
e l’orizzonte scompare.
Un cielo livido sotto
i colpi dell’ingiustizia,
senza alcun rimpianto.
Giochi innocenti, interrotti
da una linea che strozza
i vocii e lacera i loro sorrisi.
Figure di cartone e nomi
che non hanno più un senso,
dietro quel mezzo metro
di spessore e di vergogna,
che divide la libertà,
dalla condanna.
Accetto il regolamento – sezione A
C’è una parte del mondo
C’è una parte del mondo che va d’accordo con tutti,
che è pronta ad aiutare tutti coloro che ne hanno bisogno,
ma che però vuole vivere in santa pace
perché principalmente si è guadagnata la pace !
È quella parte del mondo che tutto rispetta,
ma che però a giusta ragione vuole essere rispettata !
Si perché noi siamo abituati a volersi bene,
siamo abituati a voler e poter vivere tranquilli …
Noi siamo abituati anche
ad aiutare tutti coloro che ne hanno bisogno …
Però purtroppo c’è una parte del mondo
che avvia solo guerre,
che sta bruciando le loro terre
e che ammazza la gente come se fosse niente !
È quella parte del mondo
da dove la gente fugge disperata …
gente che però dopo
invade quell’altra parte del mondo
e in troppi lo fanno senza rispetto per nessuno !
Forse loro sono abituati cosi … ma noi no …
noi vogliamo ancor poter rispettare tutto e tutti
noi vogliamo ancor poter dire
che questa è quella parte del mondo
dove ci vogliamo bene … dove siamo ancora liberi …
dove vogliamo rivivere e festeggiare
il nostro Natale in santa pace …
dove vogliamo e possiamo ancora liberamente
le Buone Feste a tutti augurare !
– accetto il regolamento sez. a
La bottega del fabbro
Si chiamava “Piazza del Mulino” e si trovava nel bel mezzo di una decina di case costruite molti anni prima. Tra una casa e l’altra c’era un piccolo giardino dove quasi tutti avevano anche il pollaio. All’alba di ogni mattino era tutto un vociare di galli che , anche se non comandata, davano la sveglia a tutto il quartiere.Ma in quei tempi nessuno reclamava se il gallo cantava o se le campane della vicina chiesetta suonavano. Anzi, erano quasi una necessità per tutti coloro che si dovevano recare al lavoro. La stradina d’entrata alla piazza passava sotto ad un porticato costituito da un arco costruito sotto alla casa più grande che ospitava a destra un negozietto di alimentari e a sinistra un piccolo ristorante, ambedue gestiti dalla signora Armida e da suo marito Fabio, gente arrivata da lontano e che era molto affabile e benvoluta da tutti. Al piano terreno della seconda casa vicino al negozio c’era la signora Sandra con la sua sartoria. Dirimpetto invece, vicino al ristorante, c’era la panetteria del signor Giacomo che nell’aria immancabilmente emanava un buonissimo profumo di pane appena sfornato. Poi c’era la bottega del fabbro dove il signor Tommaso da mattina a sera picchiava il suo martello sull’incudine emanando, per la gioia di pochi, oltre al rumore anche un fumo denso che proveniva dalla forgia.Di fianco c’era la casa e il negozio di Aldo il barbiere e poco più in la quella di Sergio il ciabattino.Dall’altro lato della piazza, quasi nascosto da una bella fontana che erogava acqua freschissima e derivante direttamente da una sorgente che sbucava in cima alla collina, c’era il negozio di Anna la fioraia.Qui tutti si volevano bene e si rispettavano. Regolarmente nella piazza era tutto un vociare di bambini che allegramente si rincorrevano con i loro innumerevoli giochi all’aperto.Sotto le grondaie era tutto uno svolazzare di rondini che volavano nel cielo e che ogni tanto si fermavano sui rami dei tre maestosi pini piantati davanti alla fontana. Un giorno, fortunatamente nelle ore che i ragazzi si trovavano a scuola, successe un fatto strano per il quale poi tutti gli abitanti della piazza parteciparono spalla a spalla onde evitare il peggio. Fu Anna la fioraia a lanciare l’allarme quando d’improvviso vide del fumo uscire dal muro che divideva la panetteria dalla bottega del fabbro. Fumo, fuoco e fiamme che in un attimo si imposessarono di una catasta di legna che Giacomo aveva scaricato provvisoriamente in attesa di portarla all’interno, così da poterla usare per il suo grande forno. C’era chi accorreva con dei secchi mentre Aldo e Sergio allacciarono delle gomme al rubinetto della fontana per gettare acqua e tentare di spegnere il più in fretta possibile l’incendio che minacciava di espandersi velocemente verso le altre costruzioni vicine. La rabbia si sa è cattiva consigliera e fu così che qualcuno pensò subito alla forgia del signor Tommaso incolpandolo di aver innescato l’incendio. Ma proprio quel giorno invece la forgia era spenta e quindi non ne poteva essere la causa. Presi come erano nel loro intervento nessuno aveva pensato a Giacomo, a dove poteva essere o dove poteva essersi recato in quanto proprio in quelle ore egli solitamente faceva la distribuzione di pane e pasticcini agli abitanti delle altre piazze li attorno.Tommaso però, visto che la sua bottega è contigua con la panetteria, ebbe fortunatamente l’idea di forzare la porta. Il povero Giacomo era riverso sulle scale che portano al suo appartamento e dava segni di asfissione in quanto, benché aveva avuto la correttezza di indossare una grossa coperta e coprirsi in particolare il viso, aveva inalato molto fumo.Tommaso, da uomo forzuto qual’era, portò all’esterno di peso il vicino che era leggermente intossicato e lo affidò a Sandra e Armida le quali si presero subito cura di lui.Per i soccorritori e improvvisati pompieri rimase solo il dubbio che li attanagliava sulle cause del rogo che nel frattempo aveva semi distrutto il laboratorio.Tutto da buttare e tutto da rifare per far si che in futuro la panetteria potesse continuare nel suo scopo. Quando Giacomo si riprese poté solo raccontare di essersi appisolato per un attimo seduto comodamente vicino al forno, in attesa di togliere le pagnotte alle quali mancavano solo pochi minuti per finirne la cottura. Purtroppo data la stanchezza di una notte intensa di lavoro si era addormentato e sicuramente con un gesto incontrollato aveva fatto cadere la scopa di saggina posata li da parte. L’ipotesi più plausibile è che la scopa sia finita contro il forno aperto prendendo fuoco e andando ad attizzare ulteriori materiali di facile combustione. Certo è che per Giacomo questo era stato un grande colpo. La panetteria distrutta e l’impossibilità di lavorare lo avevano scosso molto. I vicini però reagirono immediatamente ed il giorno dopo, assieme a lui, iniziarono a costruire una tettoia provvisoria in mezzo alla piazza. Arrivò pure un forno elettrico d’occasione e tutto l’altro materiale necessario per la preparazione del pane e che trovarono il giusto spazio in quella situazione provvisoria.Fu cosi che, intanto che gli artigiani iniziarono al rifacimento e al rinnovamento totale della panetteria, la gente dei dintorni non rimase senza il buon pane. I più felici furono i bambini in quanto, per gratitudine verso i loro genitori che lo avevano aiutato in quel triste momento, Giacomo distribuiva loro i pasticcini gratuitamente.Ma loro volevano sapere e quindi facevano una infinità di domande su quanto era accaduto quel fatidico giorno . Giacomo in tono burlesco si limitava a rispondere loro : “ ma cosa volete che ne sappia … io … io dormivo … chiedete a Tommaso … è lui che mi ha svegliato ..!” Ora son passati molti anni, la “Piazza del Mulino” è cambiata totalmente, hanno demolito tutto e vi hanno costruito dei nuovi palazzi. Gli architetti e i progettisti del nuovo nucleo abitativo avrebbero voluto demolire anche la vecchia fontana ma la gente del paese, memore dell’incendio di molti anni prima, si oppose fermamente riuscendo pure nell’intento di far potenziare la portata d’acqua e facendo installare lì vicino un pratico idrante. Certo è che oggi non ci sono più gli orticelli, i negozietti, non si sente più il canto dei galli, non si sente più il profumo del pane, non si sentono più i colpi di martello picchiati sulla forgia. Hanno tolto pure i tre pini piantando al loro posto tre altissime antenne in metallo dove, in occasione delle feste di paese, oggi vengono issate le bandiere. Anche le rondini non hanno più le gronde o i rami su cui fermarsi e purtroppo non ci sono più neppure i protagonisti della nostra storiella : Armida, Fabio, Sandra, Giacomo, Tommaso, Aldo, Sergio, Anna … e tutti gli altri… se ne sono andati. Qui tutto è cambiato … e sono cambiate anche le voci dei bambini che giocano sulla nuova “Piazza del Mulino”. Rimane però l’eventuale pericolo di incendio che potrebbe capitare in qualunque posto nel mondo se qualcuno incautamente si addormenterà, così come aveva fatto il buon Giacomo quel giorno, con una fiamma incontrollata lì vicino e che potrebbe incendiare qualunque cosa. Grazie alla gente del paese però con l’acqua della vecchia fontana ed il nuovo idrante, quella fiamma verrebbe subito spenta !
– accetto il regolamento, sez. b
L ‘ADDIO
Caro Giuseppe, Scrivo queste parole con il cuore pesante e pieno di emozioni contrastanti. È passato molto tempo da quando ci siamo visti l’ultima volta, e ho bisogno di condividere con te i miei sentimenti e pensieri. La nostra storia è stata un meraviglioso e proibito amore, nato per caso in circostanze che nessuno di noi poteva prevedere. Ricordo ancora il giorno in cui ci siamo incontrati, quella sera magica che ha segnato l’inizio di tutto. Ma poi, le circostanze ci hanno separato, e abbiamo vissuto in attesa di un chiarimento che sembrava non arrivare mai. Ho cercato di andare avanti, di dimenticarti, ma il mio cuore è stato sempre tuo. Ogni volta che ho tentato di voltare pagina, un piccolo gesto o un ricordo tornava a farmi sperare. Poi, un giorno, ho sentito dire che mi avevi cercato, ma era troppo tardi. La mia vita era cambiata, e ho deciso di andare via, cercando di lasciarti alle spalle. Ho cercato di trovarti tra i volti e le parole scritte, ma era come se tu fossi scomparso. Ho cercato conforto in altre storie e altri amori, ma nessuno è mai riuscito a prendere il posto che hai nel mio cuore. Sono sfiorito e invecchiato nel corso di questi anni, portando con me il peso dei ricordi e dei “cosa avrebbe potuto essere”. Oggi, ti scrivo questa lettera per dirti addio. Voglio lasciarti libero, come forse hai sempre desiderato. So che la vita ci ha portato in direzioni diverse, e forse ora sei diventato padre o hai una famiglia tutta tua. Ho sempre pensato alle notti in cui speravo tu avessi pensato a me, alle risate e ai momenti di segretezza condivisi. Anche se lontani, quei ricordi sono rimasti vivi nel mio cuore. Non so se questa lettera arriverà mai tra le tue mani, e non so se dovrei spedirla o tenerla per me. Ma in ogni caso, è giunto il momento per me di chiudere questo capitolo della mia vita e cercare di andare avanti. Mi sono ancorato alla fermata dell’uscita dell’autostrada dove mi hai lasciato, e le lacrime hanno riempito il mio viso. Mi rimane solo il ricordo del tuo sguardo nel momento in cui te ne sei andato. Vivo ancora di quegli istanti, anche se il dolore dell’addio mi ha quasi ucciso. Per orgoglio, me ne sono andato, sperando che tu mi seguissi. Il freddo abbracciava la notte, come una corda infinita che si tendeva nell’oscurità. Era un addio che bruciava nell’anima, un distacco che faceva male più di ogni altra cosa. L’aria era carica di un dolore denso, come se ogni respiro fosse un pugno nel petto.Mi rendo conto che non sono un bravo uomo. Porto con me il peso dei miei fallimenti, delle scelte sbagliate e delle parole non dette. La vendetta è diventata la mia compagna silenziosa, il modo in cui cerco di lenire il dolore che tu hai causato, anche se so che questo non risolverà nulla.
Nel profondo, ho aperto il mio cuore, e ti offro la sincerità delle mie emozioni. Amo senza volerlo, soffro senza necessità, e la tua assenza è come una ferita aperta che non smette di sanguinare. Mi chiedo se tu possa mai capire quanto mi manchi, quanto io manchi a me stesso.
Con il peso della mia umanità, chiudo questo diario sperando che un giorno avrò il coraggio di premere quel tasto e dirti quanto sia difficile vivere senza di te.
accetto il regolamento, sez. B
LO SAI CHE …
Lo sai che
la don-azione di sangue è
una buon-azione ed anche
una bell-azione?
Lo sai che
la donazione di sangue
parla di te
senza che tu dica qualcosa,
quando, gratuitamente – allora che dono sarebbe? –
offri la mano,
che è mano d’aiuto al tuo fratello
o sorella che non conosci?
Lo sai che,
grazie a te,
qualcuno può averla, la Vita,
se malattia o accidenti l’attentano?
Lo sai che …
Ma, lasciamo le parole,
le tante dette e ridette …
Conta solo,
con il tuo dono del sangue,
con la buona e bella azione,
il tuo Sì alla vita.
Che parla di te.
acetto il regolamento – sez . A
Un mondo incandescente
Le povere dita ustionate
non hanno più presa.
Da spalle stanche cadono brandelli di cielo
Rimane la pesantezza di una terra trascurata.
Nonostante la faticosa aratura del sessantotto
Il misero raccolto non riesce a sfamare
la bocca della civiltà
Troppe ancora le piante infestanti.
Grosse spine pungono la carne viva
Fitte dolorose s’addentrano nell’ossatura
di un mondo che vacilla.
sez. A, accetto il regolamento
A THIAGO BAMBINO MAI NATO
Adesso anche se non siamo più. Almeno così dicono sulla terra.
Io dico che siamo.
Tu ed io: figlio e madre.
-Ti ricordi quando mi divertivo ad indovinare il colore dei tuoi occhi? La forma del tuo naso e quella della tua boccuccia?-
E come ogni madre attendevo il momento della tua venuta al mondo, per conoscerti.
Magari per dire al mondo di aver partorito un figlio fantastico.
Adesso, solo adesso mi rendo conto, quanto tutto questo non sia poi così rilevante.
Pur non avendo ancora visto il tuo volto, posso dire che sei un figlio meraviglioso.
Dove siamo adesso non è poi così importante la bellezza esteriore.
Quello che conta in questa nuova dimensione è ben altro.
La materia si è sgretolata fino a scomparire. Ma l’anima è così bella!
Così pura!
Thiago figlio mio, privato da chi doveva amarti e proteggerti dell’immenso dono della vita terrena.
Da un individuo capace di amare esclusivamente sé stesso.
Quindi come poteva esserti padre?
Ma adesso bando ai rimpianti.
Pensiamo solo a stare insieme.
Sei dentro di me, ti sento
e tu senti la tua mamma.
Io sono la tua dimora e tu il sole che la riscalda.
Solo noi:
Anime amalgamate nell’eterno esistere.
Mamma Giulia.
sez. B, accetto il regolamento
A costo di inimicarmi parecchi tra voi, leggo parecchia retorica mescolata a buoni sentimenti. Vorrei leggere dei RACCONTI.
Occhi color dell’anima
(dedicato ad un giovane avvocato dagli occhi azzurri).
Gli occhi tuoi sono tinti di mare,
nel cobalto siede il sorriso tuo
che danza in una plumbea giornata.
Sono occhi colmi di lievi colori,
per uno scherzo che non ha più luoghi
a cui il sole può un po’ tornare.
I tuoi occhi, pur mia sola luce
nel buio ancor pesante, sono amari,
poiché neppure una breve lacrima
ad una vile cieca può donarsi.
Sì, siamo come foglie nella pioggia,
seppure ripetiamo un’altra anima
nell’indifeso sentimento eterno.
sez. A, accetto il regolamento
IL RITORNO
È una mia abitudine, forse dovrei dire un mio vezzo. Mi piace, in certe date, uscire un poco di città e raggiungere questo parco. Sì, vezzo rende meglio l’idea, perché il mio venir qui è legato alla mia famiglia, non ad abitudini salutistiche, o al ricordo di un fatto personale. Nell’area di questo parco, creato meno di un secolo fa, alcuni miei avi vissero l’ultima tappa della loro vita.
In cima alla bassa collina ci sono i ruderi di un castello: qualche spuntone della sua cinta muraria, le basi di alcune torri. Non è molto, anche se per i turisti bastano. Fu distrutto nel 1143 e mai più ricostruito; un mio avo, il primo che porti il nome della mia famiglia a memoria d’uomo, vi morì piuttosto che arrendersi all’assediante.
Di quella schiatta a me non rimane nulla: non la ricchezza che pure ci sarà stata, non il titolo nobiliare; solo il cognome. Ma non ha importanza, non me ne curo; trovo anzi la cosa divertente, come simbolo delle caducità del mondo.
Comunque tre secoli dopo un altro discendente, una giovane donna in questo caso, venne a morire qui: durante un’epidemia di peste, attorno alla cima del colle furono consegnati in un improvvisato lazzaretto i contagiati. Non sorprende che pochi ne sopravvissero, Isabella non fu tra di loro.
Veniamo a due secoli fa; le date si fanno più precise, parliamo del 18 Settembre 1889: un ragazzino di dodici anni, fratello minore del mio bisnonno paterno, cadde rovinosamente nel tentativo di arrivare ai ruderi del castello, in una sfida tra ragazzini. Si chiamava Alcide, per quello che può importare.
L’ultima data è per me il ricordo peggiore e non è che mi faccia piacere ricordarlo, anche se non posso farne a meno: 20 Gennaio 1945. Mio zio paterno, Gaspare, fu uno dei tirapiedi del locale Podestà e aveva la coscienza parecchio sporca. Il parco era stato creato da poco e i Partigiani si servirono di un platano già abbastanza robusto, per appenderlo e chiudergli il conto. Brutta storia; in famiglia se ne parlava pochissimo, una specie di comprensibile “damnatio memoriæ”; e confesso che son felice di non averlo conosciuto.
Così vengo in questo luogo non in occasione dell’anniversario della sua morte, ma di quella degli altri miei più o meno lontani parenti. Il 18 Settembre, il 1° Luglio (per Isabella non c’è una data certa, si sa solo che i superstiti dell’epidemia furono fatti rientrare in città alla fine di quel mese) e il 24 Aprile: è quella la data che le cronache riportano come fine dell’assedio, anche se non c’è certezza.
Cosa faccio? Niente di che: mi siedo su una panchina e guardo verso i ruderi; a seconda dei casi mi immagino i combattimenti legati all’assedio, la sofferenza e la vita miserabile (se vita si poteva chiamare quella di appestati, che avevano la quasi certezza d’esser condannati), il gioco di un pugno di ragazzini che si trasforma in tragedia.
Alla fine di queste mie meditazioni, colgo un fiore e mi concentro sul suo profumo per un certo tempo; o me lo immagino, perché a metà Settembre ci si deve accontentare di quello che è rimasto e che non sempre profuma… È il mio suggello al ricongiungermi idealmente con la mia famiglia, della quale sono l’ultimo rimasto. E giuro che in quel momento non mi sento solo, come se un’ombra antica – quella dell’avo a cui ho dedicato questo modesto pellegrinaggio – fosse qui accanto a me.
(Lo vedo dall’alto, puntuale nel suo giungere qui ogni anno. Non ho orologio da regolare sul suo arrivo, ma mi basta il pensiero di venire, perché so riconoscere il momento.
È bella questa sua abitudine, io almeno la trovo bella: un modo per far sentire ancora nel mondo quelli che se ne sono andati; sento che l’anima di chi non è più, a vedere un suo parente comportarsi così, dovrebbe essere in grado di sentirsi la vita carnale ancora addosso. E qui la pensiamo tutti così.
Si siede su una panchina, non necessariamente sempre la stessa e inizia a guardare verso l’alto; conosco bene gli avvenimenti storici che si sono susseguiti in questo luogo e so che, quando guarda in quella direzione, guarda verso il luogo nel quale sorse ciò che oggi si chiamerebbe un lazzaretto, per gli infelici colpiti da una pestilenza a metà del XV secolo. Una storia da far venire i brividi: quasi duecento persone lasciate a se stesse lassù, nel fetore del caldo estivo che faceva già marcire le piaghe dei vivi, a nutrirsi con quello che trovavano, o con quello che alcune persone pietose – per lo più i frati di un vicino convento – lanciavano loro; ma da lontano, come fossero cani e solo con un “amen” di pietà. Solo una manciata sopravvisse, per tornare in città guardati con ripugnanza, evitati per molto tempo.
Capite quanto mi fa piacere vederlo venire qui, percepire che lo fa per non scordare di ricordare la sua famiglia.
Allora scendo verso di lui, badando a non farmi vedere. Penso che se gli apparissi davanti all’improvviso, si romperebbe la magia di quella sua meditazione. Gli sto dietro, a qualche metro di distanza; comprendo dai suoi movimenti che rabbrividisce un po’ e so già che sta per cogliere un fiore: lo fa sempre.
E io lo ringrazio per questo, lo desidero tanto quel gesto, forse perché sono una donna. Ed è il momento nel quale posso davvero stargli accanto, per quel che posso: il profumo di quel fiore mi raggiunge, grazie al suo desiderio di dedicarmelo. Come sono importanti i profumi, per noi anime, quale dono prezioso è la loro offerta. Sono luce e pensiero e mi basta un nulla per essergli accanto: so che mi sente presente, anche se i suoi limiti gli fanno pensare a noi, a me, come ombre.
Rabbrividisce ancora e il suo pensiero, mentre lascia cadere il fiore, è doloroso; ma saprà, in un tempo che a noi non interessa misurare, che dopo qualsiasi vita terrena c’è sempre e solo gioia.)
Alberto Rizzi – per la Sez. B.
Accetto il regolamento.
Siediti accanto a me e ascolta.
Ti parlerò della Vita.
La Vita è un mistero, è un miracolo.
Per quanto ci sforziamo di capirla, indirizzarla, soggiogarla al nostro volere, essa ci sfugge.
Per questo non possiamo che accettarla così com’è, fare in modo che ogni istante resti indimenticabile. Non serve tanto per essere felici, se sappiamo apprezzare ciò che ci offre e sopportare ciò che ci impone.
E in questo ci aiuta l’Amore.
Non può esserci Vita senza Amore.
La Vita stessa nasce da un gesto d’Amore!
Se impariamo a lasciarci guidare dall’Amore, tutto ci sembrerà più facile.
E riconosceremo la gioia di vivere nelle piccole cose di oggi, senza rimpiangere il passato o illuderci con false speranze per il futuro.
Il sorriso di un bimbo.
Il profumo del pane appena sfornato.
Un cielo pieno di stelle.
Un bacio.
Una poesia.
Una goccia di rugiada.
Un fiore che sboccia.
I colori del tramonto.
Un libro.
Una lacrima.
Un sogno.
Continua tu…
© Daniela Giorgini – Sezione A – Accetto il regolamento
Non ho capito a chi ti rivolgi: chi si deve sedere accanto a te?
Nel mio petto piove amore
Vorrei passeggiare con te, andare
per verdi viali chiomati di sole
e biancheggianti da chiarore albale
fino allo splendore del mattino
con cielo striato di nuvole rosa
nel fulgido bagliore di luce radiosa.
Il tuo sguardo m’abbaglia d’improvviso
oltre il limite di inebriato respiro
con sussulto di cuore e tumulto di sangue.
Afferro l’inesprimibile nitida distanza
dell’orizzonte che si staglia sul mare:
ancor prima d’amare io sono da te già amato.
Con te accanto il mio tormento appago
e nel mio petto piove amore che avanza
più dolce di quell’amor che ci rinfranca.
sez. a accetto il regolamento
ANCHE NASCOSTO TEMEVO
Mi nascosi sempre
dal mondo esterno
che m’odiava sempre
e solo rimasi tanto
come cucciolo pauroso,
ma non bastava tanto
perché anche in casa
ero perseguitato sempre
e non mi rispettavano in casa.
Poi la morsa s’allentò
e potei uscire dal guscio
che il mastino si calmò,
ma anche oggi nonostante
riesco male a contentarmi
e il male del mondo è alienante.
Sezione A, accetto il regolamento.
L’USIGNOLO
In primavera un usignolo cantava benissimo e felice su di un albero vicino alla casa di un Maestro di canto che stava provando una famosa canzone da cantare alla Messa di anniversario della morte della sua mamma. Il Maestro, estasiato da quel bellissimo canto, si avvicinò alla finestra e chiese all’ usignolo: Ma come fai a cantare così divinamente senza aver studiato musica? Io ho fatto il conservatorio ma non riesco a cantare così bene come te.
L’ usignolo gli rispose: Il mio è un dono di natura, non è merito mio, ma del buon Dio. Prova anche tu a cantare qualcosa di tuo che ti viene dal cuore senza troppo studiare gli altri autori. Se anche non ti verrà molto bene almeno sarà il canto del tuo cuore.
Sezione B, accetto il regoolamento.
Natale nell’attimo di Lauricella Giuseppina
Dove sei, mio Natale?
Ti cerco fra gente frettolosa
che corre, smarrita, nei vicoli
della nostalgia di una tua labile
attenzione che è profano desio.
Rinasco in te come fossi grembo
e mi faccio ancora nuda vita
che inala il tuo respiro tiepido
mentre fronzoli di luce parlano
di te, vagante nell’ombra di risi.
Sei in ogni attimo che lacrima
di commozione scintillante
che tende la mano al perduto
e lo conduce al flusso vitale,
così ogni vita si fa più vita,
partorendo il tuo amor: immacolato.
Giungi a noi, colma il vuoto ardente
di mani protese alla gentile carezza
che sfiora l’incessante bisogno esule
d’umanita’ celata da misero orgoglio
che s’arrende al tuo tocco nitido
come sguardo rivolto all’amato.
Sezione A – ACCETTO IL REGOLAMENTO
LA CAMPANELLA
“Ripeti”.
Andrea non poteva ripetere quello che non aveva ancora detto.
“Ho detto ripeti” disse, senza che si smuovesse un solo capello del suo chignon.
“Allora ripeto io: quanto fa 5 diviso 2?”
Andrea aveva una voce flebile come la luce di una candela. Lui cantava nel coro della scuola e non faceva come tanti compagni che aprivano la bocca fingendo di cantare. Ma in quei momenti, con una manina che stringe forte il gesso e l’altra che strofina il grembiulino, con i ditini che andavano su e giù, la voce ad Andrea non veniva fuori, anche se avesse avuto qualcosa da dire, solo un alito di vento muto.
“Per l’ultima volta, quanto fa 5 diviso 2”, e stavolta sembrò che la voce della maestra avesse assunto una variazione impercettibile verso su.
“Il 2 nel 5 ci va una volta con il resto di…” furono le parole dette e che non sarebbero state seguite da nulla, se non da un insopportabile silenzio il cui peso dipendeva solo da lei, che decideva, a suo giudizio, quando interrompere.
Non provavano paura, perché quella è una sensazione che nasce dall’ignoto, che ti spaventa perché non immagini cosa ti aspetta. Quello che gli allievi della IV B del 41° circolo sentivano era terrore: avrebbero ascoltato una volta ancora la stessa storia, avrebbero assistito alla stessa scena, avrebbero partecipato allo stesso finale, senza possibilità di cambiarlo.
“Togliti gli occhiali”.
Si sentì un rumore duro, seguito da uno più cupo, che rimbombò per l’aula. La lavagna, malgrado l’urto, restò ferma. Anche Andrea. La sua fronte era più rossa per il contrasto con la polvere di gesso accanto alle basette, che portava dietro le orecchie per accomodare meglio gli occhiali, che dall’ultimo banco non si vedono i numeri, che forse sono difficili perché questi occhiali si muovono, mi fanno vedere male, e le divisioni non le riesco a fare…
“Ora mi dici quanto fa 5 diviso 2?”, chiese la maestra con calma, mai smarrita, ma ora più risoluta.
“Maestra, non si picchiano i bambini”.
Si sentì chiaro, dal primo banco di fronte alla cattedra, e arrivò come un’onda di fiume in piena. Il silenzio fu più acuto di quello che regnava prima. Le palpebre volevano rimanere aperte, per non oscurare la vista di quella scena agli occhi increduli di tutti. Non era mai accaduto, in tre anni, che qualcuno, in quell’aula, avesse parlato senza permesso e che si fosse alzato dalla sua sedia a farlo. La maestra non riuscì a dissimulare uno stupore enorme, inferiore solo al mio. Non potevo credere che a pronunciare quel divieto, senza alcuna esitazione, fossi stato io.
Si alzò anche Giulia. La sentii scendere dalla sedia troppo alta per toccare con i piedi per terra, anche lei senza chiedere permesso, anche lei con voce leggera e lucente come il trillo di una sveglia, che ti scuote da un sonno agitato e troppo breve.
“Non si picchiano i bambini”.
La maestra era terrorizzata da qualcosa di indistinto, ma di cui era convinta sarebbe stata il bersaglio. Infatti io non ero semplicemente Alessandro De Cicco, 9 anni a maggio, quello con il fiocco stirato la sera prima da mamma Teresa, ma solo dopo aver usato la sua matita rossa e quella blu, soprattutto quella blu, per le correzioni dei temi dei suoi allievi sfaticati, e le scarpe lucidate da papà Elio ogni domenica, prima della messa di mezzogiorno, con la cromatina, che tiene per tutta la settimana. Io ero soprattutto, e quasi esclusivamente, il nipotino della Sig.ra Adelaide Improta, già Direttrice didattica, ispettrice del Ministero, che tutti consideravano “terribile”. Quella che più di tutti la “ammirava”, come ripeteva immancabilmente in occasione dei colloqui con i miei genitori, era la maestra. Molto tempo dopo capii che, se sei abituata a terrorizzare, vuol dire che vivi nella certezza che i superiori possano terrorizzare te.
La sospensione del tempo fu interrotta dal suono della campanella che richiamò tutti alla ricreazione, riportandoci in una dimensione di realtà sbiadita, i cui contorni rimasero per noi molto annebbiati, anche quando la maestra, avvicinandosi a me e a Giulia disse sorridendo: “Voi due impiegherete bene questi minuti dell’intervallo, e farete capire ad Andrea come si fanno le divisioni”. Era il suo modo per dare risalto al nostro intervento, concedendoci l’incarico di soccorrere l’amico in difficoltà. Ci considerava degni di una tale missione, almeno così ci sembrò di capire…
Ieri la maestra ha compiuto 100 anni. Siamo andati a trovarla io e Giulia; Andrea, dopo aver sentito al citofono: “Salite, cari i miei bambini”, è rimasto giù accanto al cancello di ingresso. Ha fatto bene.
Anche noi abbiamo fatto bene a salire. Abbiamo trascorso del tempo con lei, che ormai ci sente poco, ci vede meno e non cammina più. Bisogna prendersi cura delle persone fragili, vanno accudite, vanno sostenute. Lo sapevamo, fin dalla IV elementare. Oggi lo abbiamo anche capito. Non è una colpa essere un adulto inadeguato al mondo dei bambini, lo diventa se non capisci che l’umiliazione che impartisci ad un bambino lo può rendere inadeguato al mondo che incontrerà.
Oggi la campanella ha suonato prima, o così mi è sembrato. È che quando sei preso dall’argomento quel suono vibrante ti costringe a rimanere sospeso a mezz’aria, con la sensazione che quell’emozione, proprio quella che provavi in quel momento, dopo non sarà più la stessa. Forse sarà anche più bella, ma non sarà quella.
Scorrendo il tema di Antonio Somma, trovo ciò che già sapevo avrei trovato. Non c’è stata una sola volta che, indipendentemente dalla traccia, immancabile, come gli struffoli a Natale, non ci piazza: “Da grande voglio fare l’eletricista”, con una “t” sola…
Lo guardo rassegnato. Gli urlo: “Tonì, ma è possibile mai che per trecento volte ti correggo “eletricista”, e tu lo riscrivi tale e quale, con una sola “t”?!”
Mi guarda. Risponde con un sorriso al mio, mentre divide il suo panino con Salvatore e Lello. Lo so che da grande sarà veramente un bravo eletricista, anche con una “t” sola.
sez. b, accetto il regolamento
Fallito
FALLITO
Raggranello lento
frammenti di un’esistenza,
inconsistente.
Disidratato di coscienza,
mi abbandono,
effimero,
a lieti sentimenti
ardenti;
nella più asfittica mediocrità
di foriera
morte vivente.
accetto il regolamento, sez. a
Real crudel destino, perché proprio me hai scelto per questo gioco?
Che da fanciullo agghindato, tutto tulle e fronzoli ch’ero, m’hai ridotto ad un gracile fiorello in gennaio.
Un particolare ti è sfuggito, quel dolce bimbetto nulla fece per meritarsi tuo straziante gioco.
Ricordo bene ciò che fui costretto ad attraversare, torbide acquee e aridi uomini per qui esser vivo, ormai ridotto a quei pochi fronzoli che a dosso mi restano.
Mio caro crudel destino, mi riserverai almeno questa gioia?
Sezione A. Accetto il regolamento
Eros rivoluzionario.
Verrò da te di notte
che sei tenebre d’inferno
passeggiando insonne e cieca
nei corridoi della tua mente
entrerò nella stanza segreta
io la stronza che ti fa indignare
la chiave l’ho sempre avuta
datami da te quel giorno
per provare
ero sogno di lotta a primavera
quando ospite non gradita
dell’eros… guerrigliera
ebbi accesso ai pensieri
quelli che confessasti
odiandomi ferocemente ieri:
Legata ad un letto pronta
mi hai immaginata
ad aspettare immmobile
la tua scopata
schiava di desideri
proibiti ed appagati
con gemiti di piacere
appena sussurrati e soffocati
su bocche che si cercano
per assaggiare miele
si uniscono poi violente
mutando tutto in fiele.
Ora sto qui a cantare
di quando e quanto aspettai
dicendo che quel gesto
non l’avrei fatto mai
e di tutto il resto
che inutile ora m’appare
se vado oltre lo sguardo
ne colgo bene il male
Avrei potuto essere per te
profumo di salsedine
e desideri appagati
in riva a un nuovo mare
finalmente vissuti
liberi e liberati
la libertà di un uomo infatti
anche nell’eros è cultura
non è solo parola sconcia
ma gesto rivoluzionario
privo di paura.
Eros rivoluzionario.
Verrò da te di notte
che sei tenebre d’inferno
passeggiando insonne e cieca
nei corridoi della tua mente
entrerò nella stanza segreta
io la stronza che ti fa indignare
la chiave l’ho sempre avuta
datami da te quel giorno
per provare
ero sogno di lotta a primavera
quando ospite non gradita
dell’eros… guerrigliera
ebbi accesso ai pensieri
quelli che confessasti
odiandomi ferocemente ieri:
Legata ad un letto pronta
mi hai immaginata
ad aspettare immmobile
la tua scopata
schiava di desideri
proibiti ed appagati
con gemiti di piacere
appena sussurrati e soffocati
su bocche che si cercano
per assaggiare miele
si uniscono poi violente
mutando tutto in fiele.
Ora sto qui a cantare
di quando e quanto aspettai
dicendo che quel gesto
non l’avrei fatto mai
e di tutto il resto
che inutile ora m’appare
se vado oltre lo sguardo
ne colgo bene il male
Avrei potuto essere per te
profumo di salsedine
e desideri appagati
in riva a un nuovo mare
finalmente vissuti
liberi e liberati
la libertà di un uomo infatti
anche nell’eros è cultura
non è solo parola sconcia
ma gesto rivoluzionario
privo di paura.
accetto il regolamento, sez. A
Andrebbe musicata
Grazie mi farebbe molto piacere è già successo con un rapper e un noto cantante e pianista italiano
PALOMA CANTAVA, AY, AY, AY
Paloma, ay, ay, ay, sembrava di sentir cantare.
Ma era voce talmente lontana che a fatica
si distingueva, perdendosi nella neve.
In tonalità greve, pareva, di baritono ben allenato,
che provava però note molto più ardite
di quelle abitualmente concesse.
A gara stava con l’abbaiare angoscioso
del cane che mordeva la sua catena,
sangue digrignando dalla bocca ferita.
Così s’accompagnava il concerto perfetto
delle dodici campane, prima il gelo
ghiacciasse il batacchio, sfiancasse il cane
stremato e il cantante costringesse
a rincasare dalla fredda aula di musica.
Così pareva la vita stupita bastarsi,
tra miriadi di lumini e fiammelle stentate.
In questa vaga notte dei morti, che i vivi
temono e invocano per ritrovare
pigre manciate d’eternità in cui stare bene.
Sezione A, poesia. Accetto il regolamento del contest
LE PAROLE CHE NON DICO
Non so chi sono,
cosa voglio e
non so mentire.
Occhi verdi come la speranza
che mi manca.
Capelli rossi come il fuoco
che non brucia.
Il mio respiro è vento
che vuole urlare
ma non riesce a bisbigliare.
Accetto il regolamento
Sezione A
SEZ A accettò il regolamento
Sono fatta di foschia mattutina in un inverno nei campi lontani puoi entrarmi dentro ma non puoi afferrarmi altrimenti morirei di colpo e morirei di te sono fatta di desideri e di vallate improvvise oasi di paradisi d’incanto dove ti puoi dissetare bevendo il nulla in gocce di nebbia trafitta ho una pozza d’acqua cristallina in cui si specchia Narciso sono fatta di una brezza soave in cui gli angeli lavano le vesti leggere e pettinano le ali in candidi nodi di piume
sono fatta di code di pavone e vertebre d’incerte farfalle perché tu possa perderti negli occhi lucenti di un capriolo e sentire il cuore saltare nel petto
io sono la sabbia che sfugge fra le tue dita
la schiuma irridescente del mare
la clessidra dei giorni che volano
lo scheletro delle conchiglie sulla spiaggia che si cibano dei tuoi passi inattesi, la pioggia quando suonano i violini d’autunno inoltrato ma
vorrei trasformarmi in fisica quantica, in chimica di legami covalenti, in matematica più algebra distillata in un groviglio di numeri interi
per abbracciarti mio amato e stringerti
per dirti che sono leggera come le lacrime di una candela di asprezza celata, che peso il sacro minimale del tempo, che respiro senza respiro
e vivo in altro, in alto,in qualcosa che non so descrivere ma che muove lo spirito santo e ti veglia nel divenire di te
non mi ferire, non cercare di legarmi alle rose selvatiche che stanno selvagge nei muri dei cimiteri, non provare a definirmi in poche o mille parole, non mi legare ai chiodi di un tronco di legno, non mi sfiorare che’ aria sono
non nominare i colori dell’iride sacra, non farmi morire come i tramonti.
Sono fatta di tutto e di niente per concepirti come la più intensa delle mie preghiere, non posso avere forma né grammi, non cercare di prendermi né di legarmi , di darmi umana vestizione, vorrei essere altro ma così sono stata creata, per posare l’anima sul mondo con una levità gentile e darne briciola a ognuno uguale a una piccola formica fra l’inferno delle crepe di un marciapiede assolato.
SEZ B accetto regolamento
La Madonna lacrima pallottole di piombo
gli hanno amputato le gambe
urla perché non l’aveva ancora capito
la follia di una guerra non è gioco e per lui non lo era, non lo è mai stato
ma adesso la madre piange,la moglie piange, la figlia tredici anni piange e non sa nulla di suo padre, impossibile dirgli “fuggi via con tutti loro, vai all’estero, mettiti in salvo” non si può, lì ci sono le sue vigne, le sue campagne, nessuno può distruggere, nessuno può mutilare i tralci, non diventerà mai un disertore, li preservera’, le donne prenderanno treni, asserragliate come bestie da tortura, gli uomini difenderanno le loro strade fino ai confini con quattro munizioni e i carri armati contro l’oppressione
lui giace su un letto militare e rivede i suoi compagni che avanzano nel fango, un labirinto senza nome lui e un altro mangiano terra dura, terra amara, ce l’hanno in gola nei bronchi collassati di dinamite, ecco appare un soldato russo con le unghie avvinghiate alla canna del mitragliatore, era un giorno qualsiasi grigio di fuliggine nell’ aria pesa, un giorno qualunque di lavoro in un ufficio, così sarebbe dovuto essere ma non era. Il nemico è un giovane dal viso serio forse la prima volta che si trova a dover fare in fretta, a dover decidere in quei secondi se ritornare neonato o accettare il suo destino di militare maledetto, maledetta l’ operazione speciale, maledetto dover morire a vent’ anni. Il compagno coglie in un istante il fottutissimo attimo di esitazione e la testa gli salta in un mare di sangue rosso come i papaveri. Quel militare improvvisato dal destino, corre via gridando, magari era il primo soldato che uccideva e non lo avrebbe mai più scordato, l’uomo, il volto della morte venuta un giorno per caso con gli occhi chiari e spaventati. Lui trema inorridito, è rimasto solo, la sua anima pesa quasi ventuno grammi e davanti c’è un campo nero, un campo immenso di terra fetida di corpi macellati, arida e crepata. Quello è il suo oceano, quelle sono onde forza dieci da attraversare. Si lancia verso l’avanti chiamando il proprio nome come un eco che rimbomba in un deserto di atrocità, l’aria lo spinge indietro e lui la fa’ scorrere lungo le braccia aperte per correre più forte, tanto da sembrare un gabbiano che sfrutta le correnti sopra l’acqua. Ma l’acqua qui non c’è , qui cadono droni, bombe a grappolo, fucili sporchi di cervelli umani, respira, respira, rantola con i polmoni che gli scoppiano fino a quando lui d’improvviso salta, vola in aria, la pelle si scompone in mille pezzi, migliaia di tasselli della sua carne vanno ovunque. Lui ricade sulla mina, bocconi, riverso, vorrebbe fuggire, muoversi, chiamare sua moglie, sua madre, ma tutto si spegne e il giorno qualunque diventa eccezionale perché un angelo lo porta giù agli inferi, le mura sporche di organi, di vomito, di bile sputata. Sopra suonano le sirene dell’allarme, e il dolore adesso è agghiacciante, l’ ospedale sotterraneo è il fondo di tutta la sua vita. Sparisce la luce, lui è un moncone di busto, manca anche l’anestesia e le voci emettono strida disumane, arti mutilati giacciono ovunque, uomini con i bisturi in mano corrono tagliando anche le coscienze.
La Madonna si piega e appoggia un telo bianco sulle ferite, uno squarcio benedetto lo tinge dei colori della follia.
La santa donna che ti accarezza ha un paio d’ali celestiali e lacrimando piombo ti trasforma in simulacro di un povero Cristo offerto e poi
risorto.
Ora lui urla, non ha più le gambe,non se n’era ancora accorto allora noi
facciamolo venire qui
perché non è un’ eroe di patria,
ma solo un ragazzo di 37 anni, un feto dentro il grembo della terra tagliata, ferita,
figlio di Giuseppe e di Maria.
Dedicata ad Andrii
Francesca Santucci
La lunga notte
Ormai si era nella stagione dei Pesci. Da tempo la neve aveva abbandonato i campi per lasciare spazio alla fioritura delle primule, dei ciclamini selvatici e delle erbe novelle, e già s’intravedeva qualche sparuto stormo d’uccelli che s’avventurava in ritorno.
Ero calma, stranamente calma, mentre mi lasciavo sfiorare dalle leggere folate del vento notturno che s’insinuavano prepotenti attraverso le imposte socchiuse, distogliendomi dal mio incanto e riprecipitandomi nell’abisso dei pensieri (e dei ricordi).
Ripensavo all’oggi trascorso. Era stato il mio compleanno, ma mi chi mi aveva dato la vita per la prima volta non aveva festeggiato con me la mia nascita: mia madre mancava, ormai, da diversi mesi!
Ogni anno lei usava comprarmi delle rose ed accompagnarle con un biglietto, sempre con la stessa frase:
-“A te che sei la rosa più bella del mio giardino!”-
Ma io mi schernivo dicendo che era lei la rosa più bella, e lo era davvero!
Una volta avevo anche composto una poesia in tema, intitolandola proprio “La rosa più bella”: avevo visto i suoi occhi colore di smeraldo diventare lucenti di gioia e d’orgoglio, e m’ero commossa ed inorgoglita anch’io.
Qualche mese fa, d’impulso, un giorno in cui ero più triste che mai per la sua perdita, avevo acquistato una piantina di rosa, un piccolo arbusto semi rinsecchito.
Mi ero detta:
-“Se con la morte non tutto muore, se da qualche parte qualcosa sopravvive, se Lei da qualche parte in qualche altra forma sopravvive, riceverò un segno: questa pianta fiorirà!”-
Ed ogni giorno ne avevo spiato la crescita, non mancando mai di darle l’acqua e il giusto nutrimento, esponendola bene al sole e riparandola dalle intemperie, anche se le rose non sono fragili e sopravvivono persino ai geli dell’inverno.
Curare quella piantina era stato il mio primo pensiero del mattino e l’ultimo della sera; le avevo persino parlato, proprio come si fa con gli esseri umani (ma non sono, forse, anche i vegetali creature viventi?), blandendola amorevolmente, complimentandomi con lei quando le avevo scoperto i primi teneri boccioli.
Anche stamattina, al risveglio, dopo una notte agitata da incubi, a piedi scalzi, con i capelli in disordine, la vestaglia che mi fluttuava come un ectoplasma sulla camicia da notte, il primo pensiero era stato quello di correre dalla mia piantina di rose, e nel vento tiepido della primavera, baciata dal primo sole del mattino, l’avevo trovata lì, fiorita, ricoperta di splendidi cuori di velluto fiammeggiante, non uno, non due, ma tre e quattro e cinque e sei e sette e otto.
Piangendo di felicità come una bambina, vedendo come da quel piccolo arbusto era sbocciata una pianta così rigogliosa, avevo accarezzato molto delicatamente con le dita le sue rose, ad una ad una, petalo dopo petalo, sorridendo e piangendo, poi, d’impulso, le mie carezze erano divenute baci, prima teneri, poi golosi, avida avevo iniziato a succhiare un bocciolo, ed un altro, ed un altro, e ancora, e ancora, e poi i baci golosi erano divenuti morsi voraci e distruttori.
Infine ero arrivata anche alle spine, lasciandomi graffiare le labbra, e macchie rosse del mio sangue, fiammeggiante come quelle rose, mi avevano sporcato la lingua e il volto e il colletto della candida camicia da notte, e si erano confusi ai singhiozzi e al riso isterico, in un crescendo parossistico insieme di gioia e di dolore.
Poi la mia furia si era placata ed il giorno era trascorso.
Ed eccomi qui, ora, seduta accanto alla finestra, socchiusa contro il davanzale ove era stato consumato il misfatto (permanevano le tracce…petali dispersi accarezzati dal vento).
Avevo una lunga notte da trascorrere, una lunga, interminabile notte …
(sezione B Accetto il regolamento)
Bella! Soprattutto il finale, inquietante e imprevedibile.
Attese notturne …
Muti pesci sguazzano
Nell’acqua torbida
In attesa d’acqua limpida
Attese notturne …
Di curiosi spettatori
Di solitudini antiche
Di lune consumate dal tempo
Dove riposeranno
Le nostre ossa stanche
Di questo mondo caotico?
ACCETTO IL REGOLAMENTO
SEZ A
LA ROSA BLU
Sono le 07.00 e sto correndo, sulla parete l’ennesimo graffito, solo molto più evidente per il color rosso sangue… Mi avvicino incuriosito e vedo che è ancora fresco, con una leggera colata sulla parte finale della scritta. Fermo la mia corsa perché non capisco come sia possibile per lo spray gocciolare in quel modo.
Mi guardo intorno e all’improvviso capisco di essere all’interno di un incubo. In fondo, dietro a un cassonetto, vedo il corpo di una donna, quasi squartata, anzi no, non è una donna, è un transessuale. Il viso è trasfigurato dalle percosse, gli occhi sbarrati nel loro terrore. Prendo il telefono e chiamo la polizia, lascio il mio nome e aspetto. Dopo 10 minuti arrivano le forze dell’ordine e cominciano a farmi domande. Chi sei? Cosa ci facevi qui? Come si chiama la morta? La frequentavi?
I miei occhi cominciano a somigliare a quelli del trans, misti tra stupore e orrore. Spiego che ero li solo per fare una corsa e loro, dopo aver fatto i “dovuti” accertamenti sulle mie generalità, mi chiedono come mi sento (ma come vuoi che mi senta con una persona squartata sotto gli occhi?). Lascio che le lacrime abbiano il sopravvento e questo li aiuta a capire che forse sono scosso dall’odore della morte. Mi comunicano che dovrò firmare una dichiarazione e io mi rendo disponibile dopo aver consumato un paio di fazzoletti.
Irma, così si chiamava il trans, lavorava in quella zona da circa un paio d’anni. Non pagava nessun protettore, amava le cose appariscenti e gli strass, viveva dall’altra parte della città (evidentemente non voleva clienti in zona) e condivideva il proprio appartamento con altre 3 colleghe, tutte “regolarmente” irregolari.
Nei 10 minuti che erano serviti alla Polizia per arrivare ho avuto la percezione che dai suoi occhi tumefatti uscisse un messaggio: guardami e difendi la mia storia…
Irma aveva solo 25 anni, un passato di violenze e di percosse, una vita di sofferenze e di degrado che solo da poco aveva cominciato ad alleggerire la propria morsa. Sulla pelle un tatuaggio: una rosa blu.
Sul graffiti la vergogna della ragione: maiale brasiliano.
Maurizio Alberto Molinari
Sezione B – Accetto il regolamento
IL Cuore in attesa .
Sinuosa ti muovi tra le braccia della vita
pudica gemi spasmi tra i contorti rami …
hai il cuore in attesa , la sfera magica ,
hai la logorroica lingua dei possenti baci .
Sei fragile ,fanciulla , diversa dai colori consueti …
dai grotteschi misticismi l’unica in assoluto ,
con l’altro cuore vuoi metterti alla pari
giochi poi a guardia e ladri sul petto dei cuscini .
Sei cuore in attesa ,la mia musa …
la mia adorata , la mia rosa !
L’ultima stagione del mio riposo ;
il desiderio mio del magico paradiso .
Fammi tuo oh sposa !
Fammi cavaliere del tuo dardo rumoroso…
forse un giorno da te sarò esiliato;
sul mare dei dispersi tempeste e deliri.
Non mostrarti luce se su di me cali il buio
sulle siderali spiagge e torpori freddi ,
ove vogo con la mia chiglia ,la mia pesca rosa ;
per te , la mia barca la ormeggio a prua .
Giovanni Maffeo - Poetanarratore .
sez A, accetto il regolamento
IL TEMPO CONTEMPLA
Il tempo osserva
con silente contemplazione
il risveglio dell’aurora
sulle valli, sui monti sino al mare,
osserva i piccoli boccioli
farsi strada sui verdi rami
e lo spiccar dei frutti tra le foglie,
ascolta la pioggia
che scende fitta e il vento
che lenisce e lede la fatica umana,
ma ecco brillare i pampini nel filare
e le bacche a una a una
sospese come rosse perle
a grappolo sul ramo che le regge
finché l’uva non è matura
e festosa inizia la vendemmia,
vieni viandante e cogli
per primo il nettare dell’amore,
riposa le tue membra
sul mio giaciglio e scorda
gli affanni dell’ultim’ore,
riempi il boccale e placa la mia sete,
sfoglia le mie voglie senza paura,
c’è un Dio buono che sorride
e bisbiglia tra le mura
a chi mescola nel cibo il bene
e ne fa pasto quotidiano,
ti porterò al fiume e su immensi prati
a contemplare la terrena bellezza
mentre ti inebri di vino e di piacere,
e alla fonte dopo laveremo
i nostri deboli peccati,
la vigna sa di gioia e di sudore,
c’è un Dio buono che sorride
e bisbiglia al mondo
che è tempo di riposo,
di posare vizi e ogni insano ordito
su morbide lenzuola
che profumano di vita e di pulito.
Maria Carmela Dettori
Sez. A- Accetto il regolamento
LA FILA
In un Ufficio Postale, qualunque, di un luogo qualunque, ore 10:00 del mattino
-Scusi, signora, fa la fila per le raccomandate?- chiede il vecchio Tizio
-Si-
-Che numero ha lei?
-Il 30
-Farebbe scambio con me? le do il 10!
-Come il 10? ma è il prossimo! Mi prende in giro?
-No, voglio stare seduto a leggere, non ho fretta!
-Ah, capito, la vecchiaia, non ha nulla d’importante da fare!
-No, al contrario, ho molte cose importanti in sospeso, ma adesso devo leggere!
-Contento lei!- e si scambiano il numero.
Ore 11
-Scusi, signore, fa la fila per le raccomandate?
-Si
-Che numero ha?
-Il 50
-Farebbe cambio con me? Ho il 30
-E vuole darlo a me? Fra due numeri c’è lei! È anziano, non si stanca?
-Non importa, non ho fretta per il mio turno, devo leggere!
-Come vuole, contento lei!
E così, esattamente ogni 20 numeri, il vecchio Tizio chiede lo scambio del numero col suo. Poi si siede e osserva attentamente la gente, ogni movimento, ogni gesto, ogni espressione del viso, osserva quanto è lunga e dura l’attesa! Arrivato al decimo numero scambiato, chiude il quaderno, dà un ultimo sguardo alla fila e va via, per tornare l’indomani mattina alla stessa ora e fare esattamente la stessa cosa. Ormai quasi tutti lo conoscono, gli impiegati lo trattano come un amico, ma nessuno, nessuno, è mai riuscito a estorcergli la benché minima informazione sul suo strano comportamento e su quel quaderno di foggia vecchia. Non conoscono nemmeno il suo nome, per questo lo chiamano il vecchio Tizio, non ha mai spedito nulla, e quando esce sale sul pullman e scende a una fermata qualunque, sempre diversa.
Oggi il vecchio Tizio appare strano a tutti, più curvo e più triste, è il 45° giorno della sua presenza ed esegue per tutta la giornata lo stesso rituale, stancamente e con voce fioca. Alla chiusura, non si alza dalla sedia, sembra dormire col viso appoggiato alla mano.
-Signor Tizio -gli grida un impiegato da dietro lo sportello- stiamo chiudendo!
Ma Tizio non risponde e non si alza, allora l’impiegato si avvicina e gli poggia la mano sulla spalla:
-Nonno… stiamo chiudendo- gli dice piano con la falsa convinzione che sia vivo. Ma non lo è. E’ morto. Il quaderno aperto all’ultima pagina con la scritta:‘Non c’è più nessuno da scegliere. La fila è finita’. Incuriosito, l’impiegato prende il vecchio quaderno e inizia a leggere:
“Campo n.10, eravamo 120 nel grande cortile. “Loro” si annoiavano, e così un brutto giorno e ogni giorno, alle 10:00 precise ci mettevano tutti in fila spalle alle pareti, donne e uomini di ogni età, a caso, sempre a caso, per tenere viva l’angoscia di tutti sino all’ultimo momento. Ogni 20 ne prendevano uno e nessuno sapeva che fine facessero, dove li portassero, che torture subissero, che sorte destinassero alle donne e ai bambini Ogni giorno la stessa fila, la stessa attesa, dura, snervante, angosciosa, ma ogni giorno la fila diminuiva, c’era sempre meno tempo da aspettare. Dopo 45 giorni il conto non tornò più, rimanemmo in 19 e allora decisero di prenderne 10 tutti assieme, voltati faccia al muro, a caso, io capitai al 10° posto, ma l’ufficiale mi saltò, preferì la donna dopo me, non saprò mai perché. Tentai di dire “No, sono io il decimo”, ma venni spinto con forza contro il muro, “dummer italiener!” mi urlò, “stupido italiano!”.
Fummo lasciati lì, tutti maschi adulti, giovani ancora, non ci dissero di rientrare. Passò molto tempo, non so quanto, ci avvicinammo alla porta, ci affacciammo: nessuno in giro, silenzio allarmante, tutte le finestre chiuse, tutti i cancelli aperti.
La guerra era finita. Mi salvai con gli altri otto, ma io non dovevo salvarmi, non volevo salvarmi, 111 sventurati morti per il divertimento di quei bastardi, senza pietà per nessuno, nemmeno per i bambini”.
Dopo quel primo foglio, giorno dopo giorno, l’elenco dei prelevati dalla fila e, in fondo, l’elenco dei sopravvissuti, il primo il suo nome: Samuel. L’impiegato, scosso dai brividi, non riesce a trattenere le lacrime e quando delicatamente appoggia sul tavolo la testa del vecchio, sul braccio un numero: 102045.
L’attesa è finita.
Maria Carmela Dettori
Sez B- Accetto il regolamento
Nulla da commentare, parla da solo.
Grazie!!
Lusingata. Grazie a te!
Emozionante e tristissimo. Grazie
Grazie
La lastra di ghiaccio
Sun Sun Kwang dipingeva.
Dipingeva disegni bellissimi: bianchi, trasparenti, freddi svolazzi impressi sull’enorme candida tela.
Intriganti virgole scolpite sulla fragile, grandissima lastra. Le lamine scaldavano la liscia distesa ghiacciata imprimendovi le proprie orme. Il suo caldo e giovane cuore assecondava la sua fantasia e linee, curve sinuose e nuovi originali segni prendevano vita sulla superficie del lago generando forme simmetriche, equilibrate, perfette.
Sun Sun Kwang pattinava.
Nascosto tra le canne, in prossimità del grande stagno ghiacciato, Kim Ho Yang lo osservava.
-Quel ragazzo arriverà di sicuro alla rappresentativa olimpica – pensò Kim Ho.
Sun Sun Kwang, promessa del pattinaggio coreano, futuro campione di quella affascinante disciplina. Il freddo era pungente, in quel fine inverno asiatico. Sporadici fiocchi gentili si posavano delicati sui nudi rami di scheletri arborei.
Tutto era bianco, intorno a Kim Ho Yang: tutto gli parlava di un mondo freddo.
Sulla lavagna di acqua infreddolita impeccabili rette incontravano piccoli cerchi, oblique parabole sposavano in più punti bianche spirali infinite. Geometrici quadri astratti prendevano vita sulla lunga distesa. Kim Ho scrutava l’incredibile numero di ghirigori stampati sul piatto marmo.
Sun Sun Kwang si allenava.
Ogni giorno, alle prime luci dell’alba, immerso in un freddo glaciale, Sun Sun pattinava nello stagno adiacente la casa. Inseguiva il suo sogno. Una fiaccola olimpica riscaldava il suo animo. La sua calda fiamma ardeva dentro ai suoi occhi, isolandolo dal freddo totale che lo avvolgeva.
Sun Sun Kwang sorrideva.
Sorrideva felice strisciando sul ghiaccio. I suoi sogni, spinti dalla giovane età, non incontravano attrito. Procedevano veloci insieme a lui, verso una gloria futura. Kim Ho Yang lo guardava, lo osservava incantato. Kim Ho, il vecchio docente di arte, lo fissava incatenato. Il solido ghiaccio, al passaggio di Sun, cambiava di stato dipingendo binari d’acqua nei quali transitava il ragazzo. I solchi scavati registravano i desideri di Sun, ciò che voleva comunicare, il segno che voleva lasciare. Kim Ho Yang pensò ai solchi dei vecchi dischi di vinile. Ma quei segni non sarebbero stati indelebili, scritti nella debolezza, nella fragilità del ghiaccio. L’arte di Sun sarebbe stata immortale, ma la grezza materia, la sostanza su cui era impressa si sarebbe sciolta col caldo, distrutta dall’ardore di una soltanto tiepida primavera. La precarietà della fredda sostanza contrapposta all’eternità del vivido pensiero. Eppure proprio l’indifferente sostanza fermava le calde, vibranti idee. Solo il freddo incastonava in sé rendendo eterni i pensieri appena abbozzati sulla tavolozza bianca. Ma anche la crosta di ghiaccio avrebbe ceduto: quelle meravigliose simmetrie si sarebbero infrante. Rimpianse di non avere con sé la macchina fotografica, per registrare quelle idee che si rincorrevano sul lago ampliando il quadro, riempiendo lo stagno. L’esercizio libero che il giovane avrebbe presentato ai Giochi Olimpici, una manciata di annate più tardi, sarebbe stato memorabile, sì!
Sun Sun Kwang scivolava.
Scivolava via lieve; quasi volava. Il vecchio professore rimaneva nascosto, tra le canne. Temeva di interferire, se visto da Sun, con l’evento che si stava consumando, con l’opera che stava nascendo. Le linee prendevano forma, Sun Sun saltava e danzava, le sue piroette graffiavano il ghiaccio. Con i pattini scriveva. Sotto di lui nascevano nuove figure: incredibili alci azzoppate, orologi deformi e stregati, improbabili mostri marini, leoni e boscaglie incendiate. Di una bellezza suprema
Una bellezza sublime. Ma di una bellezza caduca. Il sole si alzava: la vita del ghiaccio si sarebbe prolungata ancora, forse, un’ora. Il sole, poi, alto nel cielo, avrebbe cambiato il suo stato, lo avrebbe movimentato. Non era possibile congelare, ibernare il dipinto. Quella meraviglia, costretta a perire. Non sarebbe rinata: Sun Sun Kwang improvvisava, non aveva mai eseguito due esibizioni uguali. Esercizi sempre originali, sempre diversi. Kim Ho Yang era un privilegiato: stava osservando qualcosa che nessuno avrebbe mai più visto. Un quadro destinato all’oblio.
Kim Ho pensò a Sun Sun come ad un pittore fra le pareti del suo studio, un laboratorio assediato dalle fiamme di un impietoso incendio deputato a bruciare le tele.
NESSUNA MEMORIA: un’opera d’arte che non sarebbe mai divenuta cultura.
MA UNA COSA BELLA NON E’ MENO BELLA, ANCHE SE NON DURA IN ETERNO.
Sun Sun Kwang si fermò.
Era stanco. Si slacciò i pattini, quei pennelli inusuali che con superba maestria aveva condotto sull’azzurro, ovale specchio. Guardò le sue tracce. Sorridendo, si avviò verso casa.
Kim Ho Yang guardò ancora una volta, l’ultima, il lago ghiacciato.
SEZIONE B accetto il regolamento
Che bella può essere la bellezza caduca!
Grazie per il racconto!!
LO SPORT OLTRE LA MALATTIA
Prologo
Il destino – o l’evento, come lo si voglia definire – con la delicatezza di un alito di vento o con la forza di un terremoto improvviso, può davvero cambiare radicalmente le aspettative di vita e i sogni maturati da giovani? Nel caso di Nnedi Okorafor e James Blake, i protagonisti del breve racconto, hanno dovuto subire il destino sotto forma di una malattia della colonna vertebrale, conosciuta come “scoliosi”.
Nnedi Okorafor, la scrittura come mezzo salvifico
La diagnosi di scoliosi cambiò completamente la vita di Nnedi. In meglio, forse, ma non senza sofferenze psico-fisiche enormi. Da promettente tennista (i suoi successi nei tornei statunitensi, gareggiando senza sudditanze psicologiche con giocatrici del calibro di Lindsay Davenport, Jennifer Capriati e Chandra Rubin, venivano riportati periodicamente dalla stampa americana), Nnedi (si pronuncia “nN-eh-dee”) si è scoperta, forzatamente, scrittrice. Una realtà bella e sorprendente, quella della caparbia Okorafor, nel panorama letterario fantasy mondiale: tanto bella e sorprendente da far passare in secondo piano la carriera di tennista professionista alla quale sembrava felicemente avviata.
Durante la scuola elementare, grazie alle sue lunghe, snelle e forti gambe, assestava pedate al deretano di quei ragazzi che la apostrofavano con “Negra!” Dall’età di 13 anni, la sua colonna stava modellandosi come una “S”. Non provava dolore e appariva completamente normale. Fu necessario, tuttavia, affrontare un intervento chirurgico. Dieci ore dopo l’operazione, si svegliò: mantidi religiose, di colore verde e rosa fluorescente, saltellavano in giro per la stanza! Un grosso corvo nero cercava di gettarsi dalla finestra. Era talmente imbottita di morfina, e in uno stato di tale di sofferenza fisica, da non accorgersi neppure che i genitori si trovavano lì con lei. Le ci volle un intero giorno per rendersi conto di essere, dalla vita in giù, paralizzata. Molto probabilmente, a detta del medico, il midollo spinale era stato danneggiato durante l’opera¬zione. Le prime due settimane furono un vero disastro. Quando non puoi camminare, devi dipendere dagli altri. Doveva essere aiutata ogni volta che voleva andare in bagno, lavarsi, e anche solo per girarsi su un fianco per stare più comoda. E più di una volta accadde che nessuna infermiera rispondesse alla sua chiamata. Da questa orribile esperienza, Nnedi ha scoperto di avere talento nello scrivere.
James Blake, il tennis prima di tutto
James Blake si avvicinava al tennis molto presto, verso i 5-6 anni. Il ragazzo afroamericano era un abituale frequentatore del centro di tennis ad Harlem. Lì, nel quartiere storico della zona nord di Manhattan, in quella che – negli anni Venti – fu soprannominata la “Parigi nera”, James si armava delle sue racchette e cominciava a colpire la pallina sui campetti in duro cemento, assieme ad alcuni “fortunati” coetanei: quel territorio, ieri più di oggi, era “soffocato” da droga e criminalità. Tutto sembrava andare per il meglio. All’età di 12-13 anni, invece, la carriera di James parve doversi concludere improvvisamente a causa di una scoliosi vera. Per 18 ore al giorno (e dai 13 ai 18 anni), James è costretto a portare un corsetto. L’alternativa al trattamento ortopedico sarebbe stata l’intervento chirurgico, con l’obbligato abbandono della pratica tennistica. Blake, durante quel lungo periodo di costrizione fisica e riduzione delle normali attività, continua a giocare a tennis nelle restanti 6 ore e a seguire un accurato programma di allenamento specifico. La paura della scoliosi rimase, nel tempo, molto forte: l’ex “little brat” (piccolo monello, così soleva definirsi) era consapevole che un eventuale, improvviso (seppure improbabile) aggravamento della curva scoliotica lo avrebbe costretto a sottoporsi a un assai delicato intervento chirurgico. Solamente numero 212 nel 2000, nel 2002 – 5 anni dopo l’a¬blazione definitiva del corsetto – Blake ha vinto il suo primo torneo professionistico, il “Legg Mason Tennis Classic” di Washington, e il 24 luglio 2006 raggiungeva la posizione n. 4 nella classifica mondiale ATP: la più alta mai raggiunta da un tennista afroamericano dai tempi di MaliVai Washington, finalista di un Wimbledon e tra i primi 20 giocatori al mondo nel 1996.
Conclusione e riflessione
Sono spesso gli alberi cresciuti un po’ storti, con il tronco solcato da profonde rughe nella corteccia come fossero ferite, che risultano più affascinanti e interessanti. L’ulivo, ad esempio, possiede una particolare bellezza nella sua abituale imperfezione, che gli dona raro fascino. Non accade la stessa cosa per le persone, sebbene alcune debbano la propria fortuna proprio a qualche difetto: il Dr. House (protagonista dell’omonima serie TV) sarebbe stato il medesimo senza zoppia? La scoliosi non è qualcosa che aggiunge fascino, sebbene in molti si chiedano come mai sono le donne ad esserne almeno sette volte più colpite degli uomini. Causa di una muscolatura differente e dell’ereditarietà genetica, si dice. Non c’è dubbio che le donne abbiano da sempre dovuto portare più pesi e sofferenze. Se poi, talvolta, s’incurvano come salici piangenti con la chioma sull’acqua, forse potrebbe esserci anche un motivo di “ereditarietà culturale”. Ogni problema diventa più grande e inaccessibile quando si tiene dentro, si tace e non se ne parla. Il primo step per “guarire” di scoliosi è, dunque, l’autostima. Chi la possiede, non deve permettersi di perderla, per colpa di un discorso estetico. Amarsi e piacersi comunque come persone, sapersi accettare, è il modo migliore per affrontare con lo spirito giusto la propria scoliosi (ognuno ha la sua!). Di scoliosi, prima di tutto, si deve guarire “dentro”, per poter migliorare anche “fuori”. Il secondo passo è parlarne liberamente e confrontarsi con chi condivide la medesima problematica. Chi tace è perché si vergogna (può essere comprensibile), ma, in fondo, “acconsente” ad assumere un atteggiamento passivo di sopportazione che certamente non aiuta la guarigione. Il terzo passo, fondamentale e concomitante coi primi due, è curarsi. Chi si lamenta, ma non si cura con le attenzioni, i supporti medici e fisioterapici e la tenacia richiesti, non può attendersi miracoli.
Il miracolo, spesso, scatta dentro di noi e allora diventa una grande magia.
Rodolfo Lisi
Sezione B, accetto il regolamento
Il giardino dello spirito (Sez. A – Accetto il regolamento)
La canzone dei tuoi occhi
mi perdo tra le dita;
mi perdo la tua bellezza in un abbrivio
di vento, d’amore,
ai miei ultimi tocchi di campana
si sciolgon le faville
del sorriso, si disciolgono come scintille
di luce allo scemar della voce.
Bianco occaso che mi sfondi il cuore,
oh, tu, cerea mania,
purissimo delirio che tesse
l’ordito della vita,
al quadrivio dell’essere.
Osservo le tue mani, il volto,
e spiccherei il mio cuore
per fartene dono;
spiccherei, in un canto lontano di mondo,
il fiore che largisce i tuoi fiati:
ormare il tempo
fino a sfiorare gli antipodi,
fino a scerpare i tuoi sinonimi lucenti
al cadere dei velami.
A Maura
La mia terra. (sezione “A”- Accetto il regolamento)
Si spegne la mia terra,
senza fragore e silente
di pianti, grida e guerra
si arrende lentamente.
Affoga nel suo pianto
il cielo la sua rabbia,
sputa odio e rancore
ma la mia terra muore.
Senza squallore o gloria,
senza lode ne infamia
passa tutto alla storia,
magari in poche ore
e la mia terra muore,
senza dire preghiere
inesorabilmente muore.
Sezione “B” accetto il regolamento.
Qualcosa di ironico: Quello che mancano oggi sono i “Supermercati”.
Passare un pomeriggio all’ipermercato è puro masochismo ma indispensabile, è uno sporco godimento a cui non puoi sottrarti anche se la folla che spintona ti disturba, fai fatica, ti stanchi, ti si scalda il cervello e dulcis in fundo quando arrivi ti rendi conto di aver anche dimenticato l’elenco della spesa.
Ricostruire il tutto è già di per se un’immane stanchezza, quasi come ritrovarti senza una moneta per il carrello ed essere obbligata ad attendere che una scocciatissima addetta ti converta il cartaceo in spiccioli.
Poi devi sistemare il nanetto bassotto nel trasportino, bene in alto perché lui deve dominare la situazione per vedere con attenzione dove ti dirigi e quando inizi a virare velocemente per evitare il reparto dedicato agli animali, ti guarda con sospetto.
Chissà come mai lui riesce sempre a sapere dove è, lo si vede subito dall’ agitazione che l’assale e se non sto attenta salta fuori dal carrello e si catapulta direttamente sugli scaffali.
Perchè sono i giocattolini che lo interessano, le palline, le cose colorate e rumorose…il cibo no, quello proprio non esiste per lui.
Per cui via di corsa schivando e deviando da quel reparto e dalla sua visuale ed allora tutto cambia.
Dal giocoso nanetto quale è normalmente, diventa un ringhioso cane da guardia, 7 kg…di grinta e chiunque si avvicini estasiato per fargli i complimenti si ritrova a dover ritirare la mano velocemente perché anche se non ha mai morsicato, il suo sguardo ed i suoi dentini aguzzi in bella mostra, non fanno presagire nulla di buono.
A quel punto sono obbligata a fare la spesa con la mano sulla sua bocca pronta ad intervenire e oddio, non sbrana ma i denti li ha pure lui.
Ed è un accidente di bassotto che piace a tutti ma ha un carattere infame, quello che è suo è suo…la casa, la macchina, il carrello ed io.
Si. Ho notato che diventa un cane insofferente e geloso quando siamo noi ed il carrello, forse pensa di dover stare all’erta o forse che ho necessità di un body guard.
Allora per intenderci a quel punto si prosegue così…un occhio ed una mano su di lui ed il resto a tutto ciò che è troppo per un occhio solo ed io sono già satura.
E’ faticoso e fuorviante, mi viene l’ansia ed il desiderio di uscire immediatamente, quindi ammucchio cibo nel carrello mentre lui si affloscia nel trasportino finalmente rilassato, nessun nemico in vista…le ultime cose dimenticate le butto alla rinfusa, altre resteranno negli scaffali…quelle che non ricordo.
Vado alla cassa e velocemente pago, quando una mano ed una voce deliziata si alza al mio fianco:-
-Bellissimo il suo bassotto, sembra il mio!
Meno male che la mia mano è sempre sul suo muso e lui si è reso conto che essendo la mia non poteva essere quella dell’estasiato estimatore…che accoglie comunque con un sorriso ringhioso mostrando i suoi dentini aguzzi.
Quattro parole doverose al gentile ammiratore:
-Mi scusa sa ma si è riscoperto cane da guardia ed è diventato potenzialmente mordace, mi scusi ancora.
Alla cassa di corsa con una spesa senza senso, seguendo un istinto animalesco e con la netta convinzione di aver dimenticato le cose essenziali con il nanetto infernale che si guarda beatamente attorno.
Lui ama i supermercati, io molto meno.
E scappo, come sempre, ma teneramente guardando il mio Rudy che vivendo con due anziani è diventato scorbutico ed anziano anzi tempo pure lui.
SEZIONE A – accetto il regolamento
Un pasto di stelle
Ho un’amica che si nutre di stelle
e trigonometria della mente,
scruta il passato remoto
per gustare la sempiterna alba
La sua anima è ferita all’interno,
furono i morsi di una fiera ancestrale,
il suo cuore cela lampi di luce
e visioni notturne di paludi nebbiose
Veste di linda tela grezza
si adorna con misteriose ghirlande,
rifugge sdegnata le ottuse credenze
e si libra per cantare antiche lacrime
Ai miei gemiti di sconforto torna nel lago,
giù nelle primeve acque.
Io la chiamo ed ella sorge fulgente
per carezzare la mia sofferenza.
Sezione B – accetto il regolamento
La voce sintetica
Big Max entrò in autostrada alle 14 e due minuti, abbondantemente nei tempi previsti perché l’appuntamento delle 15 richiedeva non più di mezz’ora.
Il pranzo era stato veloce, frugale e pessimo: un toast gommoso accompagnato da una bottiglietta d’acqua vagamente frizzante ma il suo stomaco non avrebbe accettato di più dopo la pessima mattinata che, ironicamente, era iniziata con una comoda sveglia alle nove ed una buona colazione già pronta.
Si era anche fatto prendere in giro dalla moglie per il soprannome un po’ infantile, poi l’improvvisa tempesta; in realtà capitavano sempre più spesso e sempre più intense, si era anche chiesto se non stesse sbagliando.
La donna guidava la segreteria di un concorso letterario e gli aveva ricordato l’appuntamento con uno scrittore da invitare come ospite alla premiazione, serviva un autore non troppo famoso (e costoso) ma nemmeno sconosciuto e lei aveva contattato un amico, autore di romanzi erotici.
Big Max lo conosceva dai racconti della moglie ed aveva un paio dei suoi libri ed era infastidito che quel cialtrone la incontrasse ancora.
“Che meraviglia, chissà come sei contenta di rivederlo” commentò.
“Lo so che non lo sopporti, è un po’ vanitoso ma è anche brillante e farà divertire il pubblico”.
“Lo devi vedere proprio la vigilia di Natale? Non ha una famiglia oppure si diverte a disturbare quelle degli altri?”
“Sarà assente fino al 5 gennaio e quattro giorni dopo c’è la premiazione, devo sapere adesso se accetterà”.
“Esistono molte alternative”.
“Ci vuole un incontro fisico e comunque non ci vorrà più di un’ora”.
“Eravamo già d’accordo per questa mattina”.
“Fino a ieri non eri sicuro”.
Vero, era andata così, ma la delusione di Big Max cresceva e si stava trasmutando in frustrazione.
“Non capisco cosa ci trovi in quel depravato pieno di soldi” replicò secco.
“Non è un depravato ed è una persona benestante molto originale, che ha guadagnato altri soldi vendendo i suoi libri” ribatté la sventurata.
Ormai i meccanismi impliciti si erano, tragicamente, avviati.
“Certo, non è sicuramente idiota come il sottoscritto, colpevole di sgobbare tutti i giorni” ruggì “forza, corri a divertirti con il tuo amico pervertito!”
La moglie impallidì e prese la borsetta dirigendosi velocemente verso la porta ma ormai Big Max non poteva più fermarsi: la raggiunse, l’afferrò per una spalla e la costrinse a voltarsi.
“Fammi vedere la tua chat con questo tizio” sibilò.
“Smettila!” gridò la donna.
Big Max le strappò la borsetta e prese il telefono sogghignando.
“Basta! Smettila!” gridò la moglie “Non azzardarti a guardare il mio telefono!”
“Come vuoi”.
L’uomo rimise a posto l’oggetto, lasciò cadere la borsa e la colpì con un ceffone così violento da scaraventarla sul divano.
“Sarai indimenticabile, tesoro” disse.
Prese la donna per i capelli e la trascinò in bagno, incurante delle sue urla poi aprì l’acqua della doccia e la tenne sotto lo scroscio, nonostante la disgraziata cercasse di divincolarsi.
“Adesso rifatti il trucco per il tuo depravato” bofonchiò Big Max ed andò a cambiarsi.
Quando uscì vide che la moglie era ancora seduta nella doccia sotto il getto d’acqua aperto; singhiozzava e le gambe affusolate rivestite dai collant spuntavano dalla gabbia di vetro.
L’uomo telefonò ad un cliente simulando gli auguri, in realtà sapeva già che l’altro lavorava fino alle cinque e concordò un appuntamento: a casa non aveva voglia di tornare e nemmeno di andare da solo a guardare le vetrine dei negozi.
Raggiunse l’ufficio deserto ed organizzò il planning dei giorni post festività così il resto della mattina fu uno stop and go continuo di rabbia e sconforto.
Quando entrò in autostrada, l’ebbrezza della velocità fu terapeutico e Big Max ebbe il dubbio di aver esagerato con la moglie, poi scrollò le spalle.
“Vediamo cosa dice stasera” disse a mezza voce mentre si fermava alla barriera dei pedaggi; le stazioni erano tutte automatizzate e gli autisti venivano guidati per pagare il pagamento dalla voce sintetica del totem, che scandiva i passaggi in sequenza:
inserire il biglietto
inserire la tessera od il denaro
arrivederci.
Big Max conosceva a memoria la voce femminile generata dal software e ci fantasticava spesso.
Toccava all’auto che lo precedeva.
Inserire il biglietto
inserire la tessera od il denaro
arrivederci.
L’uomo ascoltò, affascinato: una voce straordinariamente ammaliante, di una donna fantastica che c’è sempre quando sei in difficoltà, che non ti lascia in cucina a mangiare da solo perché hai lavorato fino a tardi, che sul divano ti accarezza i capelli; una donna giovane e bellissima con una chioma folta e nerissima, elegante anche nei momenti di relax e con lo sguardo dolce.
Era il suo turno ed affiancò il totem.
Inserire il biglietto.
“Subito piccola troia” la canzonò affettuosamente.
Inserire la tessera od il denaro. Guarda che non sono tua moglie.
L’uomo rimase paralizzato per qualche secondo ed infilò la tessera senza nemmeno rendersene conto, sospinto da un istinto pavloviano.
Arrivederci. Questa è l’autostrada per l’inferno, bastardo.
Big Max sussultò.
Un’allucinazione ipnagogica, avrebbe trascorso Natale in un reparto di psichiatria.
Ripartì meccanicamente e schiacciò l’acceleratore, pervaso dal panico.
“Sto impazzendo” gridò, le braccia e le mani scosse da un tremito inarrestabile e l’acceleratore premuto per quell’ultimo tratto di autostrada, poi intravide una sagoma che attraversare fulminea l’altra carreggiata e saltare il doppio guardrail.
Si trovò davanti un cane nero colossale, con gli occhi iniettati di sangue e fauci enormi, gocciolanti di bava; una belva gonfia di incontenibile furore.
Big Max frenò ma non poté evitare l’impatto e l’automobile sfondò il guardrail di destra, piombò nel prato e si catapultò più volte; i soccorsi arrivarono velocemente e gli slacciarono la cintura che aveva fratturato le costole, poi districarono il corpo dall’airbag.
“Quel cane orrendo…” mormorò Big Max sulla barella, poi l’ambulanza partì a sirene spiegate.
La polizia chiuse un intero tratto di autostrada ma non trovarono il corpo, né tracce biologiche e nemmeno un pelo od una goccia di sangue sull’asfalto, sul muso anteriore dell’auto e nel prato.
Al crepuscolo la moglie seppe del decesso.
Il dono (Sez. B – Accetto il regolamento)
6 gennaio
00:35
La luna dalla mia stanza sembrava diversa.
Udivo una musica di zampogne
in lontananza,
ma era troppo tardi anche per loro,
non poteva essere vero.
Eppure la musica si fece sempre più vicina,
esattamente mentre il nostro satellite
assumeva le fattezze di una vecchia.
Era il giorno dell’Epifania,
e proprio la Befana rappresentava il femminino,
così come la luna.
Mi stropicciai gli occhi e ricominciai a guardare.
La figura sospesa continuava a mutare,
fece la sua comparsa un naso arcuato, una scopa vecchia,
che l’anziana signora cavalcava.
Quando la metamorfosi fu completa,
la Befana splendeva di una livrea argento.
I suoi occhi si spostarono verso di me
come se non aspettassero altro.
“Vuoi sapere, figliolo, perché Babbo Natale è rosso
e io argento?”, non risposi,
“Che ragazzo maleducato! Te lo dico lo stesso,
perché lui ha un cuore grande
dal quale zampilla sangue.
Io dal canto mio sono argento
perché il mio godimento,
si fa più intenso quando i bambini sono stati cattivi
e allora come l’argento m’annero.
Come amo il carbone figliolo, come lo amo!
Chi dispensa doni come me,
raramente di questi tempi trova un bambino cattivo.
Ma quando accade
il mio diletto non ha più confini
il mio sguardo cambia,
il mio volto diviene tutto accipigliato
e io m’annero tutta,
e il carbone è la mia vendetta!
Quando torno nella mia terra incantata,
dopo aver mangiato una zuppa calda
le mie ancelle mi chiedono:
quanti bambini cattivi hai incontrato?
E ce n’era uno cattivo cattivo?
Con queste domande mi intrattengono
prima che io mi metta a riposare.
La grassa risata di Babbo Natale, se la sai ascoltare,
caro figliolo, allora saprai anche che il suo eco è il grido
di mille bambini dilaniati…
Ahahahahah, non guardarmi con quegli occhi
sto solo esagerando!”.
Gli zampognari suonavano forte, nel pieno della notte.
Tutto questo veniva da lontano,
da molto lontano, pensai.
Da terre incantate dove credere ai sogni e alle fiabe e al mito e alle leggende
è l’unico modo di vivere.
È la realtà stessa.
Claudia si agitava nel sonno, Claudia bella come il sole.
Scappò di casa quella notte
per unirsi a me.
I suoi enormi seni erano anch’essi
simbolo di abbondanza, generosità e donazione.
Claudia,
la ragazza più attraente della scuola,
l’unica che considerava il mio viso
degno di essere annoverato tra i più belli della classe.
Vidi l’estate rigogliosa sul suo corpo
e l’inverno su quello della vecchia.
E m’innamorai di entrambe.
M’innamorai del tempo che tracimava sui seni di Claudia,
e s’ascondeva tra le grinze della Befana.
“Oooh…
L’estate, era da troppo tempo che non vedevo l’estate” disse la vecchia
dopo aver veduto la giovane donna
che dormiva sul mio letto.
“Se la toccassi, smetterebbe di respirare.
È così delicata…” proseguì e aggiunse “Vi dirò,
tutto il carbone di questa notte è per voi.
Non si dica in giro che le mie calze
e tutti i miei dolciumi
siano solo per i bambini, anche gli adolescenti sono
nei miei pensieri e persino qualche adulto!
Ma voi due siete i ragazzi più cattivi
che ho incontrato stanotte.
Perché avete spezzato l’incanto
per generare il tempo”.
La diligenza frenò dolcemente.
La vecchia si fiondò verso la mia finestra aperta,
irruppe nella stanza
e infilzò la gola di Claudia
con il dito indice.
“Vedi? Non si è nemmeno mossa.
Lei non crede più in me, non crede negli inverni,
nel dolore, negli stenti,
nel gelo che graffia le ossa e uccide,
non crede nella morte…” e poi continuò
“Anche io non credo nella morte
ma perché sono saggia,
lei non vi crede perché il suo tempo è nato oggi,
il giorno in cui ha perso la verginità.
Il mio dono per Claudia
è il tempo che scorre e lentamente scolora il viso
e smagrisce i seni.
Ma se vissuto attentamente dona un futuro
che non sia la morte,
e una bellezza come la sua merita
un futuro che sia eterno.
Sono venuta in questa casa a donare il tempo.
Esso non è un regalo ma un dono.
Un regalo rimane identico
il dono cresce o decresce,
invecchia o ingiovanisce,
affama o nutre.
E tutto dipende da noi.
Sono venuta in questa casa a donare il tempo.
Per Claudia.
Oggi per lei ha cantato il cigno ed è risorta la fenice.
Oggi per lei è sbocciato il futuro.
Questa sarà la sua scommessa e per questo è qui.
Oggi si è spezzato l’incanto,
s’è spaccato il seme ed è germogliato il tempo.
E il tempo ha bisogno di qualità.
Non dimenticatelo”.
Dopodiché la vecchia scomparve dentro il corpo di Claudia.
Come un galleggiante che scende sott’acqua,
e sparisce alla vista.
Le due donne si fusero in quella che adesso
era un’anima sola.
La vecchia perse lentamente la sua consistenza materiale,
e la vidi svanire nel corpo di Claudia
come una dissolvenza.
Le sue ultime parole le disse
assumendo un volto mostruoso.
“Il mostro che vedi saprà generare nuova vita.
Se avrete il coraggio e la scaltrezza giusta
per amarlo”,
e una lacrima comparve sul suo viso.
“Dalle mie parti si dice che un bambino
piange subito quando nasce
per svuotare il serbatoio delle lacrime,
così che la vita possa scorrere felicemente.
Una sola lacrima resta nascosta
negli occhi del bimbo.
Ma il fanciullo non la piangerà.
A meno che la sua infanzia non venga distrutta.
Perché quella lacrima è destinata
a scendere quando il sole sarà sorto.
Quella goccia come la luna
sorveglierà la vita del bambino.
Essa è la chiave che serra
la porta dell’incanto,
in modo che nulla vi penetri se non il bambino stesso.
Prendetevi cura del mostro che avete generato.
Non abbiate paura di ferirvi.
Perché ci sia avvicina alle spine,
solo per toccare la rosa”.
Cattiva bevanda per amore
ti guardo e mi accechi
come le onde sul porto di Cozumel
l’Iris di Van Gogh
e la bocca del pesce siamese combattente
trovami una luna di piume
dove appendere
le mie poesie di quattro righe
Io credo alle zolle cadute
dove la geografia
tuona nella testa
Sezione A poesia accetto il regolamento
Finalmente un brano con una certa dignità poetica.
Alcuni degli ultimi racconti e delle ultime poesie sono davvero notevoli, secondo me.
Però adesso basta: altrimenti come faccio ad arrivare in finale??
ah ah ah ah ah ah ah :)
La vita può essere crudele; meglio essere preparati…
UNA ROSA NERA
Una rosa nera
è emblema sublime
del più fitto e intrigante mistero
che aleggia nell’aria
con arcano carisma
e irrompe nell’animo umano
con la stessa forza ribelle
di una timida innocenza inconscia
che come un’aquila
spicca il volo nel cielo
verso la meta più ambita ed affascinante
di una nobiltà d’animo
al sapore di libertà.
accetto il regolamento, sez. A
DESERTO ARABICO
Deserto arabico
Vorrei tornare con te, piccola volpe del deserto
A quelle dune dorate lambite da azzurro mare
Forgiate da Allah anni or sono
Per sfidare l’,ambizione degli uomini
Per mostrare loro il loro limite.
Li l’oro più che nell’,astro diurno l’ho visto nei tuoi occhi
Mentre ridevi volta verso l’orizzonte
I piedi bagnati dal mare di rena
E i tuoi capelli dal simun agitati.
Sarà limite per me e per te questa immensità
Se l’,amore limite non conosce?
Fammi sentire quel fuoco, quell’indomito fuoco
Che la tua voce sa accendere nel petto!
Torneremo si,io e te, a quelle dune
Ci torneremo anche se avremo tutti contro
Che in noi l’,amore accende sete di infinito.
Torneremo si a quelle dune
Dove il cammello immenso il mare di sabbia sfida
Dove il tempo non è mai passato
E il fennec il falco non teme.
accetto il regolamento, sez. A
STRALCI DI POLVERI DISPERSE (mare nostrum)
Superficie senza scopo
un pulviscolo scandito
da un’impronta quasi sorda
dentro un passo ormai distratto.
La seta del viaggio
abbraccia memorie
senza condizione.
Ogni mattina scioglie
un sorso di sale
ogni minuto apre
un coro di tipografiche redazioni.
Dolori, frastuoni, scansioni
vagoni, ruggine e barconi.
Dove scorre l’acqua del mare?
Nessun respiro
nessun sapore
nessun rumore,
nessuna voce.
Il silenzio
non governa la mente
dove dinamiche ardite
scompaiono senza direzione…
Tracce di un calendario sfilacciato
che Non ordina numeri
ma semplicemente ossessioni.
Sez. A – Accetto il regolamento
Maurizio Alberto Molinari
“Miraggio”
La riva del fiume brillava com’un quadro senza nome,
Tra minuscole gocce di rugiada poggiate sui denti di leone
E su’n riflesso rosso_e rancione stinto sul pelo dell’acqua
Ancor assopita nel tremore d’una notte non pronta all’alba.
La solita, forse più fredda, brezza appiccava ‘lle gote_un incendio
E un ragazzo e una ragazza, seduti, avvolti dal silenzio,
Nel sentore d’erba e_arancio, si godean la carezza
D’un respiro_umido e stanco che pe’ i campi si strozza.
Marie vestia come sempre quelle maniche lunghe_a lei care,
Con righe per longo bianche; l’abito ‘n preziose lane
Cadea sgraziato ‘ltre ventre ov’ì suo’ calzoni bacian le gambe
Incrociate sull’onnipresente smorfia di chi amava l’estate.
Pierre staccava per pigrizia, una maglia forse ‘n tempo nera
Bracciata d’una grigia camicia senza bottoni o cerniera
E sulle gambe un cotone da sera stropicciato tra le trame vinaccia
E rotolato ‘n qualche maniera mezzo dito sopra la caviglia.
I due fissavan l’onde, minute, concentriche, effimere
Delle bestiole che dalle fronde planavan sull’acque libere,
Colle frasi ‘ncor da decidere, papiri sfiniti di domande,
Tutto ‘ncora chiuso_a stridere nella testa spenta_e sognante.
Marie l’avvicinò la mano a la del ragazzo, or distratto,
Voltandosi elegante, piano, verso quell’occhi color asfalto.
Lui la sfiorò con lo sguardo, bozzando ‘n sorriso amaro
Accompagnato ‘n ritardo dal ciglio arcato di sarcasmo.
Pierre, nell’istante, si perse nei pallidi riflessi del fiume
Ove giurò che nel nulla apparse il veder di que’ giorni, fatto di luce:
La ragazza sedea come le muse a legger con far inerte
Qualche saggio d’amor e brame s’una panchina sotto le querce;
Fu lì ed allora che, fegato avanti, pierre le si compose, infine,
Calmando suo’ arti ardenti nei mantra d’le sere prime.
S’incrociavan le mattine, i meriggi e le notti, tra le genti
In biblioteca, ‘n classe, ‘n un cortile di conoscenti, ‘n feste di studenti.
Cambiar giro, passare lontano solo per tremolar nello sperato
Rubarsi ‘n cenno colla mano o quel mezzo ghigno cennato.
Pierre, quel viso delicato, non lo rimuovea dal pensare:
Que’ mondi, d’inchiostro bracciato, quell’occhi che sapean parlare.
Gl’era come se il resto, s’il tutto, aldilà d’una figura perfetta,
Paresse sfuocato e brutto, poi la tenaglia allo stomaco, stretta.
I soliti convenevoli, l’anno distrutto, scuola, sfide, altri cliché,
Questioni d’età ‘n spontaneo duetto sull’educazione, Sartre e Voltaire.
Si videro ‘n crespucolo sfacciato, lontano da rigori, a discorrer e bere,
Poggiati al contorno annoiato della monotonia del quartiere.
Marie si perdea ‘n quel pensare sì, ch’è grazioso, arguto, interessato,
Non certo fisico per lottare mentre lui stava_a busto stirato:
Quel palmo, forse, più alto, l’acconciatura da cuscino,
Un sospiro di barba ‘n volto e’l riflesso pallido del corpicino
Che stonavan col guardo fino d’ammirazione_intriso, null’altro;
Forse fu addirittura cattivo, pensò, giocar collui sì tanto.
Marie confondea colle cicale ‘l sorriso che li regalava,
Tentennando sullo strale che dal torace ad’el pendeva.
Che poi, che poi lo sapeva, Pierre che prenderla tale
Guerra sì_impari pareva, rassegnato ‘l suo sognare.
Sì attenta, svelta e delicata si ponea la fanciulla francese
Alla corte più che spudorata dei gastoni del paese
Eppur, sin vaghe pretese, l’assaporò a lui vicinata,
Una sera come mille sere; forse distrazione agognata?
Quell’effusioni a un repiro ove pronta ella scappava,
Le dialettiche, mezzo sospiro ov’anche la speranza giaceva.
Ma sul fiume, or, il reale tagliava com’un bisturi al cuor persino
Mentre, un pelo troppo brava, sciorinava ‘llor destino.
Schietta e diretta ‘n favella, Pierre le dedicava ‘l tormento
Co’ smorfie di labbra e spalla, col discorso che tenea didentro
Ché fu un niente di tanto, digressione che scavalla
Q’la stessa monotonia d’incanto, sol raffinata storiella,
Sol palcatura di desideri ch’adornava ‘l castello a metà
De’ meravigliosi pensieri ch’ora odiava più che mai.
E allora cosa non va? Ricominciar lo ieri,
Ricominciar ‘l viavai dell’esser solo stranieri?
Si rimisero le scarpe a’ piedi ‘ntorno all’erba soffocata
In due_effimeri crateri; una mattina ormai passata.
Pierre trovò allungata giro suo’ fianchi austeri
La mano della spasimata con addosso suo’_occhi neri;
Lo baciò ‘n punta di piedi sulla gota arrossata,
Sol uno di que’ baci seri, un bacio da sconosciuta.
Il ragazzo stette_impassibile sguainando una spada
Contro ‘l cor instabile, or torrente feroce di lava.
Testa ed occhi ‘n luoghi diversi, s’allontanarono ‘ncora
E Pierre, a pensier spenti decidea la prossima ora:
Smarrirsi nell’aurora dell’avvenimenti persi
O riveder, a scuola, que’ due mondi di-versi;
Dalla tasca, come svogliato, estrasse un foglio bianco
Troppe volte ripiegato, ironico, per lui sì franto;
Ricordò giust’in tempo la sostanza dello stampato
E ora ‘l cestino e ‘l disincanto quell’amor tenean bracciato.
***
Marco Delrio, sez. A – accetto il regolamento
Scaldami così bentornato sole
Un anno singolare
davvero complicato
tra discese e risalite
L’ oggi fa ben sperare
va vissuto d’ un fiato
cielo sereno e schiarite
Sei la mia dinamite
effetto dirompente nel mio cuore
sei primavera d’ inverno, fresca
come un prato di margherite
M’ ama non m’ ama di petali
ravvivano l’essenza della gioventù
purezza e sostanza
del mio amore per te
Giorgio Norberto Marchini
Sez. A, accetto il regolamento
Rumori.
Vivo a casa da solo.
Prima mi ha lasciato Alessio, mio figlio, per andare a vivere in un paese qui vicino con una ragazza inglese. Hanno aperto insieme un negozio di prodotti ecologici, benché entrambi non sappiano far crescere una patata. Io sto zitto e, quando Alessio comincia a lamentarsi dei problemi che ha per pagare i fornitori, gli allungo un assegno; lui non ringrazia mai, mi promette che potrò sempre mangiare i suoi prodotti, però soltanto una volta mi ha regalato un sacco di pomodori, che erano pieni di vermi orrendi ed enormi. Certo, prodotti naturali.
Poi mi ha lasciato Angela, mia moglie. Attraversava la strada sulle strisce e con il semaforo verde, quando un’auto sportiva, guidata da un ubriaco di trent’anni, l’ha fatta volare in aria. Venti giorni di coma e ha smesso di soffrire.
Da tre anni Angela non c’è più, mentre il suo assassino è libero di continuare a bere e guidare; gli hanno tolto la patente, ma lui va in giro lo stesso e la sera la trascorre a festeggiare nei locali notturni della movida. Un giorno probabilmente lo processeranno, ma in carcere non ci andrà mai.
Non m’importa, tanto la mia casa resterà vuota.
All’inizio il fantasma di Angela era sempre presente nel mio piccolo alloggio. Mi sembrava di vederla, evanescente materia lucida che scivolava lungo le pareti. Mi sembrava di sentirla, i passi nella stanza vicina, i bicchieri che tintinnavano in cucina, il cigolare di una porta, il suo respiro nel letto accanto a me.
Molte volte io le parlavo, a cuore aperto.
Mi manchi, Angela, non sai quanto. Mi dispiace per quella volta che ti sei fatta tagliare i capelli e io mi sono arrabbiato. Non volevo darti un dolore, ma ai tuoi capelli lunghi ero affezionato. Lo capisco che dopo eri più comoda ed eri bella lo stesso, ma io avevo paura che tu volessi cambiare per piacere a un altro. Lo so, avevo nel cuore una gelosia stupida, che mi prendeva ogni tanto, e la paura di perderti.
Non posso perdonarmi di non averti accompagnata per stanchezza e pigrizia quella sera in cui tu hai attraversato da sola al semaforo e quel bastardo ti ha investita in pieno, senza neppure accennare a un frenata. Andava a novanta all’ora in una via cittadina, dove c’era il limite dei cinquanta. C’era il passaggio pedonale e il semaforo era rosso e c’eri tu che attraversavi, forse distratta, con l’abito verde e bianco che ti avevo regalato a Natale.
Giorno dopo giorno, ho cominciato a non vederti più, a non sentirti più.
Cercandoti, vagavo per casa; aprivo i cassetti e gli armadi senza osare toccare le tue cose. Non c’eri più e non riuscivo a farmene una ragione.
Altri suoni.
Ascoltavo il cane della vicina che guaiva noioso, la coppia che abita al piano di sopra, con lei che cammina con i tacchetti e lui, un po’ sordo, che tiene la televisione accesa ad alto volume per l’intera giornata. Un ragazzino stava imparando a suonare il flauto e produceva note strazianti, cercando melodie irriconoscibili. Un corvo deve avere fatto il nido sul tetto e, soprattutto al mattino, gracchiava eccitato.
Rumori, rumori a cui, lentamente, mi sono abituato, fino a non sentirli più. Ed è stato peggio.
Il silenzio mi faceva paura e mi portava il gelo nel petto.
Per fortuna, all’improvviso, ho scoperto la compagnia di altri suoni, le voci della mia casa.
Il ticchettio dell’orologio in cucina che, anche se elettronico, scandisce i secondi.
Il sibilo del frigorifero che, ogni dieci minuti, si muta in un breve gemito.
Il borbottare dello sciacquone del bagno che, anche se non mi sembra ci siano perdite, non si arresta mai.
Il ronzio della ventola del computer, tenue e monotono.
Gli scricchiolii dei mobili del salotto, ereditati dai miei nonni; no, non ci sono tarli, è un assestarsi lento che risente del caldo, del freddo e dell’umidità dell’aria. Il legno crocchia come le ossa dei vecchi, come le mie ossa.
Ogni tanto, nella notte, mi sembra di sentire una voce che chiama il mio nome e, invece, è il gorgogliare delle mie viscere, che sempre più faticano nella digestione.
Adesso, quando mi sono svegliato, ho conosciuto un suono nuovo: i battiti del mio cuore.
Non li avevo mai avvertiti, ma ora, al mio orecchio sempre più sensibile ai suoni vicini, mi arrivano con chiarezza. Ogni tanto se ne perde uno, poi si ricomincia.
Toc, toc, toc.
Un suono spento, che sembra sempre più fioco.
Lo seguo senza apprensione, con interesse. Un colpo si è perso. Un altro.
Dolcemente, dolcemente, fino a quando non li sentirò più.
Sezione B, accetto il regolamento.
LA GINESTRA
Dal fuoco e dalla
cenere nasce
l’umile ginestra.
Tenace, col sole
caparbia, col vento
confonde gli elementi
e lascia le sue fronde
tra le zolle cinerine.
accetto il regolamento, sez. a
Persa mi son trovata …nella metà dimenticata di ogni mia speranza…ogni sogno che poteva essere una strada…ma mai potuta essere attraversata…un percorso vuoto come può esserlo solo un fallito ricordo…mi è chiaro che il mio spirito è stato dannato e riscritto da un altro…che svogliato mi ha solamente detto ,vai cammina e affronta la tua vita…io da bambina e spaesata iniziai a camminare….tutto mi travolse come fosse un vento forte che mi impediva ogni cammino…allora mi buttai atterra e accovacciata iniziai a disperarmi…dopo tempo e tempo…finite le lacrime ma rimasti solo i gridolini spietati che mi uscirono dai pensieri…ero sola nei miei problemi…senza più nemmeno le lascrime per sognare di annegarci…sola imparai a coltivare la mia erbaccia rimasta tra odio e rabbia ma mi riempii solo di speranza e di fede di trovarci ancora del bene lungo il mio viver senza riguardo…affinai il mio sguardo e amai esagerato….e adesso ancora spero e vivo l’amore che in me ho costruito e con fede marcio ancora nel desiderio di trovare la mia anima dimenticata ma che ama e non odia tutta la sua strada…
accetto il regolamento, sez. B
La casa della Baia
Era tutto pronto: bottiglie di vino e di birra in un angolo della cucina, dolci e dolcetti sul tavolo e la musica protagonista assoluta.
Sarebbe stata la festa più bella.
La mano chiudeva fuori un mare nervoso e un cielo cobalto.
La “casa della Baia” era lì, sospesa. Il silenzio violato.
Mi attraversava con gli occhi. Nella bocca svuotava il bicchiere e sorrideva. Poi, si voltava.
Scordatelo, Nicola.
Né la musica, né la birra mi faranno cambiare idea.
Ballavo. Ballavo e ridevo con Alex.
Lo sguardo di Nicola era fuggito, lontano, oltre la finestra.
Il vento.
Non era stato invitato e come la fata cattiva si vendicava. Trascinava vasi, sedie e li sbatteva fino a spezzarli. La sua voce spaventosa nella gola della notte.
Ma la musica non lo temeva: era una guerriera coraggiosa.
Bicchieri nelle le mani e ritmo nelle gambe, cioccolato tra i denti e sudore sulla pelle, sorrisi sulle facce e lacrime.
Quando me ne sono resa conto ero nella stanza da letto, Nicola mi tirava per un braccio.
“Cosa fai!”
“Zitta!!”
Il suo fiato puzzava. I suoi occhi come laghi gelati.
Il suo corpo contro il mio corpo.
Il vento colpiva gli alberi e graffiava la terra che urlava.
“Nooo…”
“Sta’ zitta!” il palmo forte sulla bocca.
La musica inghiottiva le voci.
Cadevo. Cadevo sul letto e piangevo.
Il pirata aveva raggiunto la nave; l’equipaggio si sarebbe arreso, ne era certo. Assaporava il momento quando, sfondata la porta della stiva, avrebbe preso il tesoro.
“No, ti prego”
Cercavo di respingerlo, ma lui mi stava addosso.
“… Ti prego…nooo…” supplicava il vecchio ulivo, ma il vento lo piegava fino a fargli male.
Prepotente lui entrava in me.
Urlavo.
Anche l’albero urlava, lo sentivo, era steso nel giardino.
Il pirata si allontanava col bottino lasciando dietro sé vuoto e disperazione.
Nicola portava via i miei sogni, la gioia, l’amore.
Ho odiato il mio corpo, pattumiera dove erano stati gettati istinti bestiali, la mia faccia, i miei capelli.
Ero un vestito macchiato.
Sono uscita in silenzio, come un ladro, e ho pregato il vento che mi portasse con sé.
Ma anche lui era sparito, lontano, oltre la montagna.
sez. b accetto il regolamento
Piume stanche
Stamani l’alba e’ un incendio
Brucia anche il mio cuore
ultimo pezzo di antiquariato
che nessuno vuole più
Da un ramo spoglio
di un ciliegio si beve l’incanto
di un dio piromane
e scalda ancora una volta
le sue piume stanche
Maria Paterlini
Sez. A
Accetto Regolamento
SEZ A Accetto il regolamento
Tenebre Topazio
Lo vidi andarsene oltre il sentiero
Si era portato dietro la speranza
Rimasi seduta a fissare il vuoto
mentre il mio cuore rifiutava di morire ancora
arrivò la tempesta.
Non possiamo più tornare indietro?
Stiamo fuggendo da questo cielo su di noi
smarrita lisciai le pagine di questo libro
e attenta chiusi la finestra alle tenebre topazio
Nel silenzio della notte bianchi mantelli attraversano l oscurità in meticoloso silenzio. La meta pare ignota , folgorati solo da una croce patente che squarcia il nero. Croce di color rosso per ricordare la linfa che ci anima , linfa versata per tutti dal cavaliere bianco che ci confida all orecchio di non arrenderci.
Mani appoggiate per chiedere l ultimo supplizio di servirtu’.
O poveri cavalieri di Cristo. , quanta fratellanza.. quanta gioia nel rivedervi nel rivederci. Vigilanti a guardia di antiche e sole vere regole.
Assaporare la purezza che trascende dall umano fino ad essere pronti per gustarla, … digerirla… entrare nell essenza.
O mia Cavalleria…. ritorno di anime antiche che sfidano il futuro.
Parsimoniosi e gelosi custodi , ma tanto generosi nella fede.
Cavalleria …. equilibrio essenziale per l umanità. Quanti tuoi figli sono passati chiedendoti un soffio leggadro di purezza.
Veri Cavalieri vera Cavalleria ….TEMPLARI.
sez. b, accetto il regolamento
“Una volta ancora ” gli dissi. Anzi credo proprio di averlo scongiurato. Di avere indietro quello che avevo perduto, la mia vita di allora, i silenzi che non erano silenzi.
La mia stanza piena di ricordi, i miei libri rimasti li’, i miei gatti che mi amavano.
Ho sognato di essere un altra, mi sono vista in un altra vita ma non ero io.
“Ti prego!” ma niente da fare.
La vita aveva deciso per me, ed ara ormai tardi.
– sez. B, accetto il regolamento
Sez a accetto il regolamento
Nasci nel mio cuore
( Notte di Natale)
Signore
sei la mia stella cometa
e Ti seguirò
fin dove vorrai .
Perché sei :
la Via per la beatitudine,
la Verità che rende liberi,
e la Vita che dedico a Te.
Mi raccolgo in silenzio
e Tu nasci nel mio cuore.
Vellise Pilotti
IL VICOLETTO
Per molti era soltanto un piccolo angolo “insignificante” e tuttavia, per me non lo era mai stato.
Tante volte mi trovai a passare da lì per ritornare a casa, e sebbene non fosse il percorso più breve, preferivo attraversare “ il vicoletto”, soprattutto la sera.
Appesa discesi gli scalini, bassi e stretti (scivolosi, quando pioveva), ritrovavo un antico lampioncino, acceso di giorno e di notte, che con la sua luce accecante rischiarava quasi tutta quella viuzza semi-nascosta (larga non più di un paio di metri e lunga non più di dieci), fatta da un selciato di sanpietrini parecchio insidiosi e scomodi, che a percorrerli ogni santo giorno, alla lunga si finiva per rimetterci i piedi e le scarpe.
Il lampioncino illuminava la strada, ma anche la sommità d’una porticina in legno, e quella porticina chiudeva una misteriosa casetta al pianterreno, ormai abbandonata, dove accanto v’era un florido sempreverde dai rami folti e rigogliosi, che per buona parte la nascondeva.
A fronte un’altra casetta ed un’altra porticina, e a non più di un metro, una finestrella chiusa, parecchio mal ridotta per incuria e innumerevoli intemperie; questa guardava esattamente ad est, da cui il sole sorgeva e da cui pertanto si ritrovava prestissimo la luce del nuovo giorno; e sarà stato così bello da togliere il fiato (chissà quante volte era accaduto) guardare da qui, un attimo prima dell’alba quel delicato rossore che riscalda il cielo, nella fierezza della sua potenza.
Sotto la finestrella c’era un grosso rampicante: io lo chiamavo il “burbero”, o il “fastidioso” (per quel mio solito vizio di antropomorfizzare le cose che osservavo), il quale s’era ben legato a quasi tutte le pietre, al legno, e al ferro limitrofi, e dunque almeno mezza parete di quella casetta si trovava legata a questa pianta, in un abbraccio duraturo e irreversibile.
Ora, l’aver detto “lampioncino”, “viuzza” , “casetta”, “porticina”, e “finestrella”, e parimenti altre, non è accaduto affatto per il futile gioco di vezzeggiare i nomi delle cose, ma perché da sempre, a passar da qui, ci ritrovavo in effetti una bellezza piccola e segreta, la pace minuscola d’una stazione umana, che riscoprivo – a far paragone – quando a dicembre me ne andavo per chiese e presepi di sagrestia, dov’era scaldato e confortato nostro Signore, nato o atteso.
E quella pace, la sentivo, e mi nutriva dentro, a piccole dosi, che fosse la sera, o l’alba.
Una pace, forse, che cercano tutti gli uomini, e gli animali, e le piante, e perché no, magari ( lo credo) le cose inanimate; tutte le esistenze, insomma, che fanno l’insieme e l’interezza dell’umanità che parla, che lotta, che esiste e resiste. Quella che ben spesso è vinta e sconfitta, ma poi si rialza, che si fa domande senza (quasi mai) risposte, che recita il vero nel giogo del vivere, che salta tra intermezzi di felicità e di affanni.
Era dunque – quanto meno per me – un angolo dell’umanità nostra, tutt’altro che insignificante.
Un vicoletto da cui, prima o poi – sapevo bene – vi passano tutti, vuoi per caso o volontà, e qui si soffermano un poco, e si ritrovano tutti a provar qualcosa, magari senza esser così bravi ad esprimerlo, ma a provarlo sì.
Non ero che un passante, ma in qualche modo, a passar da qui, sentivo il senso della Vita.
La Vita che esorta a restare in piedi, a non fermarsi, a mantener sacro il diritto di sperare, e non disperare.
La Vita, che proclama il dovere di attraversarla, così come una strada, sino alla fine.
(Antonio Blunda -Sezione B – Accetto il regolamento)
QUALE SPERANZA
Che speranza c’è
quando un uomo
desidera volare
ad ogni costo
fino al cielo,
per provare
una emozione?
Che speranza è,
di altro uomo,
che desidera
ad ogni costo,
un diverso suolo
per veder sorgere
un nuovo giorno?
La sua vera Speranza
sul mare viene riflessa,
e flebilmente ondeggia.
Resta lì appesa,
ma troppe volte
spesso s’invola
in fondo al mare.
Questo è il divario
del genere umano,
progredito, civilizzato,
– ma spesso anche –
con il suo volto
dal lato disumano.
Resta, la Speranza,
ancora in attesa.
(Sez. A – accetto il regolamento – Benedetto Patti)
Natività
E poi finisce tutto,
così dicono,
pasta friabile i passi
e melma dentro le piaghe
dei mattoni
brulicante i miasmi
del peccato originale.
Gli amori trasformati
in delitti,
i sacchi di spazzatura
pieni d’ossa
lasciano scie di sangue;
sempre avare le corrispondenze.
I saltimbanchi delle idee
tengono in piedi il teatro giocattolo;
nelle gastronomie maxischermi
rifocillano con cronache di crimini
-casa dolce casa –
giusto per sentirsi a temperatura
ambiente,
mentre le mosche ronzano
e grazie al cielo! obnubilano
dell’horror vacui l’angoscia tremenda.
Cristo ha smesso di guarire paralitici,
ha finito gli sputi persino sugli avari
e se ne sta in letargo da tempo, sottovuoto
sull’altare lindo come sottana di suora.
Il presepe è crollato
sotto uova marcite e scatole di dixan;
e tuttavia dicono che un bambino,
laggiù, s’è mosso,
tra le macerie, ha finalmente pianto.
sez. a accetto il regolamento
NATURALIA
(Alla natura)
Preludio universale,
divina esistenza.
-Tu-
Giara di speranza,
partoriente di vita,
pura materia
d’interminate stelle
di cui tu stessa
sei realizzata.
Nasci dalle radici,
ti ergi in alte pendici,
dalle quali nutri
con fare materno
la tua prole,
cullandola con dolci frangenti
dal gusto di maestrale.
La vedi crescere
e continuare la stirpe.
Giunto il momento,
ti accosti a loro
vecchia compagna
d’infanzia:
Li conduci alla terra
e li prepari
a nuova esistenza.
Sezione A -accetto il regolamento-
Autore: Roberto Collari
Sezione A – accetto il regolamento- Paola Cuneo
STELLA DI NATALE
Da una parte all’altra del mondo,
estirpata dalla tua terra,
pianta del Natale, a forma di stella,
ti accendi di luce,
quando arriva la prima neve,
ed il giorno è breve.
Corolla vermiglia,
che l’inverno dischiude,
minuscola fiamma
nel freddo crepuscolo,
che l’animo riscalda.
DESIDERI
Vorrei essere il vento
Che si Libera leggero fin sul mare
E spazia al di là dell’orizzonte, del tramonto, delle montagne…
Vorrei sapere cosa si prova a fluttuare
Senza il peso di questo corpo
Senza il dolore che lo avvilisce.
Vorrei essere il vento,
Che scompiglia i pensieri per poi ritornare
A sentire cosa si prova ad essere un sollievo.
E poi vorrei…
Danzare di notte,
sulla sabbia sotto alla luce della luna
Per avvolgere, liberare e proteggere
E ripartire
Per poi ritornare
In un dolce andirivieni
Di una me stessa
Un po’…
Migliore
Sez. A – Accetto il regolamento
SOLEIL
Sono ancora stoffa, lana da imbottitura e assi di acciaio. Mi immagino già di diventare un divano. É sempre stato il mio sogno. Pura fantasia. Vorrei essere bello, perfetto e comodo per dare sollievo alla stanchezza dopo una giornata di lavoro, a chi con fiducia cade tra le mie braccia. Bambini, adulti, animali saranno i miei nuovi amici. Sono contento, impaziente, molto curioso e molto attento alla mia formazione e trasformazione giorno dopo giorno.
Ecco i miei nuovi genitori: un papà e un nonno, maestri tappezzieri, intenti nel confrontarsi sul come dovrei diventare. Il nonno dà consigli, facendo apprezzamenti sullo svolgimento del lavoro, grazie alla sua esperienza pluridecennale. Sto crescendo… non sono più “pezzi”, ora possiedo un busto, uno schienale, delle gambe, dei piedi e due belle e robuste braccia. Ho un volto, quello l’ho scelto io. Dio come sono emozionato! Sono gli ultimi giorni “di gestazione” poi finalmente: “il parto”. È la mia nascita, che attendo con grande ansia ed eccitazione.
Papà e nonno non sono più soli: moglie e madre formano un quartetto. Discutono sul colore del mio abito. “Giallo becco d’oca” è stato deciso. Il giallo con questo nome, non lo avevo mai sentito. Sto zitto. Devo fidarmi.
Finalmente sono nato! Devo essere molto bello perché, durante il mio spostamento dal magazzino alla sala di esposizione, ho sentito parecchi: “Oh meraviglioso! Ecco finalmente un colore nuovo.”
Ora esagero: sto sognando di entrare in una casa con arredamento antico e di avere una proprietaria giovane e bella, possibilmente con occhi verdi, ma…mi dico: datti una regolata!
Quanto traffico in questo salone! La gente si sofferma, mi guarda e se ne va. Sono in una posizione ottimale, che mi permette una visione a 360°. É lei, ho pensato appena l’ho vista. E che buon profumo! Il suo passo deciso e sicuro la porta davanti a me. Mi sfiora con una carezza. Ho sentito un brivido attraversare tutta la lunghezza dello schienale. Mi è sembrata una promessa… ho toccato il cielo con un dito, ero sicuro di essere stato scelto, ma la vendita non è avvenuta. Con un tonfo sono piombato a terra deluso e triste. Mi sarebbe piaciuta così tanto questa occasione!
Ma… ma un giorno la porta si apre e rivedo la Marchesa Jolanda Tumiturbi, così l’ha chiamata il proprietario del negozio su suggerimento della sua impiegata che si sta sperticando in mielosi saluti e inchini.
“Voglio quello giallo, becco d’oca, è luminoso e mi piace moltissimo.” Afferma la Marchesa. “E lo chiamerò Soleil.”
Incredulo, mi guardo attorno… ma con l’abito giallo becco d’oca ci sono solo io e diventerò il sole della Marchesa!
“É il divano che preferisco perché, inserito tra i miei mobili antichi, dona vivacità.”
Accarezza lo schienale e, ammiccando, mi sorride dolcemente.
Vi prego, vi prego, se è un sogno non svegliatemi!
accetto il regolamento, sez. b
La corsa della vita
Quando il buio della notte
apre gli occhi alla luce del mattino
cancella all’istante tutti i nostri sogni
e scaraventa su di noi un nuovo oggi
che ci proietta verso il domani
dimenticando che un altro giorno è passato.
E come il tocco della bacchetta di una fata
d’incanto intorno tutto si colora
regalando ai nostri occhi la visione di un mondo
sparso qua e là tra case e giardini
uccelli che volano,bimbi che giocano
e che passano il tempo a diventare grandi.
E il giorno che comincia ci ritrova lì
come ieri a correre avanti
per cercare di arrivare per primi
dove tanti altri sono già passati.
E non ci guardiamo intorno,non ne abbiamo il tempo
e comunque non vogliamo vedere quei poveri vecchietti
al lato della strada che ci guardano
coi loro occhi stanchi ed il sorriso triste,
perché loro sanno dove stiamo correndo,
ci sono stati prima di noi.
Loro da tempo sanno quanto sia inutile affannarsi,
così abbassano lo sguardo
e bastano le loro lacrime a dirci
alla fine quale sarà il traguardo.
ma siccome non hai tempo pensi solo a te stesso
rubi emozioni al futuro per poterle vivere adesso
e non t’importa se le hai rubate a qualcuno tu non ti vergogni
credi ad illusioni che poi trasformi in sogni.
Così il vento si porta via l’eco di una canzone
e il sogno che si sveglia trova solo delusione,
e alla fine della corsa l’unico premio che avremo avuto
sarà quello di esser primi ma di aver perduto.
E hai perso l’occasione per prendere in braccio tuo figlio
vedere le sue smorfie, ridere per un suo sbadiglio,
chissà, forse un giorno capirai quant’era importante
ma quel giorno per te lui sarà troppo grande.
Adesso ti accorgi che da troppo non riesci a sorridere
troppo impegnato a lavorare per divertirti o sopravvivere.
Ti è rimasto solo il ricordo di lunghe notti spensierate
col braccio fuori dal finestrino dell’auto presa a rate
per poi perdersi la magia del sole del mattino
o il cinguettare allegro di un piccolo uccellino.
Così non ti accorgi di mani vecchie e stanche lì vicino
che tante volte in passato han sorretto il tuo cammino.
e non ricordi nessuno dei consigli di tuo padre
e non ricordi nemmeno le carezze e i baci di tua madre.
Ora ti disperi perché tuo figlio di casa se ne và
non ti ricordi che tu hai fatto lo stesso alla sua età.
Il tuo cervello macina pensieri e lo fa troppo veloce
vorresti raccontarli a qualcuno ma ti è andata via la voce,
così il tuo pugno chiuso si abbatte su quello specchio
a distruggere l’immagine di quell’uomo troppo vecchio
così vecchio senza mai esser diventato uomo
che non ha mai imparato a piangere e a chiedere perdono.
E vorresti fuggire da un mondo che corre troppo in fretta
ora sei stanco e all’angolo c’è un posto che ti aspetta
anche tu adesso hai gli occhi tristi e sai perché
quando ti guardi intorno tutti gli altri corrono più di te.
accetto il regolamento, sez. a
Un enigma vissuto
Che cos’ è la vita,
se non Trinità di Padre,
Figlio e Spirito Santo
che s’intrecciano in una mente confusa,
in balia di un sacrificio d’ Amore?
Che cos’ è la vita,
se non la consapevolezza
di non esistere abbastanza per qualcuno,
di essere troppo per altri,
di essere nullatenente di emozioni
o sentimenti o pure illusioni?
Cos’ è la vita,
se non un angolo del ring
in cui il pugile si riposa
dalle sue fatiche,
Mentre davanti agli occhi
passano le cose caduche
della sua triste esistenza.
Cos’ è la vita,
Se non la ricerca della propria essenza,
che si diverte come un bimbo
a giocare a nascondino.
Cos’ è la vita.
Un enigma che va vissuto.
sez. b, accetto il regolamento
Sogno di un emigrante
Paese mio dolce e spensierato,
ti ho lasciato ancora giovinetto,
con dolore e tristezza per cercar fortuna.
Or che son vecchio e senza più speranza
di ritornare tra quelle vecchie mura,
rinverdisci almen il mio cuore sanguinante
pieno di tribolazioni e di dolore.
Fammi sognare ancora un’altra volta
quando ancora bambino e coi calzoni corti
andavo in giro per vie e terre amiche
ad acchiappare i grilli e le cicale.
Sana le mie piaghe sanguinanti
che la lontananza non ha mai guarito.
Mi bruciano, mi bruciano tanto
e che nessuna medicina ha mai lenito.
Paese mio circondato di grano e di papaveri,
di granturco, di sulla, menta e citratella,
fai risvegliare in me antichi odori,
i profumi della mia dolce gioventù perduta.
Fammi pensare sempre a mamma mia,
a quella cara e dolce vecchierella.
Pregava ogni istante e piangeva lacrime cocenti
perché sapeva che non sarei mai più tornato.
Paese mio dolce ed odoroso,
fammi sentire il canto degli uccelli,
il cinguettio delle rondini,
il canto dei grilli, delle cicale, il volo dei passeri.
Fammi questo miracolo d’amore.
Fammi vedere il volo dei fringuelli,
dei merli e delle tortorelle.
E fammi pure sentire il rumore del ruscello
diverso dal rumore assordante
di questa mia nuova grande città.
Accetto il regolamento, sez. a
Il regalo più bello di Babbo Natale
Sono passati quasi due anni e ancora si combatte in Ucraina. Città bombardate e case rase al suolo. Scuole chiuse e intere famiglie rinchiuse nei rifugi sotterranei. Si combatte anche in Israele e nella Striscia di Gaza. Città completamente distrutte. Gente che scappa e avendo paura di morire si rifugia nei sotterranei e nei cunicoli. Le scuole sono chiuse perché non ci sono più bambini che le frequentano. Si sta avvicinando il Santo Natale e Babbo Natale, come ha sempre fatto, sta preparando le renne, la slitta e i regali da portare a tutti i bambini del mondo, anche ai bambini Ucraini e della Striscia di Gaza. Giorno e notte aiutato dagli angioletti a preparare pacchetti, pacchettini, a incartare giocattoli. La notte di Natale tutto era pronto e partì per un lungo viaggio. Per primo si fermò nella città di Kiev in Ucraina e qui incontrò un ragazzo povero che aveva perso il papà, soldato in guerra contro i Russi invasori. Anche lui come tutti i bambini del mondo quella notte aspettava Babbo Natale e quando se lo vide arrivare il suo cuore si riempì di gioia immensa. Babbo Natale non aveva dimenticato l’Ucraina, non aveva dimenticato i bambini poveri, i bambini che soffrivano il freddo, la fame, e le bombe che dal cielo portavano distruzione e morte. Gli consegnò un pacchetto contenente un giocattolo, caramelle, due noci, tre mandarini e una sciarpetta di lana. E poi cercò di entrare nelle case degli altri bambini. Incitò le sue renne e entrò a grande velocità in una città completamente deserta e al buio. Nessuna insegna luminosa, nessun mercatino di Natale, nessun albero addobbato in piazza, nelle vetrine delle finestre delle scuole niente addobbi, neppure un piccolo disegno, la pubblica illuminazione completamente spenta, dai comignoli delle case rimaste intatte non un filo di fumo. Fu preso dallo sconforto. A chi avrebbe potuto consegnare i regali se la città era completamente deserta? Dove erano i bambini? I bambini c’erano, solo che si erano nascosti con le loro mamme nei rifugi sotterranei per sfuggire ai bombardamenti nemici. Ma si erano dimenticati che quella notte santa sarebbe arrivato Babbo Natale con la slitta magica carica di doni? Non si erano affatto dimenticati di nulla. Lo aspettavano anche se al buio e nei sotterranei. Babbo Natale, spinto dalla curiosità, volle entrare in un sotterraneo. Bussò alla porta blindata e venne ad aprire una donna tutta vestita di nero che teneva in braccio un bambino e le chiese come mai la città era tutta deserta, tutta al buio, nessuna luminaria, neppure un albero spelacchiato in piazza. La donna gli disse che la città aveva subito pesanti bombardamenti e quindi la gente avendo tanta paura di morire aveva abbandonato le proprie case, quelle che ancora erano rimaste intatte e si era rifugiata nei cunicoli e nei rifugi più profondi e protetti. Anche per questo Babbo Natale aveva trovato le scuole chiuse e abbandonate. Anche il Sindaco aveva fatto spegnere tutte le luci per non far vedere al nemico la città illuminata. Per lo stesso motivo i negozianti avevano spento le insegne luminose. Babbo Natale si fece triste. Non aveva nessunissima intenzione di rinunciare a consegnare ai bambini tutti quei bei regali che con gli angioletti aveva preparato. Anche a loro, seppure in guerra, voleva dare un po’ di felicità. Dal grande sacco che portava sulle spalle tirò fuori un grandissimo telone di plastica di colore nero e lo distese sopra la città, così i droni nemici non potevano vedere nulla, tutto era nascosto. E se arrivavano e non vedendo nulla, dovevano tornare alle basi senza sganciare neppure una bomba. Salì sul campanile della Chiesa e incominciò a suonare le campane. La gente che era nei rifugi si svegliò come un incanto e incominciò ad uscire dai rifugi credendo che la guerra fosse finita e che nella martoriata Ucraina fosse finalmente tornata la pace. Babbo Natale in un baleno addobbò e illuminò la piazza e tutte le vie, piantò un grande albero di Natale. Accese un grande falò sul sagrato della chiesa. Le insegne cominciarono a risplendere come una volta. Gli zampognari a suonare: Tu scendi dalle stelle. Bing Crosby a cantare: White Christmas e John Lennon: So this is Christmas ( La guerra è finita ).Fiocchi di neve cominciarono a cadere dal cielo scuro. Chiamò a raccolta tutti i bambini e incominciò a distribuire tutti i doni che aveva nel grande sacco. Finalmente, dopo due anni di guerra, anche gli occhi di quei bambini Ucraini cominciarono a brillare. Tutto donò e per gli altri bambini del mondo? Loro potevano aspettare un altro anno. Avrebbero ricevuto i doni e i regali dalle loro mamme e dai loro papà. Ritornò stanco e affaticato nel suo paese, in Finlandia, però felice e contento. Anche le renne erano stanche e si rifugiarono nelle loro stalle aspettando che Babbo Natale portasse loro un po’ di biada, perché avevano fame.
Accetto il regolamento, sez. b
IL BACIO DELLA VAMPIRA
Il suo ghigno mi dominava.
Inesorabilmente
aprì la bocca,
scoprendo i denti canini
assetati del mio sangue.
Ho offerto la gola,
sottomesso e complice
d’ogni suo volere,
d’ogni suo desiderio.
Poche gocce del mio sangue
hanno siglato l’unione
e sono stato suo, per sempre.
Alberto Arecchi
Dichiaro di accettare il regolamento
Sezione A
AVEVAMO TRENT’ANNI
Eravamo figli del Sessantotto. Camminavamo sotto il sole, nel vento, tra i richiami dei venditori ambulanti. Le ragazze, avvolte in panni coloratissimi, sorridevano e ci offrivano splendidi panieri di frutta. Sul molo i gabbiani volteggiavano intorno alle imbarcazioni, appena approdate. Sbarcavano ceste di pesci scintillanti, ancora vivi, che si agitavano in mille riflessi.
Vivevamo la nostra età migliore, vedevamo per la prima volta l’Africa. Eravamo andati nel Terzo Mondo come operatori di pace. Ci sentivamo esseri un poco superiori, perché appartenevamo ad una società tecnologica avanzata: come i conquistadores, che arrivavano con cavalli e cannoni, o come i marziani dei film di fantascienza. Arrivavamo a portare la tecnologia. Non ci ritenevamo portatori d’una civiltà superiore (in quella fantasia non credevamo più), ma nutrivamo la speranza che la nostra opera potesse risolvere i problemi del sottosviluppo.
Eravamo proprio noi, in realtà, a sentire il bisogno di vivere un altro mondo, nell’avventura e nella libertà… Avevamo una gran voglia di conoscere mondi diversi, colorati, poveri di risorse ma incantevoli, ricchi di storia e di seduzioni antiche, ma ci inventavamo la fola che fossero gli altri ad aver bisogno di noi. Altri che in realtà non ci avevano mai chiamato, che dovevano mandare le figlie bambine a prendere l’acqua al fiume, o in qualche pozza putrida, perché a casa loro non avevano i rubinetti collegati con l’acquedotto… né il gas, né la corrente, e tanto meno la TV.
Sembrava che le stagioni non dovessero mai trascorrere. Era un eterno presente, non esisteva più il passato e non si sapeva nulla del futuro. Il domani ci appariva lontanissimo: era l’istante successivo o vent’anni dopo, sapevamo solo che non l’avevamo ancora vissuto. La Croce del Sud si levava ogni sera sopra l’orizzonte australe. La bianca città si animava di vita, nel tiepido flusso dei monsoni. La scoperta di sapori esotici. Serate trascorse sulle terrazze di edifici che proprio ieri ho rivisto, rasi al suolo, nelle foto satellitari. Quella città è diventata un immane campo di rovine, nel quale ogni giorno si scontrano bande armate di bambini. Non è un gioco, purtroppo, ma la dura realtà quotidiana, basata più sui proiettili che sul pane.
Quando eravamo laggiù, ci sentivamo i rappresentanti d’un mondo più avanzato, più efficiente, migliore, forse meno corrotto… ma quando tornavamo in vacanza ci accorgevamo con tristezza che il nostro mondo non era migliore di quell’altro. Ci sentivamo a casa nostra, quando scendevamo dall’aereo nella notte calda, coi grandi ventilatori che ruotavano, il controllo dei passaporti e poi via, verso una casa in riva all’oceano, in mezzo al deserto, sulla sponda d’un fiume popolato dagli ippopotami o nel patio d’una casa moresca, in un’oasi profumata di zagara e gelsomino.
La tua società, grande, aperta, internazionalista, aperta verso il mondo della solidarietà, ti appariva in realtà un piccolo paese, nel quale ogni piccola sfumatura di lingua o di sorriso era riconosciuta e schedata. Ormai la tua lingua era diversa, il tuo sorriso era diverso: guardavi le persone negli occhi e non le valutavi dallo splendore della punta delle loro scarpe. Sapevi districarti in circostanze difficili e dialogare in tre lingue diverse, con uomini del popolo e con ministri. Inspiegabilmente, però, proprio qui, nella tua patria, sembrava che non fossi mai esistito, neppure per i vecchi amici, o che fossi stato assente per secoli dalla tua città: un Ulisse dei giorni nostri. È stato così che, all’età di quarant’anni, ti sei ritrovato solo, senza ragioni concrete, in quella che un tempo era stata la “tua” realtà. Forse ora rimpiangi di non esserti fermato nel tuo paradiso. Forse quel mondo poteva essere vissuto solo allora, all’epoca dei trent’anni, non poteva durare né di più né di meno.
I ricordi dell’Africa si confondono con il mito: dove sono ormai le verdi colline, percorse come il deserto da migliaia e migliaia di fuoristrada… e dov’è finita quella signora, figlia di uno dei primi italiani sbarcati al tempo della guerra d’Africa, che ricordava la propria gioventù come “il tempo in cui i barambara volavano…”? Barambara, in lingua somala, è il nome del rosso scarafaggio africano, che appare di notte, in orde fameliche, per impossessarsi della casa buia, e poi scompare alle prime luci del giorno. I barambara, in Africa, si trovano dappertutto, anche sulla parete della doccia, a solleticarvi con le loro lunghe antenne. Si alzano in volo, però, solo nella stagione degli amori. Un volo goffo, che dura poco, come quello della più elegante farfalla, la fioritura del baobab o la felicità della stagione giovanile. Il deserto avanza e divora i campi coltivati. La pioggia ritorna, ma gli uomini non sono più là per coltivare. Hanno lasciato oasi e campi fertili, per andare a raccogliere le briciole degli aiuti internazionali, o per vendere paccottiglia nelle città dei bianchi. L’Africa attende sempre, vasto continente sconvolto dalle guerre e sommerso dai misteri, squassato da troppi appetiti. Bambini di dieci anni non ricevono più nel bosco sacro l’iniziazione all’età adulta, ma la ricevono sul campo di battaglia, con armi automatiche in pugno. Nessuno ha costruito i nuovi villaggi agricoli, a lungo pubblicizzati sugli articoli della stampa di regime.
Noi cooperanti, figli adottivi d’Africa, ci siamo svegliati da un sogno, iniziato molti anni fa, cullato forse dall’illusione d’un “nuovo modello di sviluppo”. Spesso mi capita di chiudere gli occhi per cercare la consolazione nei sogni o nei ricordi, e di vagare con le immagini della mente alla ricerca del Semendel, il mitico volatile bianco, blu e verde, descritto dai viaggiatori arabi, capace d’entrare nel fuoco senza bruciarsi le penne. Ora però so che non riuscirò mai a trovare il variopinto uccello. Anzi, non c’è più neppure un piccolo scarafaggio rosso, un barambara che si degni di volare per me, come ai vecchi tempi.
Alberto Arecchi
Accetto il regolamento
Sezione B
La casa di Dio, il mio rifugio
Perso,
nei vicoli di quel centro storico
ove tutti corrono quasi ad anticipare
quel tempo che scorre veloce.
Disperso,
nei pensieri bui della mia mente
non so più che fare
sconfortato in questo mare di malinconia
vago senza una meta
mi volto, trovo un portone aperto
entro in punta dei piedi
quasi a non disturbare,
tutti osservano il Crocifisso
c’è chi piange, chi farfuglia
chi in silenzio osserva il vuoto
chiedendo nella sua disperazione
un po’ d’aiuto.
Mi siedo, ho paura
troppo difficile spiegare in quale deserto
la mia mente si trova
quale scoramento il mio stato d’animo prova.
Tremo, faccio un accenno di preghiera
e già il mio cuore si scioglie
insieme a quel nodo alla gola
sintomo di lacrime pronte a sgorgare
e così trovo il mio rifugio
in quella Chiesa, Casa di Dio,
ove il rancore diventa perdono
l’odio diventa amore
e la tristezza diventa speranza.
Sezione A. Accetto il regolamento
Alessio Asuni
Più non dormiamo su inutili colline
Saremo sveglie e insonni ad aspettare
nei vuoti concavi creati dalla veglia,
un soffio amaro d’indicibili carezze
su soglie improvvisate nell’attesa.
E poi gli sguardi persi per le strade
percorse a passi fermi nei mattini
indaffarati, i giorni sempre uguali.
Noi non dormiamo su inutili colline.
Tagliamo l’aria come frecce sagomate
mirando dritto verso mete sconosciute,
siamo bersagli aperti nella nebbia
che accoglie storie infrante nel silenzio.
E ci conducono parole inappropriate
lavate al fiume come panni da sbiancare.
Noi non dormiamo, no, sospese nelle notti
tra le fessure di finestre semichiuse
destate da rumori sordi e indifferenti
come fantasmi persi nel vuoto delle stanze.
Staremo sveglie, ancora, i sensi accesi,
le mani ad inseguire lucciole nel buio
tra le lanterne illuminate dalla luna
pronte a carpire i segnali dell’aurora.
Più non dormiamo su inutili colline
da tempo abbandonate nel cammino,
l’alba si annuncia con voce addormentata
tendendo vesti bianche e trasparenti
sui fogli ormai confusi del destino.
Sezione A – Lucia Lo Bianco – Accetto il regolamento
Complimenti! Se ho ben interpretato il testo, ho colto un manifesto che rappresenta la natura di una Donna libera e consapevole.
Sì, è vero Angelo.
Partecipo alla sez. B, accetto il regolamento
Il Ritorno
Era sempre uguale quella spiaggia di sabbia fine a ridosso della piattaforma di assi di legno. I tavolini del bar stavano ancora posizionati a cerchio, come ogni stagione e ogni anno si ripeteva il rito dell’estate e dei turisti e i loro tristi affanni. Da lì il mare era sempre più azzurro, potevi perderti tra le acque ed annegarci i tuoi pensieri. Potevi esplodere dentro il cristallo trasparente e riflettere tutta te stessa annegando fino in fondo all’abisso per cercare un castello inventato.
Eppure i bagnanti sembravano persi nelle loro materiali e banali azioni quotidiane, quasi fosse normale stare lì, come fosse ovvio sedersi di fronte ad un tale scenario di pura bellezza. Venivano ogni anno per mostrare i loro corpi al sole e cercare riparo dai colpi dell’inverno sceso come una dura accetta sulla loro fragile esistenza. Erano corpi giovani e freschi pronti a sbocciare alla luce del giorno, corpi maturi e disfatti spesso celati dietro coltri d’abitudini e gesti ripetuti, corpi ingenui, impauriti, spaventati, sicuri di sé, ostentati.
Seduta al suo tavolo Olga vedeva tutto, sola per la prima volta a ricevere miliardi di sensazioni. I suoi occhi si posavano sui numerosi turisti che affollavano la piattaforma quel principio di agosto: una nuova ondata di gaudenti vacanzieri certamente. Discorsi e conversazioni d’ogni tipo e quel cicaleccio la faceva volar via, verso altre realtà, diverse dalla sua storia di solitudine. La solita mamma preoccupata per il bagno del figlio, o la coppia di fidanzati che litiga o la nonna che la nipote adolescente non rispetta mentre invano cerca di imporre la propria autorità. Eccoli lì, gli innamorati che si perdono in una vacanza voluta da tempo. Sono belli, giovani, hanno proprio tutto tranne la joie de vivre…..
“E’ sempre la stessa storia – non mi ascolti.”
“Ti ascolto invece, non posso fare altro, mia cara Valentina.”
“Mi avevi promesso, niente computer in vacanza, Andrea. Detesto vedere i tuoi occhi dentro lo schermo”
“Dovrei guardare te invece? Non mi hai neanche ringraziato per questa vacanza e per aver annullato il mio meeting a Parigi”
“Ho rinunciato anch’io a qualcosa per venire qui. Lo sai che mi aspettavano a Milano per quella conferenza”.
Un bagliore di luce la colpisce. Dando lustro al suo volto. Ha i capelli lunghi e neri ed un colorito particolarmente pallido forse anche per i diversi strati di protezione solare spalmati in fretta e furia per non far tardi a colazione e non provocare l’ira di lui. Aveva voluto quella vacanza intensamente, il loro rapporto non va bene da tempo, l’ultimo tentativo, un ultimo viaggio in barca per riafferrare anni di amore. Lui non sembra così disperato, forse sta tentando di lasciarla andare. Come sarà senza di lui? Oppure è solo la paura di sentirsi sola che la spinge ad afferrarsi sempre più forte a quel tronco che la marea sta portando via?
La nonna sta gridando in lontananza. La nipote non vuole uscire dall’acqua. Molti bagnanti si voltano allarmati.
“Stai in acqua da ore, la mamma arriva nel pomeriggio e dobbiamo rientrare subito.”
“Non ho nessuna intenzione di obbedirti, non sei mia madre”
“Non rispondere così a tua nonna, sono qui per te. Lo sai bene quanto si preoccupi la mamma”.
“Meno male che mamma torna più tardi!”
“Me ne vado. Per quanto mi riguarda puoi tornare da sola.”
“Non me ne frega niente, nonna”.
“Vediamo se ritrovi la strada o non sei piuttosto capace di chiamarmi col telefonino”. Era stanca d’essere offesa da sua nipote. Ma come andar via e lasciarla lì? Non aveva animo. Avrebbe aspettato ancora un po’.
Olga proprio non si ritrova tra questi vacanzieri infelici capaci solo di sprecare il loro tempo. Se potesse parlare e spiegar loro l’importanza del tempo che fugge. A quest’ora lei e suo marito starebbero senz’altro in acqua a rincorrersi sul fondo, unico ambiente capace di unire tutti al di là di ogni possibile divisione. I colori e i giochi di luce riuscivano ad attrarli al punto da dimenticarsi del resto del mondo e del trascorrere del tempo. Solo loro alla ricerca dei misteri più nascosti, a immaginare velieri naufragati in fondo al mare o castelli abitati da splendide sirene e magici tritoni.
Sì, la loro vacanza non poteva non svolgersi al mare, ogni anno senza eccezione. Si erano innamorati lì e avevano deciso di tornare ogni anno. Il ritorno sarebbe stata una conferma del loro amore. Un amore senza figli, senza ricordi da lasciare, senza storie da raccontare. A volte si sentiva come la protagonista di un racconto, una solitaria principessa imprigionata in un castello. Perché principessa era come lui la faceva sentire nonostante i segni del tempo e lo sguardo che non riusciva ad andare oltre l’orizzonte. Principessa, sì, perduta in una storia senza tempo e senza spazio, una libellula leggera in cielo. Si sarebbe alzata.
Ancora agitata per la discussione Valentina sentì come una brezza gelida che le passava accanto.
“Hai sentito anche tu questa corrente d’aria?”
“Sei pazza? Ci sono trenta gradi all’ombra. Valentina! Dove vai?”
Doveva parlare con qualcuno, la sensazione di freddo era troppo forte per essere ignorata e proveniva da qual tavolo vuoto, vicino il parapetto prospicente il mare.
E fu proprio il barman a dirle che nessuno sedeva mai a quel tavolino, anno dopo anno. Era il posto preferito di Olga, una giovane vedova, morta annegata dieci anni prima.
Emanuela Di Caprio, sez. B accetto il regolamento
E soffoco di questo calore senza acque che dovrebbero darmi sollievo, ma sono calde e sporche come detriti inutili impilati e schiacciati da macchine sprezzanti e gradasse, la mia mente che non vuole più ricordare e allontana via il tempo mormora come un mare lontano del colore della terra, senza pesci e senza onde, nulla ti può salvare dalla fine del tempo, memorie stanche e afflosciate, inermi e velenose, incapaci di ricucire volti ed eventi, ma li cerco, inutilmente piangendo della mia incapacità di riunire pezzi del mio passato così vicino e così lontano, o è la mia volontà, ridotta a un lumicino, di pensarti, ormai così straniero nella mia mente, e, infelice ci provo ancora, ancora, inutilmente. Apro un dolce al limone, lo lecco avida e chiudo gli occhi grata all’apparire di quel pensiero dolce e lontano, mi fissavi e mi sorridevi tra corpi a noi estranei e i cieli dell’uggioso inverno sparivano. Ora apro un’altra caramella, la scarto emozionata, essa color fragola, mi restituisce le tue corse pazze, le dolci frasi inaspettate, e quella al lampone, la felicità di vederci, ognuna diversa come le emozioni regalate. Le stringo ormai molli, ma sincere, le straccio ungendo le mie mani, le butto dopo averle assaggiate, ma sono inutili le tengo nascoste, colorate piccoli zuccherini ormai così inaciditi in qualche anfratto del mio cuore stanco.
passi sulle scale
Esploderti dentro il tempo dell’attesa.
Ho camminato cercandoti
guidato da sensi confusi
sperimentato ostinate cecità
illusioni e giorni vuoti
rappreso coaguli di sfiducia
martoriato inavvicinabili ipotesi
sfidato mondi ed altri mondi
dimenticato ferrei propositi
distrutto fiabe e castelli
divorato ugge di silenzi.
Quando ho aperto la porta
e tu splendevi ignota
avrei urlato.
Sezione A – Accetto il regolamento
Il successo
I miei pensieri hanno fatto strada.
Tra gli insuccessi ed i successi.
Ho preso una strada tortuosa.
Mi lascio trasportare dai discorsi di uno che sogna come me.
“A nessuno piace complicare la vita degli altri.
Si cerca di rispettare il prossimo per non rendere la sua vita un inferno”.
Ho esplorato la mia azienda come Dante che viaggia tra il paradiso e l’inferno.
Il purgatorio è il trasferimento da un’altra parte.
Mi ritrovo ad un bivio.
Per cercare una strada migliore.
Mi saluta un collega.
Mi parla di essersi licenziato.
Mi guarda e vede la mia faccia che cambia all’improvviso.
Gli ho risposto che mi dispiace molto.
Ho preso di mira il suo cognome.
Per scherzare un pò.
Per dare un pò di luce a questo deposito.
Si cambia per non avere problemi con qualcuno.
Uno fa tanta strada per poi essere trattato male.
Chiudo gli occhi per non pensare.
Ho navigato per mescolare le mie competenze.
Ho navigato per allargare le mie conoscenze.
Un lavoro che vorrei, ma vorrei che ci fosse più armonia tra i colleghi.
Che non ci sia della cattiveria tra di loro
Degli accoltellamenti.
Perché si vive male.
Abbiamo poco tempo da trascorrere con la nostra famiglia.
Non bisogna mai sprecare il tempo con il nostro lavoro.
sez. a, accetto il regolamento
A qualsiasi costo
Si chiuse a riccio, mi disse che tanto era inutile, che non
sarebbe servito a niente continuare, voleva solo tornare a casa.
Ero distrutta, chiesi aiuto.
Lui stava in silenzio, sdraiato nel letto, senza
voler mangiare né bere: si stava lasciando morire ed io non
sapevo che fare, a che santo rivolgermi. Quel suo silenzio continuava a ribombarmi nei timpani, mi faceva impazzire.
Contattai anche un bravo psicologo che ci avevano
consigliato all’ospedale. Per diversi giorni venne a trovarlo
nella pensione dove eravamo alloggiati, parlò con lui ma non
risolvemmo niente: lui era irremovibile e il medico ci disse
che Paolo aveva le idee chiare e non potevamo obbligarlo.
Paolo continuava a ripeterci che solo lui poteva decidere
sulla sua vita, nessuno di noi poteva obbligarlo e forse aveva
ragione, ma io non potevo stare a guardare mentre si lasciava
morire. Io dovevo fare qualcosa e, ancora oggi, mi chiedo se
feci bene ad obbligarlo.
Mi facevo aiutare dai frati: lo prendevamo quasi di peso per
portarlo all’ospedale e così, un giorno, si rifiutò anche di
alzarsi dal letto, si stava lasciando morire ed io non potevo
assistere impassibile a tutto ciò.
Non mi parlava più, se ne stava con gli occhi chiusi,
immobile. Cercai in tutti i modi di tirarlo fuori dall’abisso in
cui stava precipitando ma non ci riuscivo.
Forse sbagliavo, ma io volevo che si curasse. Stavo
violando la sua volontà, non avevo il diritto di obbligarlo,
eppure con tanto dolore lo feci. Se lui non voleva lottare per
la sua vita, allora sarei stata io a farlo per lui, a qualsiasi
costo.
Partecipo sez. B
Accetto il regolamento
Il dolore dell’invisibile
Sarete felici quando più vedrete i nostri volti
quando riempita avrete la bocca di parole e dati, di numeri e progetti.
Di faldoni sepolti in uffici che cambiano nome, incompetenti, o che così ha ridotto una burocrazia illogica.
Burocrazia di riunioni tenute, di atre mai avvenute, di fondi stanziati e di fondi fantasma, di promesse si di eloquenti promesse.
Che cosa racconterete a coloro che hanno sudato sodo per mantenere le proprie case.
Per chi si riempie le tasche e lucra, c’è chi attende e si logora.
Logore sono le mura che nulla mostrano all’ignaro visitatore
lì la terra ha scatenato la sua foga distruttrice
profonde sono le crepe dal tetto fino alle fodamenta.
La piazzetta un tempo brulicava delle nostre inconsapevoli vite
una porta dietro l’altra, un girotondo di anime che si ristoravano
per quella terra che avevamo dovuto lasciare nell’aria rarefatta su cui il cielo stellato d’agosto vegliava supremo.
Il borgo sta morendo, interessa a qualcuno là fuori?
Tutto tace tra le erbe incolte che si insinuano senza riguardo soffocando i ricordi tra lo strepitio dei bambini per lo scampanio della festa.
Ora tutto tace mentre il tempo dipana l’inesorabile matassa.
Così si esaurisce in un pugno di anni la speranza nelle vite di chi molti anni davanti a sé più non ha.
Così si affievolisce la speranza; il lavoro di una vita sgretolato nel palmo di quelle nobili ora stanche mani.
Stanca è l’attesa nell’illusione di una ricostruzione per noi cittadini ultimi condannati al dolore dell’invisibile.
sez. b, accetto il regolamento
Miraggi
Brezza estiva
rilassante
nel chiarore del primo mattino
pare trasportare
echi
di antichi canti.
Donne intente
su bianche pietre
lungo il fiume
a render candide
lenzuola di lino
che hanno accolto
il riposo
e avvolto
la passione,
da regalare al sole
come l’esistenza,
da riporre in cassetti
profumati di lavanda
assieme ai propri sogni.
Sez.A – Accetto il regolamento
IN UN IMBROGLIO DI NUVOLE
Ci siamo persi ridendo
in un imbroglio di nuvole
scaraventati su brande
precarie, appese a un’iperbole
approfittando del buio
stringersi petto con petto
aggrappati più forte
all’altrui precipizio
unghie livide a premere
i propri lembi di vuoto.
Sezione A – Accetto il regolamento
Il cielo in cuore (la vita – l’amore)
Il cielo è, ovunque, ampio e silenzioso:
in lui passano cose misteriose –
comete, eclissi, soli, lune e stelle
e poi uccelli e nuvole – ed accadono,
nella sua pura calma, temporali
e bufere e uragani – e altre potenze
solleva e fa leggère, come i fulmini:
tutto pare lontano e sempre in pace,
lassù specchiato, quanto avviene in terra –
pare che in lui non sia vera la guerra.
C’è sempre luce, in cielo: anche il più oscuro
dei giorni non è senz’alcun bagliore –
azzurro, argènteo o blu, pure di notte
non sa privarsi in tutto di splendore;
e in qualsiasi paese alzi lo sguardo
il cielo è unico e uguale per tutti;
è un vuoto che straripa d’ogni senso,
una rivoluzione permanente:
torna sempre al suo punto di partenza,
per poi ricominciare – l’infinito.
Il cielo è un’acqua che la luce accende,
è un’aria che ti dà quiete e respiro
e quasi puoi sfiorarlo, all’orizzonte –
fino agli estremi limiti del tempo,
perché tutto è vicino, intimo e prossimo
ciò che in cielo s’annuncia, e nei suoi occhi
si può arrivare a scorgere ogni cosa;
il cielo ha verità meravigliose
che, anche senza guardare, puoi sentire –
in forma di profumi o d’altri eventi.
Il cielo è un nome che tutti sappiamo,
sempre diverso eppure sempre quello,
in tutte quante le lingue del mondo:
il cielo non ha angoli nascosti,
il suo segreto è rivelarsi intero;
il cielo è un’ala che tutto alza in volo,
non ha strade o confini: aperto e libero,
è un bambino che ride, piange e gioca –
il cielo è vivo come il nostro cuore,
come la vita che ci fa l’amore.
Il cielo può insegnare anche a morire,
perché non è più limpido di noi
e a volte è secco e fermo come un vecchio –
ma sempre ci accompagna, in ogni dove:
è sempre là, con noi, pure se neanche
lo guardiamo – né il bello o il brutto tempo
san turbare la sua serenità,
che non è indifferenza perché accoglie
in sé ogni cosa – ma sempre rimane
al di sopra di tutto, e sempre va.
Il cielo è un varco – per l’eternità.
(23 aprile 2009)
Sez. A, accetto il regolamento.
Il letto, posto al centro della stanza, suddivideva in porzioni statiche e uguali anche le loro vite. Giulia, ritta e costante. Saro, vivo e trepidante. La notte del sogno di cui narro, la luna si strofinava gli occhi e le stelle guardavano Morfeo entrare a piccoli e morbidi passi nella mente di Saro. Dal lato destro della camera si alzava una luce fioca, proveniente dalla lampada ad olio che doveva far leggere le parole del libro. Un vecchio libro sulle dinamiche della vita, uno di quei mattoncini che Giulia adorava tenersi stretto al petto anche quando si addormentava. Saro non dormiva facilmente e le paure del giorno, le paure del non farcela, lo assillavano ben presto quando intravedeva le coperte e il fine luce. Non prendeva alcuna tisana, nessun sonnifero, preferiva aspettare che il sonno lo avvolgesse, a qualsiasi ora, tanto, diceva, “non ho fretta”. Giulia invece, quasi lontana dal suo uomo, sorrideva e si pacava l’animo scrutando fuori dalla finestra gli alberi delicati, che a suo dire, le mormoravano una lenta nenia ancestrale. Per entrambi, la vita era lì, ogni sera, fra quelle lenzuola al sapore di mandarino e proprio lì, puntuali, si staccavano dai corpi. Il buio li allontanava come naturale conseguenza della simbiosi di cui si nutrivano le ore del giorno. Sembrava strano o cattivo eseguire la danza della lontananza, ma per loro, Saro e Giulia, era la norma, un quieto vivere armonico il loro amore. Tuttavia mi domando come posso, definire amore, un sentimento che cresce al mattino, si alimenta a pranzo, si illumina la sera e separa dopo cena? Gli equilibri sono strani. Gli equilibri dettano virtù e stranezze. Neppure il cielo potrà mai capire. L’Amore di Saro era univoco, tutto per Giulia. L’Amore di Lei era libero, solo per Saro. Ricordo che un giorno, tra l’alba e la sveglia, un piccolo raggio di sole bussò sorpreso alla finestra e Saro stropicciò gli occhi, Giulia si coprì il viso a mezza mano. Quando entrò il secondo e poi gli altri, non fu stupore, ma sorrisi dolcissimi. Si voltarono e si guardarono come nuovi, pensarono ad un gesto piovuto dal cielo, mentre le previsioni annunciavano pioggia. Saro si alzò per primo, si recò in cucina e preparò un caffe, poi aprí la porta del terrazzo e strappò un fiore da un ramo, non sapeva che tipo di fiore fosse. Prese il vassoio di legno sopra il frigo, vi poggiò sopra il necessario ed entrò in camera, per regalare alla sua Giulia un giorno profumato di fiori sconosciuti. Quando fu interrotta dal gesto cordiale, Saro sorrise. D’un sorriso che riempì la stanza, il quartiere, la città, l’universo intero di Saro e di Giulia. Tenera e assonnata sfilò la mano da sotto il cuscino e con un gesto altrettanto lento bramò quel viso barbuto e raggiante. Si fece forza sulle braccia e lo baciò. Il caffe intanto, decise di aspettare. Venne sera e la cena si annaffiò di risa, con loro, il bianco d’uva pregiata. Fu subito bellezza e i rumori da fuori non riuscirono ad entrare. Stava per raggiungerli l’ora dell’addio temporaneo, della spartizione del tempo della notte. Entrando in camera eseguirono i rituali della comoda preparazione: Saro cercava gli occhiali, Giulia, senza freno, li scorse sul pavimento, si abbassò e glieli pose sul naso. Era strana quella notte. Qualcosa era cambiato, gli occhi dei due sapevano di novità. Si misero a letto, separati dal solito linguaggio degli anni: il silenzio. Saro prese sonno subito. Giulia non riusciva a leggere. Saro cominciò a dimenarsi come si fa con un sogno, la fronte sudava e sul viso si stamparono sorrisi d’altri tempi. Per la prima volta in quella circostanza, Giulia fu incuriosita e alzò la testa per capire cosa stesse accadendo dall’altra parte, fu un attimo e tornò al suo posto. Passarono le ore, sempre allo stesso ritmo, quando improvviso, Saro, aprì gli occhi. La stanza era ricoperta di fiori gialli dalla natura incerta, a tratti cambiavano colore, a tratti emanavano fragranze soavi. Giulia era sparita. Saro fu sconvolto ma non ebbe paura. Come un sole ricomparve, era sopra di Lui, aleggiava tra la veste Bianca di seta e un rito di poesia. Quando fu ad un palmo dal toccarlo con le labbra, si fece silenzio, di quel silenzio salmastro e tenue, come un mare incensato da onde, sferrò quel che bacio che descrivere mai potrò.
Si staccò per un attimo e disse:” il silenzio non ha parole. Il mio Amore dice tutto”.
Riprese a baciarlo e la notte, rumorosa, si consumò lentamente.
sez. b, accetto il regolamento
Potrà sembrare una fiaba strana
Quella che narrare voglio stasera
è la favola di un sogno antico
nella speranza che divenga vera
e ci riconsegni un mondo amico.
A nulla serve sennò poi il sognare
in notti uguali ma sempre magiche
ove s’annulla il lento divagare
nel rimembrar di storie fantastiche.
Come un cantastorie compongo rime
per calmare il mio demone inquieto
spiccando voli fin sull’alte cime
sfiorando nubi timoroso e lieto.
Come fiori esili e profumati
ci doniamo docili alle farfalle
per esser qual fragranze trasportati
incontr’ogni collina monte e valle.
Il nettare nell’aria si dissolve
mentre l’amore potrebbe spiegare
come un vetusto scritto che risolve
il significato della parola amare.
Sarà forse tutta pura fantasia
che con tenerezza va oltre la realtà
oppur mera illusione o utopia
che allontana dalla quotidianità.
Forse son’io che sento il bisogno
di qualcosa di nuovo nell’esporre
al continuo mutare dell’ingegno
che in mio soccorso talor’accorre.
Potrà sembrare una fiaba strana
che di tutto parla e non dice niente
ma è questo il mistero che dipana
ciò che proviene dall’astrusa mente.
Sezione A , accetto il Regolamento
E SI SENTE SCIVOLARE di Sandra Ludovici
Inquieto, curioso
il cuore irrompe nella soffitta sorgente
in mezzo all’amore
che spira odore di storie perdute,
di polvere e ombra di vita,
d’una lamina secca di primavera.
E si sente scivolare, lento,
tra i raggi pensanti d’un sole sbiadito
che accende le memorie turbate
al cincischiare dei gorghi di sirena,
al canto soave che bacia e uccide
nel silenzio d’aria e di luce.
Soffia le lacrime infuocate sull’anima
da sempre pronta a far capolino
dai suoi angoli segreti, di rara preziosità
nel tempo che dilatato appanna
sul freddo focolare dell’inverno,
tra le ceneri morte, ingannatrici.
Ma, perde la corteccia, slittando sul fosso
della mente prona al seducente oblio,
e taciturno, iroso, rutila abbuiato
piegando il capo, lontano da pastura
eppur sitibondo ancora alla fonte
inesausta del suo piacere.
Sezione A – Accetto il regolamento
— CONTEST SCADUTO —
I finalisti saranno avvertiti via e-mail
Si ringraziano tutti i partecipanti
FINALISTI CONTEST MATERIA LUCIDA
SEZ. A
Gianfranco Isetta con “Ti seppelliremo”
Antonella Chiego con “Desideri”
Caterina Marchesini con “Una rosa nera”
Sara Cancellara con “Cattiva bevanda per amore”
Alessio Romanini con “Aequinoctium”
Serenella Menichetti con “Un mondo incandescente”
Roberto Marzano con “In un imbroglio di nuvole”
SEZ. B
Antonio Blunda con “Il vicoletto”
Marco Leonardi con “Un fatale incontro”
Lorenzo Iannelli con “La campanella”
Alessio Romanini con “Contando le foglie in autunno”
Pietro Rainero con “La lastra di ghiaccio”
Alberto Rizzi con “Il ritorno”
Maria Carmela Dettori con “La fila”
Tra qualche giorno si pubblicherà l’articolo VINCITORI del Contest!
A fine mese sarà online un nuovo contest.
Vi ringraziamo per la partecipazione e vi auguriamo una buona giornata
Grazie per la selezione e in bocca al lupo a tutti i selezionati.
Complimenti comunque a tutti i partecipanti, tanti, trasmettere emozioni è un’arte a prescindere, farlo in poesia e in prosa perché siano in tanti a riceverle e restituirle è un dono. Non importa che si diventi o no famosi, importa che lo hai fatto e nulla andrà perduto. Non smettete mai di farlo.
Ciao.
Maricà (Maria Carmela Dettori)
Grazie per aver selezionato le mie opere!
Sono veramente felice. Grazie di cuore a tutti.
Complimenti a tutti i finalisti e i partecipanti.
Grazie
Grazie di cuore per avermi selezionata.
In bocca al lupo a tutti i finalisti :)
Antonella
Complimenti! A breve sarà online l’articolo “Vincitori e finalisti”. Intanto… buona lettura!
PUBBLICAZIONE VINCITORI DEL CONTEST MATERIA LUCIDA
https://oubliettemagazine.com/2024/01/19/vincitori-e-finalisti-del-contest-di-poesia-e-racconto-breve-materia-lucida/
A fine mese sarà online il prossimo contest di poesia e racconto breve!
Ringraziamo tutti e tutte per la partecipazione.