“Il labirinto di ghiaccio” di Valerio Varesi: analogia con Dissipatio H. G. di Guido Morselli
Il labirinto di ghiaccio del maestro di thriller Valerio Varesi, che molto si differenzia dai suoi romanzi precedenti.
Ho assistito alla sua presentazione alcuni giorni fa presso Librerie. Coop All’Arco di Reggio Emilia. Nel corso di essa l’autore ha accennato a Ötzi che è il nome con cui si indica l’uomo ritrovato nel 1991 sul ghiacciaio della Val Senales, che visse oltre 5.000 anni fa, ucciso da una freccia che gli aveva trafitto una spalla e che probabilmente gli aveva bucato l’aorta. Stava scappando, dunque. Chi egli fosse realmente non si sa. Valerio Varesi potrebbe scriverne un noir, anche se (orrida e bipiolare boutade) il non-colore più diffuso da quelle gelide parti è il blanc.
È relativamente facile sparare sciocchezze stando comodamente seduti su un divano. Lo è di meno se si è inseguiti da chi ti vuol far la pelle. Ci riesce soltanto Indiana Jones e i personaggi dei suoi film. Nella realtà tutto diventa più problematico.
Il bello della vita è che è una specie di commedia burlesca e il brutto è che, prima o poi, essa si evolve in un dramma che sfocia, irrimediabilmente, in una qualche tragedia.
Salvo eccezioni, il mio tipo di personaggio preferito è l’io narrante, col rischio che sia insulso come quello de Il serpente del parmigiano Luigi Malerba, autore che Valerio Varesi ha citato, insieme ad altri delle sue ducali bande, durante la suddetta presentazione.
Il protagonista de Il labirinto di ghiaccio è un tipo non facilmente sopportabile, talvolta odioso e odiante. Odio deriva dal sanscrito avadhit (radice vadh, uad), che ha il senso di respingere, allontanare da sé. Se sei dotato di potere, puoi provvedere facilmente ad allontanare gli altri, eliminandoli uno a uno; diversamente, ti è al massimo concesso di scappare.
Se desideri rimanere da solo, celato al mondo, la tua unica chance è di andartene dove in pochi riuscirebbero a esistere. Devi ritrovare il tuo Kósmos, l’Ordine, a costo di precipitare in un abisso, il Chaos, la cui radice sanscrita è ka o gha, che dà il senso del vuoto che si apre sotto i piedi.
Delle quattro interazioni fisiche, la più debole, in ambito locale, è la gravità, che è quella che ti fa precipitare dal quarto piano (e che causa la tua morte, a meno che tu non sia un felino), oppure quella che smuove giornalmente le maree. Ed è in quella in cui, a mali estremi, puoi confidare. Essa attrae, e mai respinge, essendo di tipo materno, accogliente. A volte fin troppo.
All’incontro ha partecipato il giornalista Massimo Sesena, un arşân tésta quêdra (così siamo detti noi reggiani al di là dell’Enza e del Secchia), già capocronista per La Gazzetta di Reggio, oggi domiciliato altrove. Essendo io, per natura, un tipo distratto (sempre intento a rincorrere i c…, i fatti miei, e questo fin da quando frequentavo con scarso profitto la scuola materna, che allora si chiamava, beffardamente, asilo), non ricordo cosa egli disse facendo riferimento a José Saramago. Ma perché non riesco mai a star attento quando serve?!
Sesena ha poi ammesso un’ulteriore verità. Leggendo Il labirinto di ghiaccio di Varesi, è stato costretto a cercare sul dizionario (essendo io un baby boomer di tipo evoluto, mi rivolgo normalmente a zio Google), per cercare d’individuare il significato di vari termini utilizzati nella narrazione. Riporto di seguito i vocaboli arcani da me raccolti, quasi fossero delle morchelle (talvolta indicherò talune annesse e più essoteriche locuzioni) che, prima di controllare presso il telematico consanguineo, mi vantavo d’ignorare (alcuni non del tutto, ma in modo insufficiente perché intenderne l’esatto senso). Eccoli: “una coppia di gracchi ha volato”; “cengia di granito”; “malghe”; “chiostra”; “seduta su una savonarola”; “misterioso bradisisma” (creatura ermafrodita?); “un canederlo nel brodo”, che so essere un gnocco di pane, tipico della gastronomia trentina; “centinature per reggere la volta”; “sono salito alla vedretta”; “So dove sono gli accumuli e i seracchi”; “l’enorme nevaio della croda Nera”; “un lento gonfiarsi di soufflé più a valle”, non tanto commestibili; “l’assa degli appoggi”; “giunti alla vedretta”; “Da un’apertura di questa piccola cresta si accede al catino sospeso”; “si ritirano dagli alpeggi”; “quest’erebo di ghiaccio”, bello e soprattutto allegro; “l’effetto di un candeggio”; “sono io il centro di questa ruzzola”; “tra le forcelle di roccia”, qualcosa intuisco ma non mi basta; “una forra umida”; nonché dei “scheggioni di granito”, di dantesca memoria. Un paio di questi termini indicano con incerta precisione la location del romanzo Il labirinto di ghiaccio.
Avendo concluso la lettura del romanzo ieri sera, prima d’iniziare stamani a scrivere la presente reazione, vorrei indicare anch’io un riferimento letterario, anzi due. Il primo è Robinson Crusoe di Daniel Defoe (mi sono sempre chiesto se l’assonanza del nome dell’eroe e quello dell’autore sia casuale), ed è inutile che spieghi il perché. Per cui provvedo subito a farlo: un uomo a cui capita di vivere in un ambiente nuovo e ostile, deve rinvenire in sé quello che ancora non è, il che può assurgere a miracolo. Il cervello umano si evolve e si dissolve secondo dei fini dettati dall’economia: acquisisce all’occorrenza nuove conoscenze o le disperde nel nulla quando cessano di servire. Però è ricco di carismi imprevedibili.
Il secondo è Dissipatio H.G., uno dei tre romanzi che più serbo nell’anima, scritto da un autore che, per qualche altrui e folle decisione, è diventato un autore postumo. Poco dopo averlo narrato, egli morì spontaneamente, espressione che mi pare più rispettosa che dire che si suicidò. Immaginai per anni quel Guido, mentre entrava nella caverna (forse platonica) con l’intenzione di farla finita, ma poi, sorseggiando del brandy spagnolo, ci ripensò, uscendo poi da quella spelonca con la consapevolezza che era meglio vivere che essere qualcos’altro, ma non del tutto certo del contrario.
Faccio fatica a paragonare i due personaggi, quello di Morselli, che tanto amo, e quello di Varesi, per cui provo un’acuta diffidenza, temendo persino d’assomigliargli. Questo è il bello e il brutto degli io narranti: ti affezioni a loro come se fossero dei gemelli separati alla nascita. M’è capitato con quell’odioso io de Il serpente, di cui dissi poc’anzi. E con Dino, quel fintamente insensibile io protagonista de La noia di Alberto Moravia.
Guido, che manco ricordo se abbia mai palesato il suo nom de plume, disgraziatamente sbatté contro uno spuntone di roccia, ferendosi alla testa. Uscito da quell’antro, l’umanità era tutta quanta dissipata. Unici superstiti erano gli animali, che di platonico avevano ben poco, o forse sì, l’anima c’era anche in loro, ma non l’idea di averla. O chissà! Mistero…
L’io de Il labirinto di ghiaccio è in fuga, perché non vuol aver più a nulla a che fare con il genere umano, così almeno pensa. Ma a questo punto Tex Willer direbbe: Quien Sabe!
Guido giudicava l’umanità corrotta e ora non riusciva più a scorgerla. Per tutto il tempo che gli rimase, passò da un’esperienza all’altra senza incontrare anima viva. Non dava per scontato che la gente fosse sparita, a volte tentata di ciarlare con qualcuno, come se fosse a un passo da lui. Poiché nessuno gli rispondeva, faceva finta di nulla.
L’io di Varesi non esprime mai dei giudizi etici: non ne ha il tempo! Tanto deve fare e brigare se vuol sopravvivere! Pur avendoli sottolineati credo tutti, non ho contato il numero di volte in cui è riportato il vocabolo labirinto (sicuramente è compreso fra 17 e 47). Pure per me i minuti sono contati: devo scrivere questa reazione; ho in lettura condivisa (con me e con me stesso) tre libri così eterogenei fra loro che il cervello rischia di scoppiarmi da un momento all’altro; devo recarmi a camminare nel Parco delle Caprette con Nicola, al fine di chiacchierare con lui e di sgranchirmi arti inferiori e meningi; se ho voglia e tempo ‘sto pomeriggio farò mezz’oretta di pesi; poi devo anche compiere gli atti necessari alla sopravvivenza. Ho infine da compiere un modesto esercizio di meditazione semi-trascendentale che mi ruba una mezz’oretta ogni giorno. Ormai non ce la faccio più a caricarmi di tali e tanti obblighi esistenziali. Ieri sono andato, con il citato Nicola, racalmutese al pari di Sciascia, a visitare il Cimitero Monumentale di Reggio Emilia. Bello e grandioso, ha ammesso l’amico, ma non paragonabile a suo dire a quello di Genova. Bene, dopo il celebre Acquario e il dorato Palazzo Reale e il non meno mirabile Palazzo Ducale, ecco che ho un’altra attrazione da visitare in quella salmastra città, così stretta da mari e monti che uno si sente quasi soffocare. Eppure quando vado nel mio cimitero natio (ossimoro involontario), mi sento, come dire, più vivace e al contempo leggero, qual lieve cenere al vento.
L’io varesiano si sente sereno, anche se degli strambi pensieri a volte offuscano per un attimo la sua mente.
Un ulteriore (mio) problema. Mi accorgo che ho effettuato troppe sottolineature, tanto che temo che non ne uscirò più! Quasi quasi getto dalla finestra quel glossario di vocaboli che più che altro sono dei termini montanari. Il 58,71% circa di tali parole sono, oltre tutto, di facile interpretazione.
Mo’ vedo che fare. Deciderò quando sarà ora. E chissà quale fine delle trasmissioni sarà, per me e per l’io, il quale ha l’assurda coerenza d’essere stabilmente incoerente. Fugge dal mondo e poi utilizza giornalmente “una piccola radio: l’unico aggancio col mondo che ho voluto mantenere.”
Sorge in lui un’improvvisa consapevolezza: “Adesso confido nell’ostilità del posto.” – la solitudine implica un quid di umbratile che, provvidenzialmente, finisce per atterrire l’eventuale e disdegnato prossimo: l’Altro. Rimbaud, il poeta più fuggiasco di tutti, scrisse: Je est un autre. Chissà che intendeva dire?
“Ho allagato passaggi, provocato frane, dissimulato ogni pista frapponendo barriere o deviando i ripidi fossi dove l’acqua salta con fragore a primavera.” – è un luogo dove il cambio di stagioni a volte rischia di diventare letale. Inoltre, talvolta “continua ad allignare la paura che tutto ciò che ho creato svanisca per l’invasione di qualcuno.”
Si tratti di un generale, o di un caporal maggiore o di un contrammiraglio, è ogni volta un’inquieta stagione che, in fondo, è sempre prevedibile: “Ho respinto definitivamente l’invadenza degli altri e adesso mi attende la sfida mortale con l’inverno.” – no!, riporto troppo!, devo tagliare!, tagliare!
L’io ama osservare, ma non accetta d’esser osservato: ed è l’ingiustizia sociale di cui è assertore.
A chi ha letto l’intero romanzo Il labirinto di ghiaccio, suona demenziale questa sua frase: “Ascolto tutto ciò accrescere il piacere di sentirmi invulnerabile.” – anche pensando a quel transfuga di Ötzi.
“E finalmente sono me stesso, originale e inconfondibile.” – ma ti conosci anche, nel senso che indicò quell’oracolo di Delfi?
Amico vicino e lontano, il tuo è il luogo delle risorse nascoste. Esse sono come te, ammucciate, termine cilentano che significa nascoste, dall’antico francese mucher, ammucchiare degli oggetti al fine di celare qualcos’altro alla vista. A Reş diciamo mucêr, nel senso di ammucchiare, senza però includere il senso di chi cova la dissimulazione: “… un fucile della Grande guerra, una gavetta, alcuni berretti, due scarponi sinistri…” – mannaggia! – “… e uno zaino” – tanto materiale che serve a far esplodere la tua strategica rabbia contro l’umano genere, che era parso dissipato agli occhi di Guido.
Non capisco se tu, caro il mio io, serbi rancore o ti limiti a inseguire il nulla da un punto di vista sociale. Più ancora che il materiale deflagrante, che tesorizzi come se fosse oro, a me turba il tuo marziale pensiero: “Ho un coltello infilato nella cintura e un’asta metallica acuminata.” – specie ora che hai scoperto di non essere da solo in quella tormentosa quiete. Un tuo simile (ti ho offeso a chiamarlo così?) sta percorrendo gli stessi tuoi gelati sentieri: “… continua a girarmi intorno senza che io sappia nulla di lui.” – tanto che dici: “Non riesco più a distinguere se le mie orme sono quelle che inseguono o se sono inseguite dalle sue.” – che siate correlati come un unico uroboro?, così mi capitò di definire quell’io di Malerba.
Che strana frase: “Mi sentivo autentico e finalmente vivo.” – l’autore di te stesso, questo forse vuoi significare? Bada che quel Valerio Varesi s’illude d’essere il tuo creatore. Ho sempre avuto il sospetto che sia il personaggio (anche quei sette di cui narra Luigi Pirandello) a cercare d’individuare e di catalogare per sempre l’autore.
Tu disprezzi gli altri, eppure ora che hai trovato delle “carte relative alla tenuta dei Bellinotto”, che tanta importanza avrà per la tua disgraziata storia, ti metti a decifrarne con ostinazione le lese pagine, con lo spirito di un esegeta biblico. E giungi a dire: “Poi mi metto a decifrarle decrittando i segni di una calligrafia sfocata dal gelo e dal tempo.”
Guido osservava con attenzione quel che era naturale, senza dar peso alla cosa, senza negare o ammettere che così era. Lo era e nulla più. I ricordi valevano per lui più di qualsiasi umanità. Egli era profondamente solo, ma aveva già vissuto e visto di peggio. Era in un luogo sperduto e si faceva compagnia da sé. Gli altri non più esistevano, né costituivano un problema.
Sono illuminanti metafore queste tue: “Usare il piccone, scavare, non è altro che applicare il mio modo d’essere. A volte penso che i tunnel siano la riproduzione del groviglio di membrane del mio cervello.” – che non è né più sinaptico, né meno, di quello degli altri.
E sei così voglioso di conoscenze dell’Altro, di quel che Quello può venire a dire di Te! A pagina 24 avevi detto: “Con l’ombrello ho ricavato un’antenna.” – beato te che sei capace di tante mirabilia. Ventisei pagine dopo, dici: “Anche l’antenna è ora più alta e la radio si è saturata di stazioni.” – non male per chi cerca se stesso, magari collegandosi a Radio Béri. Poi dici, quasi scusandoti col lettore: “Non sopporto più di dieci minuti l’assordante petulanza che giunge fin quassù, ma è l’unica spia al mio servizio.” – come con zio Google, che è sempre disponibile, ma che ti prospetta a ogni piè sospinto le sue deprimenti news. A quel punto non resta che gettar via ogni cosa, fuorché te e la tua speranza!
“Il lavoro è ormai per me una necessità. E un gioco, a volte.” – come per me leggere e reagire ai nuovi romanzi di Valerio Varesi.
E ogni tanto penso alla frase di Leonardo: “E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo, e se sarai accompagnato da un solo compagno, sarai mezzo tuo, e tanto meno quanto sarà maggiore la…” – … la tua solitudine, tanto meno sarà immacolata la tua esistenziale libertà.
Ora sei come circondato da innumerevoli Altri: gli spettri dei Bellinotto, di cui continui a scoprire incerte ma terribili verità, che coinvolgono anche la memoria di tuo padre; il tuo alter ego che continua ad aggirarsi nei tuoi dintorni… ma chi sarà mai?!; nonché le stridule voci della radio!
E poi si stanno moltiplicando coloro che ti vanno cercando, specie ora che qualcuno (e tu sai benissimo chi è stato) ha compiuto quegli atti così sanguinosi!
“Ho cominciato col ripristinare i tunnel strategici.” – che paiono tanti sentieri che, borgesianamente, si biforcano, e poi aggiungi: “Certi giorni mi sento così permeabile, così esposto agli attacchi degli altri, che la caduta di una scaglia di ghiaccio suona come l’annuncio dell’invasione.” – quasi tu fossi appostato nei sobborghi de Il deserto dei tartari di Dino Buzzati.
A pagina 69 compi un canecidio, dopo di cui confessi: “… quando la mia lancia lo ha trafitto, nei suoi occhi non ho letto altro che la naturalità del destino.” – e sai cosa ha forse pensato, quel peloso animale? Fossi rimasto un lupo, sarei ancora libero di girovagare fra questi miei amati monti!
E ti metti a scrivere, a scrivere… e a diffondere… continui messaggi anonimi, e questo di pagina 78 è diretto nientemeno che “al procuratore” – perché quel che vai scoprendo, leggiucchiando a fatica quei malridotti foglietti, suggerisce la necessità di un’inchiesta. Perché te ne importa tanto, ora che sei uscito dalla comunità? Credi ancora nella necessità della giustizia? Sei certo che ti convenga?
Vogliono costruire una funivia, e temi di veder resa vana la tua fuga dal villaggio globale. Però quell’infido mondo lo vai sempre cercando. Perché? Ora dici: “Ho lasciato il biglietto nella cassetta postale del tribunale.” – e ora ti vedo che fuggi in quel terreo buio.
“So che l’essenza delle cose si cela nei dettagli…” – ognuno di noi lo è, per l’altro, io per te, tu per me, come anche, per entrambi, “un vecchio che legge soffermandosi sotto le lampadine dei portici, un cane che rincorre l’odore del padrone rasentando gli usci…” – etc etc… Tanti particolari che recano in sé dei caratteri universali, avviluppati intorno all’immenso Quid che gira su se stesso, coinvolgendo ogni sua minuscola parte, al fine di rendere omaggio a quella specie di Monarca, naturalmente Comune e, al contempo, biecamente Infinito.
Continui a disperdere nell’ambiente messaggi informativi e deformanti, nel senso che nessuno deve poter arguire chi tu sia e perché fai questo. E a compiere nefandezze, di cui non sai vergognarti. Ho sempre avuto il sospetto che l’etica sia fondata sulla paura di essere scoperti, e non su qualche nobile principio allocato nella nostra madida anima. Confessi a te stesso e al lettore, a pagina 92: “… a volte, il delitto è l’unica via di fuga…” – un sottrarsi al giudizio altrui, finché un bel dì ognuno sarà inesorabilmente condannato o dall’uomo o dalla natura.
Assisti ora a una scena tragica e pensi, fra te e te, “che la spietatezza della montagna mi aveva tolto d’impaccio.” – sappi, homo vilis, che per un attimo mi son identificato in quel disgraziato quarto elemento della cordata, che infine soccombe, poiché il suo destino è segnato e il coltello del suo compagno non fa altro che sancire la sua empia condanna.
Ora, mio io, sei disposto a tutto, tranne che ad amare. Dici: “Ogni giorno che passa mi convinco che quassù la caccia è un affare solitario che non si confà al branco.” – che parola volgare che hai detto… Non si dice forse branco di miserabili!?
Cercando te, cioè l’assassino, s’imbattono per caso nel tuo misterioso alter ego, l’altro fuggitivo, che poi si scopre essere Rino, un tuo amico di infanzia. Essendo egli un francescano, la stampa arriva a definirlo “frate bomba” – quando ben sai che egli, diversamente da te, è un’amica candida. Ora devi assolutamente aiutare quell’ormai sperduto solidale. È un tuo obbligo vitale, ormai.
“Di fianco a me metterò i diari che ho scritto giorno per giorno senza fronzoli di sorta, come un mattinale di questura.” – assai fine ‘sto termine, da aggiungere a quel glossario (che non è, ormai, che un polveroso ossario).
Vigliacco è questo tuo pensiero: “Molto spesso, tra la fatalità e l’intenzione non corre che uno scarto minimo.” – il nostro libero arbitrio. Quando Sant’Agostino predicava la predestinazione, forse intendeva mettersi al riparlo da eventuali accuse, dicendo: io sono buono perché tu Dio me lo hai ordinato, e solo a te obbedisco. E così che ci si può garantire la vita eterna.
“Difendo la mia unicità…” – ma fra poco verrà da dire qualcos’altro, vedrai.
Cianci ora del tuo “incontro con Dio” – l’ultima spiaggia del peccatore, specie se pluriomicida.
Eccoci arrivati a quel fatidico punto: l’immagine che ricevi di Rino, com’è diventato ora, “… mi ha fatto pensare ai cambiamenti e a come l’unicità di una persona sia la somma di una molteplicità. Un anno fa io ero un altro, per certi versi l’opposto di adesso.” – ma non per questo meno reo.
Mi fai ridere, alle tue spalle, ovvio, quando ti scappa detto: “L’uomo che ero è morto e al suo posto c’è un macilento vecchietto.” – forse un tantino più entropico, suvvia!
Decidi ora di ri-associarti, quasi da apolide, al consorzio umano (per il quale la tua ultima azione ha risolto antichi enigmi e casi che sono ora oggetto di procedure penali): da parte di un killer non seriale ma assai serio come te è una bella soddisfazione.
Non temi d’essere riconosciuto, poiché, dici: “Posso farmi passare per donna, vecchio, bimbo pervertito o perbenista. Basta indossare una maschera in questo sconfinato carnevale”.
Persona deriva dal greco e dal latino (essendo quella cosa che serve per suonarci attraverso); ma c’è chi lo fa risalire all’etrusco phersu, che è maschera. E tu ora sei una persona nuova di zecca. Grazie a te l’ex frate bomba torna a essere libero di tornare in convento. Forse ha intuito qualcosa di te, o forse no. Nessuno lo sa, forse nemmeno Valerio Varesi.
La rivelazione ora è: “E tuttavia ora scopro che fuga non lo era…” – ma qui blocco il riporto, che ho già fin troppo spoilerato. E, tanto per contraddirmi per l’ennesima volta, questo è il finale: “Allora potrò confessare tutto, aprirmi all’inquisizione del prossimo e arrendermi.” – ma poi s’ignora quanto durerà ‘sto salvifico proposito tuo, perché io ti conosco… e non mi fido di te!
Guido, che forse, miracolosamente ti pensava, sapeva che nulla al mondo era innaturale e non dava eccessivo peso ad alcuna cosa, né diceva che così era oppure non era. I ricordi valevano per lui più di qualsiasi umanità. Era profondamente solo, ma aveva vissuto e visto di peggio. Era in un luogo sperduto, ma si faceva compagnia da sé. Gli altri non solo non c’erano più, ma non costituivano più un problema. Stava vivendo un desiderio ed era felice come poteva esserlo un uomo. Non esplodeva in grida di gioia, né era il caso, del resto. I giorni passavano in una specie di villeggiatura, di cui sentiva proprio il bisogno. Non v’erano né donne né altro, ma non si poteva avere tutto… Il costo dell’operazione era stato bassissimo. Tutto era nato da un’idea casuale, come quella di entrare in una grotta come un’altra. Peccato non averci pensato prima. E ora se la voleva godere. Chissà se gli extra erano compresi, o se doveva pagarli e a chi… Non sapeva come sarebbe andata a finire. M’auguro il suo bene, m’andavo dicendo, allorché leggevo la sua storia. Questa era la vita a cui ambiva fin da piccolo, un sogno che non poteva durare per sempre. Al solito, quando tutto va bene e non ci sono guai all’orizzonte, la natura ansiosa pone davanti lo spettro del futuro. Quando uno è nato insicuro morirà incerto. Sempre che muoiano anche gli indecisi. O forse la morte è un passo troppo impegnativo per loro? Non lo so. Guido (o chi per lui) ricevette finalmente una telefonata. Era un tale, un amico, che da un po’ non si faceva sentire. Chissà che vorrà, si chiese, essendo quello morto da tempo. Guido gli diede appuntamento per un luogo assai preciso ma decisamente confuso. Infine, si troveranno. Guido partì, sapendo bene che, appena rivedrà il vecchio compagno, gli offrirà, tremando, una sigaretta, per vincere l’imbarazzo.
Mio labirintico io, cerca di assomigliare a quell’antico amico mio, ti prego. Perciò ti voglio tanto bene, al di là delle tue malefatte, ché m’hai fatto ricordare quel Guido, che ancora sento che guida i miei passi. Ora anche i tuoi, mi auguro per te. Evviva! Ma chi? L’uomo? L’ uomo!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Valerio Varesi, Il labirinto di ghiaccio, Mondadori, 2023
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