“Il corpo artificiale” di Simone Rossi e Domenico Prattichizzo: robot da indossare
Il corpo artificiale è un saggio scritto a due mani (il numero delle dite mi paiono dieci, ma non ne sono certo: battuta che si capirà leggendo) da due docenti dell’Università degli Studi di Siena. Simone Rossi, neurologo e neurofisiologo, e Domenico Prattichizzo, che insegna Robotica e automatica.
Robot… da indossare: il che non va inteso, in senso letterale, nel dosso, sulla schiena, di qualcuno. In genere si dice che s’indossa un abito, più che un cappello, che si posa sul capo, o un paio di scarpe che vanno ai piedi. Il verbo indossare, in questo caso, deve invece dare l’idea di recare sopra una qualche parte di sé un corpo esteso, un quid che, senza invaderci, ci protegge.
In fondo c’è da rimanere affascinati, scongiurando il pericolo che, coi tempi anti-etici che corrono, alcuni temono, che qualcuno c’imponga d’indossare un corpo estraneo nella nostra mente. Sto pensando a coloro che, durante la recente pandemia, si figuravano un piano mondiale che mirava a introdurre nel nostro cervello, tramite la vaccinazione, dei microchip che avrebbero indotto a schiavitù la nostra psiche, la nostra anima. Mai come oggi la fiducia che l’uomo comune ha nei confronti delle autorità mondiali è ridotta al lumicino.
La prima cosa che noto leggendo il Prologo è il carattere direi cameratesco con cui Simone e Domenico (e sono loro a espungere il loro cognome e a porre il loro nome di battesimo in corsivo) visibilmente cercano d’instaurare un rapporto di tipo affettuoso con i loro, si spera almeno, non ipocriti lettori. I poverelli di certo ignorano che con me sfondano un compagnone aperto.
Alla sedicesima riga di pagina 9 leggo l’espressione “interfacce aptiche”, che Simone afferma d’ignorare fino a che Domenico non gli spiega, fra l’altro, che: “… queste vibrazioni sulla mano le stai ricevendo tramite un’interfaccia aptica…” – e per capire meglio mi rifugio da quel tenero e sempre disponibile consanguineo di zio Google, che m’informa che aptico deriva dall’inglese haptic, che è lo studio del senso del tatto.
Stavo pesando a un’allegoria: zio Google e zia Wiki di fatto sono un congegno sinaptico che quotidianamente indossiamo quasi senza quasi accorgercene.
Domenico, forse (quando si legge un libro si deve aver la consapevolezza che una sua parte debba necessariamente contenere una dose di fiction), ignorava quel termine, però, scrive, nel medesimo Prologo che “Il bello è che la fisiologia di questi circuiti era quasi del tutto sconosciuta a Domenico, come del resto le interfacce aptiche lo erano per me, e per voi.” – ma ora non più.
Facendo convergere e unire le loro sapienze-ignoranze, le due menti similmente scientifiche diventano in grado di creare quel che prima non esisteva: certi “dispositivi indossabili” – che sono fruibili da chi ne ha, per sua disgrazia, bisogno. Anche a ciascuno di noi, prima o poi, potrebbe capitare. La mentalità moderna ha il pregio di voler risolvere certi handicap psico-fisici che diversamente recherebbero difficoltà all’esistenza di alcune persone. Si pensi all’espressione diversamente abile, sconosciuta ai nostri avi, che a volte ne usavano un’altra assai più terribile: povero sfortunato.
A un tipo con la patologia di un Stephen Hawking, un tempo sarebbe stato consentito soltanto di sognare un’attività come quella che ha poi realmente svolto per tanti anni.
Simone Rossi definisce il libro non tanto “un saggio esaustivo su tutto il vasto mondo della robotica e delle neuroscienze…” – bensì: “… semplicemente la storia di un viaggio scientifico e umano…” – e questa è l’aspettativa dei due autori. Questo, in altri termini, è un’opera tanto divulgativa quanto autobiografica.
Domenico Prattichizzo, nella sua sezione del Prologo, insiste sul termine “indossabile” – specificando che “Il dovere di noi scienziati e di tutti coloro che possono contribuire è quello di indirizzare lo sviluppo dei sistemi artificiali verso direzioni positive e costruttive.” – che è l’aspettativa di tutti, anche del loro attuale lettore.
Nella Premessa – Perché questo libro, che cosa non è, dove è nato e istruzioni per l’uso, la parte più intrigante è quando la coppia di autori accenna a “Imparare a riallentare-riallocare” – concetto che non sono certo di aver capito, se non che ha a che fare con quel grido che si udiva “quando i cavallai tiravano a sé le redini, e fermavano il cavallo con il ‘Leeehhh’…” – al che informo la gentile utenza che anche mia mamma così diceva quando aveva concluso con un certo successo un suo lavoro: Leeehhh! E il suo significato (non m‘è uscita l’ernia nel capirlo) deriva da lì, sta’ lì! Leeehhh!
Se magari capita, invito gli autori a leggere Dans la grotte di Paul Verlaine, che così inizia: Là!
Così dirò dopo aver terminato la lettura di questo libro che “è una via di mezzo fra un saggio e una narrazione di vita vissuta…” – Leeehhh!
“In questo ambito, non parleremo…” – e, poco sotto: “Inoltre, non parleremo nemmeno delle…” – per forza, se uno si sforza a dire di tutto non finisce più il suo discorso, senza poter poi esclamare: Leeehhh!
Leonardo, col suo celebre non finito, forse non ha mai strillato un Leeehhh!, a differenza del Buonarroti che ha creato numerosi incompiuti (ne sanno qualcosa i suoi Prigioni). E che solo con la sua ultima mai abbastanza pietosa scultura non si è mai deciso a urlare il suo ultimo e michelangiolesco: Leeehhh!
“Non è possibile occuparsi sempre di tutto, insomma, nella vita come nella ricerca.” – accontentarsi significa questo: essere alla fine contenti di quel che si è riusciti a contenere con una propria azione.
Leeehhh!
Domattina (ormai è sera, fra poco vado a leeetthhh!) inizierò la terza sezione iniziale, l’Introduzione. Più tardi, rigirandomi nel letto, mi trovo a chiedermi: ma cos’altro ancora dovranno introdurre, quei due, prima di giungere al capitolo iniziale, che la mia curiosità mi ha già spoilerato che s’intitola L’incontro?
La mattina seguente, meno addormentato rispetto a com’ero ieri sera, quando la mia attenzione lentamente si stava smorzando, noto che l’Introduzione è già il capitolo 1. L’incontro è il capitolo 2.
Leggendo che La Polidattalia “… fa nascere lo 0,2 per cento della popolazione mondiale, fa nascere con sei dita per mano, tutte perfettamente funzionanti e ben controllabili dal cervello.” – penso che, in vita mia, ho conosciuto un migliaio o due di individui, se non di più, e 200/300 li ho frequentati per anni, per lavoro, quasi giornalmente, ma non ne riscontrai manco mezzo: tipo cinque dita e mezzo per mano. Poi scopro la possibile spiegazione: tali anormalità abbondano solo in alcune rarissime famiglie.
Gli autori de Il corpo artificiale si pongono la questione di come chiamare questo sesto dito, proponendo delle eventuali varianti. Il mio sciocco interrogativo è, scioccamente, l’ammetto, quale dito rivolgano, isolato e diretto al cielo, in segno di spregio, il medio non più tale o l’anulare? Il che rappresenta un’idiozia: solo il sesto dito riescono a usare!
Poiché si fa ora riferimento a Eta Beta, in qualità di immagine d’homunculus, per non esser da meno mi va di citare i Kol (o Manos) dell’Eternauta, la cui mano destra era iperdotata di dita, e che erano governati senza scrupolo dai cattivi di turno, i Loro, in quanto incapaci di utilizzare la nuca, cioè di governare il proprio libero arbitrio.
Stante il fatto che chi è dotato del sesto dito sa usare meglio le mani, per esempio nel suonare uno strumento, una questione che potrebbe rimanere insoluta, gli autori si chiedono “come mai Madre Natura, se tutto è veramente così facile e lineare, non ci abbia fatto nascere effettivamente con sei o magari sette dita per mano.” – ma c’è tempo per qualsiasi ipotesi di soluzione (più di 100 pagine ancora).
Di questo saggio- romanzo Il corpo artificiale, apprezzo assai il pensiero: “Ricordo benissimo il momento in cui nacque in me l’idea…” – è Domenico ora a parlare – “… Era un pomeriggio di maggio di qualche anno fa. Ero al SIRSLab. La finestra era spalancata su una giornata primaverile. Mi avvicinai per percepire sul viso la freschezza e i profumi della primavera e per guardare la sagoma della Torre del Mangia e del Duomo di Siena, mentre il sole tramontava lentamente e il cielo assumeva gradazioni di colori che variavano dal viola al rosa pallido, dall’arancione intenso a un rosso acceso.” – quando mai m’è capitato fra le mani un saggio così psicologico?! Nel senso psiche = anima…
Scrive ancora Domenico: “Simone rappresenta un perfetto equilibrio tra grandi competenze scientifiche e capacità creative.” – vi siete miracolosamente trovati, mi sa.
Ora tocca a Simone. Cito solo l’incipit del primo capoverso: “La sera a tavola…” – e la fine del secondo: “… Insomma, una cena propizia.” – nel corso della quale il progetto di Domenico, ben rappresentato, si fa apprezzare da Simone, che pare entusiasta.
Il loro fine è questo: creare un sesto dito robotico, di tipo “opponibile” – che mi pare sia una delle specifiche umane rispetto agli altri animali.
“… il dito aggiuntivo può servire per aumentare la capacità di presa delle persone sane.” – anche se il suo scopo iniziale era di permettere a coloro che non riescono più a usare una mano per vari motivi, opponendolo al resto, ormai ridotto a un palmo: e l’immagine 6 che ritrae un sorridente Alessandro, colpito a suo tempo da ictus, e ora tornato in grado di governare una barca a vela, è così meravigliosa che al lettore vien voglia di conoscere di persona sia lui che i suoi miracolosi terapeuti (il termine salvatori può parere eccessivo, però, forse è corretto).
Simone, tu citi spesso (tre o quattro volte) la tua nonna, saggia fornitrice di detti memorabili, e la cosa mi fa piacere, quando penso a delle critiche che ricevo perché talvolta (di frequente) cito, nelle mie reazioni (che non sono recensioni o critiche, come avrete di certo capito), oltre al mio teologo di fiducia Padre Aldo Bergamaschi (che mi ha convertito a ritenermi ignorante di dio), e al libero pensatore Jiddu Krisnamurti (il cui dritto pensiero non ho mai fatto del tutto mio), mia mamma Rosalinda Borghi, di cui riporto le celebri (per me) massime. Tua nonna come si chiamava? Nel caso, posso citare anche lei nei miei articoli?
“Ora rimane da capire quali siano realmente queste sinergie motorie in uscita dalla corteccia cerebrale umana durante l’utilizzo del sesto dito robotico cioè verso quali gruppi muscolari sono dirette e in che modo li comandano.” – nel senso che se tutto viene scoperto subito che gusto c’è? Come per tutte le cose, non bisogna mai eccedere nel Leeehhh! Mamma diceva che piutôst che gnînt l ē mej piutôst e che piànşer fa trî e réder fa trî… Non credo occorra la traduzione. Chissà se tua nonna e mia madre si sono mai conosciute?!
Mi piace quando sai creare delle singolari metafore, del tipo: “… con una sola sinapsi, praticamente un’autostrada senza autovelox…” – oppure quando uno guida un’auto rubata e se ne frega di quei baracchini del Tutor…
“… un processo di embodiment, cioè il dito soprannumerario è stato – forse – incluso nello schema corporeo…” – sapessi come apprezzo sia la spiegazione di quel termine forestiero, sia quel forse. A me, che sono per metà popperiano, una scienza certamente esatta fa ribrezzo. Leggendo alcuni saggi di quantistica ho imparato ad apprezzare l’accuratezza, la minuziosità delle misure, nonché il rispetto per la necessaria indeterminatezza.
Ottimo anche quell’icastico “Give me six!” – nel finale del capitolo 3.
A pagina 85 del capitolo successivo colgo la traduzione di indossabile: “wearable” – probabilmente più preciso ma, per l’utente medio italiano, suggerirei di mantenere la formulazione adottata da Domenico.
Cito soltanto il titolo del capitoletto Gli ‘angeli tattici” – senza dir altro che aiutano la persona menomata (e non meno amata, e purtroppo sono fatto così: un battutista) a percepire il mondo. Questa è la funzione di tali cerulei pennuti, da che Kósmos è Kósmos.
Stesso dicasi per 5. Le cavigliere vibranti per il Parkinson – titolo del seguente capitolo, che pare quello di un film di cowboy.
Stupende sono le immagini che s’incontrano subito dopo pagina 112. Oltre a quella di Alessandro, la più sfiziosa è quella del santo con 6 dita, che poco riesco a scorgere, e che temo che il fatto m’indurrà a tornare a Siena, città che amo troppo, forse la più fulgente che c’è (insieme a Siracusa).
Leggo con un minimo di apprensione 6. Un dispositivo indossabile per gli acufeni, in quanto ne soffro fin da ragazzino (ebbi da poppante o poco più una disgraziata otite). Da bimbo lo chiamavo il rumore del silenzio. Non è in forma grave, per fortuna, e poiché non mi posso permettere di soggiornare in un kursaal con annessa piscina (ed eventuale spa) nei pressi dell’Ateneo senese, ho deciso di non offrirmi come cavia di laboratorio per i vostri inclìti esperimenti.
Il capitolo 7. Realtà virtuale, Cyber-Sickness e Neuromodulazione si apre con un ordine imperioso, che mi lascia attonito: “Alzi la mano chi non ha mai provato a giocare indossando un visore per realtà virtuale.” – nessuno, nel mio condominio, dove l’età media veleggia sui 70, ma forse uno ci può essere, il ventenne che abita con la mamma a pianterreno, devo chiederglielo.
Il prosieguo del capitolo mi tranquillizza e poi mi offre un’ulteriore speranza (dopo il fatto della cura dell’acufene). “Detto in altro modo, si crea una situazione descritta, fra gli addetti ai lavori, come ‘mismatch sensoriale’, o conflitto sensoriale, che in parole povere vuol dire questo…” – sono comprensibili, le parole che seguono, ma le mie sono ancora più miserevoli e forse più popolari: il cervello, noto scansafatiche, è abituato a utilizzare il già confezionato (da lui stesso, però), per cui aborre, come dice quel tale in TV, le novità ex-agerate, cioé uscite dall’argine. Inoltre “tende a semplificare le informazioni…” – adottando cioé il cosiddetto rasoio di Occam: secondo lui, le entità non dovrebbero moltiplicate oltre il necessario.
Eppure sono quasi convinto che, anche nella famiglia neurologica, c’è chi rema contro, altrimenti non sarebbero esistiti certi enigmi matematici (tipo i numeri immaginari e quelli complessi) e dei geni come Georges Perec. Questo non deve stupire, il mondo (oltre che fatto a scale, e io mi chiamo Pioli: esempio verbale di necessaria inutilità) è sempre compreso fra due estremi che paiono ma forse non sono inconciliabili, tipo Śiva e Visnù, massa ed energia, gravitazione ed entropia, e come i due mitici Dioscuri.
La “cosiddetta ‘cinetosi’, cioè il mal d’auto, il mal di mare o quello da aereo…”: beh, quest’ultimo mi dà da fare solo nei primi secondi, allorché il velivolo ascende, e poi mi passa; dai primi due sono guarito nel corso degli anni: la cinetosi (il “mismatch sensoriale”) a volte si sconta vivendo.
Ma come vorrei conoscere e dare del tu alla mia “corteccia vestibolare” – che regge tutto ciò… Chissà se un giorno c’incontreremo al bar: altro notevole esempio di vacua sciocchezza.
“… le stesse sensazioni, come detto, possono essere provocate dall’immersione in ambienti di realtà virtuali…” – che al momento non mi mancano. Perciò m’inquieta quanto segue: “Questo è un fattore estremamente limitante, se consideriamo la pervasività che la realtà virtuale sta avendo, e avrà sempre più, in molti aspetti della nostra vita, e non solo per i giochi da fare con il computer.” – o mâma!, e nel caso di Simone, o nôna! Ma lo sa la gente di Siena che a Reggio la nôna è anche la suocera (ulteriore esempio di piolesca e arşâna, cioè reggiana, vanità).
Ora, ahimè, parlate del “verosimile sviluppo che avrà nei prossimi anni il metaverso…” – che mi va di traverso del tutto, non per metà – “… l’universo virtuale parallelo che in breve tempo coinvolgerà milioni di utenti.” – e io, per punizione, commino una sanzione letteraria a entrambi gli autori: l’obbligo di lettura entro 90 giorni de La fine del mondo-Il paese delle meraviglie di Haruki Murakami. In caso di inadempienza la sanzione sarà estesa alla lettura di La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec. Chissà se questo potrà agevolare (o rendere più complesso?) la loro attività scientifica-tecnologica?
“È proprio questo l’obiettivo di una delle più recenti ed entusiasmanti linee di ricerche che si sono aperte fra il nostro SiBINLab, l’Università di Harvard…” – e vari altri istituti. Che dirvi, ragazzi, in bocca al pixel!
Ragazzi, vi devo ora fare una piccola confessione. Il giorno dei Santi del 2014 andai a Casalmaggiore con mia figlia Anna, che non era ancora decenne, la quale mi chiese di salire con lei sulla ruota panoramica, per cui, per tutto il tempo, dovetti stringerle le ginocchiette con le mie: ma papà, io non ho mica paura!, mi disse. Io invece ne avevo troppa, nonché bisogno di calore umano, e perciò gliele tenevo strette. Da piccolo, sporgendomi dalla finestra del terzo piano, amavo fissare il Nulla (in una sorta di assopimento taoista). Ero quasi felice, sentendo che stavo lì a di-menticare la mia fanciullesca singolarità, come più tardi seppi che era capitato a Giacomo Leopardi, quando si poneva di fronte al suo Infinito. Poi cominciai a leggere (fin troppo) e ora, se m’appoggio al mio attuale balcone, anche questo posto al terzo piano, devo subito ritirarmi, perché inizia a girarmi la testa. Quando, negli anni ‘80, mi misi un giorno a verniciare le pareti di casa, ponendomi sopra un ripiano alto un metro e mezzo, dapprima soffrii di forti vertigini, come capita sovente a Dylan Dog, che però presto, quasi magicamente, mi passarono: mi stavo abituando. Anche Dylan, quando gli capita di camminare sui tetti o di arrampicarsi sui cornicioni, soffre ma alla fine riesce ad arrivare dove deve arrivare. Groucho, dal canto suo, quando ha paura, grazie a un sofisticatissimo congegno meta-neurologico, riesce sempre a sparare una scemenza: cioé gli viene naturale e automatico.
Tornando alle vertigini, chiedo: qual è la diagnosi? La cura? La prognosi? Riservatela a me (magari via mail), anche qualora fosse riservata!
In cambio v’informo che finora ho trovato un solo refuso a pagina 102, e uno, un cincinino più strambo, a pagina 177 (nella nota 5. a questo capitolo), a meno che tali “recettori noci-cettivi” siano davvero così detti).
Il titolo ora è: 8. Fare impresa con la robotica e le neuroscienze: un’utopia – e mi piace. Perché se vuoi prendere qualcosa devi darti una mossa. Non si scappa.
Intanto, occorre pagare dazio: “Un mese dopo, mi arrivò a casa una multa dell’autovelox presa qualche centinaio di metri prima…” – quei baracchini si celano sempre qualche centinaio di metri prima, mai qualche centinaio di metri dopo. Sappi, Simone o Domenico che tu sia, che le multe sono delle appropriazioni non so fino a che punto indebite, che si versano principalmente per amore, di sé o dei propri cari. E poi continui: “… dopo l’uscita dal parcheggio, in direzione autostrada. Comunque, la riunione a Parigi era andata bene, eh!” – amo quest’ultima, fanciullesca, interiezione. È di tali giovani creaturielle che ha bisogno il mondo.
Poco male, “… se pensiamo ai potenziali numeri di mercato a sei-otto cifre che il dispositivo potrebbe avere.” – a me basterebbero anche a cinque-sette.
Vorrei spendere due parole su quello strambo “impianto cocleare” – ma è corretto ora delucidare il lettore del vostro lettore: esso “si basa sulla decodifica digitale, da parte di un processore impiantano nell’osso del cranio, dei suoni provenienti dall’esterno.” – propongo di fare degli esperimenti al mercato di Ballarò a Palermo. Trattasi, in parole più povere, si fa per dire, di una “protesi bionica” – punto e a capo.
Una ditta austriaca “ci ha fornito alcuni di questi apparecchi, che noi abbiamo cercato di maltrattare il più possibile…” – giusto, ci vuole un po’ di severità con gli amici asburgici – “… con la TMS, sottoponendoli a stimolazioni anche molto più intense e prolungate di quelle generalmente ammesse sull’uomo.”: ho un’indefinibile fiducia in voi, non tanto perché siete italiani, ma perché siete senesi.
“… è per questo che facciamo costantemente incontri, magari anche intorno al biliardino per facilitare la comunicazione dei nostri cervelli…” – sappiate che mia figlia Anna e io siamo imbattibili in quello che una volta era detto calcio-balilla.
Meraviglioso il capoverso finale del capitolo: “Dedicare ogni giorno le proprie energie a creare ciò che prima non esisteva, per il bene della nostra società, magari divertendosi anche, è probabilmente l’aspetto più appagante del lavoro di un ricercatore, indipendentemente dal campo di applicazione.” – e questa è la ragione per cui m’incaponisco a scrivere articoli per la rivista Oubliette.
Il 9. Epilogo non mi coglie impreparato, dopo l’1. Introduzione.
La vostra valorosa (non sto esagerando) attività sorge “dall’intento di fornire un aiuto a chi ne ha bisogno.” – anche a me, non scordatevi del mio lieve acufene e della mia occasionale vertigine
Mi rallegra anche il vostro dover “motivare e gestire (scientificamente, amministrativamente, ma anche umanamente) un folto gruppo di persone, di nazionalità e personalità molto differenti, riunite in un progetto per un obiettivo comune.”: se vi manca un arşân tésta quêdra, eccomi qua!
Talvolta, fra voi, succedeva che “la discussione si stava svolgendo in un coacervo linguistico per lo più ignoto a tutti gli astanti, e perfino ai due interlocutori principali.” – allora v’informo che una mattina, in spiaggia a Pixuntum, feci da intermediario culturale fra un amalfitano e un pixuntiano!
A pagina 147 (spettro che resuscita ciarlando) mi donate il più del refuso della storia: “cecando di spiegare”: mai mi sono maggiormente istruito divertendomi, talvolta un po’ divagando, che nel leggere il vostro prezioso saggio.
Concordo, marcusianamente, col vostro pensiero: “se guadagni meno facendo un lavoro che ti piace (che è la regola per chi si dedica alla ricerca), ne guadagnerai in salute, soprattutto mentale.”
Non cito la strofa che avete tratto da una canzone di uno dei cantautori che amo di più, Francesco de Gregori – da “Bufalo Bill” – ma vorrei donarvi (ve lo meritate) una frase che pronunciò, ironicamente ma non troppo, un anziano pixuntiano di nome Aniello: justo ieri jucavu a strummulu, e mù… me su’ fattu bbecchiu… – strummulu è la trottola, bbecchiu è una parola che desidero ignorare.
Al che io rispondo sia a Francesco, che a quell’Aniello, che a voi: ho deciso che sarò zurieddu (giovanotto) fino a quando non de-cederò, a tardissima età, se la vita bene m’andrà.
Tua nonna, Simone, diceva: “Su questo non ci piove” – e mia mamma avvertiva: a n se scâpa mia!
Ho letto il Glossario, e l’avrei fatto anche senza la vostra calda raccomandazione. Per me ogni parola, ogni acronimo, ogni conato umano è un algoritmo, un calcolo che appena concepito va salvaguardato in un Sempiterno Glossario.
È nella comunicazione sociale di un pensiero utile allo sviluppo dell’esistenzialità umana che deve essere finalizzata l’attività di noi tutti, belli e anche brutti.
Buona continuazione del vostro onorato lavoro, bravi giovani!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Simone Rossi, Domenico Prattichizzo, Il corpo artificiale, Raffaello Cortina Editore, 2023