“Buchi bianchi” di Carlo Rovelli: la scienza è una scala che reca all’infinito?
Carlo Rovelli, autore di questo saggio-romanzo Buchi bianchi (e poi cercherò di spiegare perché l’ho chiamato così), quando l’ho sentito discorrere in televisione è sempre riuscito a tenere incollata la mia attenzione alle sue sapide parole.
Dico una banalità, nel senso attestato da Salvatore Patriarca in Elogio della banalità, se affermo che si tratta di un uomo di un’intelligenza semplice e complessa al contempo, nel senso che rende (se non sempre, almeno spesso) sufficientemente semplici le complessità cervellotiche tipiche della fisica moderna in senso lato. Nel farlo, egli sa essere sim-patico, da syn (insieme), pàthos (affezione), senza essere invadente. Notevoli sono anche alcuni suoi interventi che hanno un fine etico-sociale, che in genere apprezzo e condivido.
Leggo a pagina 15: “Da qualche anno la mia ricerca si è concentrata sui buchi bianchi, elusivi fratelli minori dei buchi neri.” – o gli sono figli?
Dono alla gentile utenza due detti pixuntiani-pisciottani: crisci figli, crisci puorci e anche quannu su’ muortu tinni fai nu tianu. Quando sono morto di me ne fai un tegame. I giovani (più bianchi) hanno sempre cannibalizzato i vecchi (più scuretti, tranne che nei capelli), scavando là dove quelli hanno costruito, giungendo a distruggere fin le fondamenta.
Per la prima volta ne sentii parlare in un libro di Stephen Hawking, Buchi neri e universi neonati, nonché, pochi anni dopo, in un saggio di Lee Smolin, che tanto m’emozionò, La vita del cosmo. Ho sempre ritenuto quel Lee il fisico col sorriso più accattivante fra quelli in circolazione (nel ristretto novero di quelli che conosco), e che so d’essere stato spesso associato nella ricerca scientifica a Carlo Rovelli.
Lee mi aveva sorpreso con quella che, chissà quanto travisando, reputavo una forma, come dire, zoologica di buco bianco, in un discorso che mi parve di tipo riproduttivo di quel candido e primevo animale. Mi pare di ricordare che Lee scrivesse che, maggiore era il numero di buchi neri in un cosmo, più possibilità aveva di replicarsi Altrove. Non so dire se questa sia una mia mitopoiesi di quell’opera o il frutto di un mio fantastico fraintendimento.
Noto che Buchi bianchi di Carlo Rovelli rimbalza (it rebonds, come accadde al big bang, cioè il “Big Bounce”, com’è descritto a pagina 77), con una certa frequenza da una parte più rigorosamente scientifica a un’altra più esistenziale (di fatto entrambe lo sono, sia scientifiche che esistenziali), che ben si riconosce, oltre che dal senso testuale, dall’assenza di maiuscole, anche dopo il punto, anche nella citazione del cognome di noti scienziati. Ciò si può commentare dicendo che ognuno di noi è un singolo portatore del proprio destino, (non dell’ineluttabile Fato: ciascuna particella elutta e come!) in accordo o in contrasto col Kósmos, restando sempre solo nel cuor della terra, ma al medesimo tempo correlato (entangled), più o meno armonicamente, agli altri enti fisici e mentali.
Il tempo, ‘sto ironico sconosciuto, è un concetto che sento che mi darà da fare nella mia analisi del libro. Trovo strano, ma ci sarà sicuramente una ragione, che non sia citato il nome di Julian Barbour, che ho sempre considerato una sorta di maestro sia di Carlo che di Lee. Di lui ho sentito parlare per la prima volta forse leggendo La vita del cosmo. Nel luglio del 2000 ebbi la ventura di leggere (in inglese, come se non fossero di per sé ostici, per me, tali argomenti) il suo The end of time.
Chi ha avuto modo di vedere il film 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, si ricorda facilmente che l’antagonista (e chissà se e quanto innamorata) del protagonista era una certa Hal 9000 (se si prova a sostituire le tre lettere con quelle che seguono nell’alfabeto, si scoprirà qualcosa d’ineffabile), che era soltanto (si fa per dire) un computer che intendeva governare la nave, più del coniuge capitano Dick, il quale, per difendere se stesso e la propria missione, giunge a cancellarle gradualmente la memoria. Per dare un’idea, la moglie casalinga nel mio dialetto arşân (di Reggio Emilia), la reşdōra, cioè la reggitrice, non condivide granché col suo maritino la gestione della casa, ma tende a considerarlo, in tal senso, un dȗ ‘d cóp, un due di coppe, quando è briscola bastoni. Questa era più o meno il fine di Hal. Anche nel presente saggio quello che pare brillare di più non è tanto Carlo, ma un enigmatico e prestante fisicaccio di nome Hal.
“Marsiglia. Hal è nel mio studio…” – scorrendo l’Indice analitico, noto che Hal è citato 11 volte e più di lui c’è Albert Einstein e forse nessun altro. Hal non sembra avere un cognome, si sa solo che “è americano” e, dice Carlo: “credo che abbia un po’ di sangue cherokee…” – e sono descritti alcuni elementi della sua vita di “studente” e, in seguito, di docente “in un college”. Al momento dell’incontro era o pareva “un ragazzo molto maturo” – che darà a Carlo alcuni geniali suggerimenti di cui quest’ultimo farà tesoro.
Si tratta di una fiction? Sì.
Anche l’io narrante di Henry Miller, uno dei più genuini autori-di-se-stessi che abbia mai letto e anche quello dei romanzi di Charles Bukowski sono di tipo complesso, in parte reali e in parte immaginari. Ne approfitto per chiedere al primo fisico che passa, com’è possibile che certe equazioni illuminanti della meccanica quantistica richiedano per froza ‘sti numeri complessi?…
Com’è mia costumanza, sto andando fuori tema, off topic, come dicono, un po’ rosicchiando, gli anglofoni.
Detto ancora inter nos: le mie reazioni (intese come articoli) sono fiction, non meno del presente saggio e dei gustosi romanzacci dei due autori succitati.
Il testo, specie nelle sezioni autobiografiche, riporta numerosi versi tratti dalla Commedia dantesca, (una sorta di leitmotiv), nonché efficaci citazioni, a volte dissimulate, tratte da opere scritte (per esempio ce n’è una o due di Leopardi), o cinematografiche (per esempio Blade Runner).
“Torniamo a Schwarschild…” – che è forse il dono più tragicamente bello che ho tratto da questa lettura. Egli fu quel matematico straordinario che per primo (poi capitò a Kurt Godel se non erro) risolse la celebre equazione di Einstein e “che morirà pochi mesi dopo, a seguito degli stenti della guerra sul fronte orientale”. Karl Schwarschild, d’ora in poi sarai un mio mito!
Non cesserò mai di ripetere che la guerra è uno dei peggiori cancri che si possano immaginare, come pure l’ingiustizia sociale fortemente voluta da quegli agenti patogeni che rappresentano il ristretto club planetario di chi possiede troppo (oltre il 50% delle risorse, pur ammontando ad appena l’1% della popolazione mondiale), e che entrambi gli obbrobri sono perpetrati principalmente ai danni di chi non ha quasi nulla, se non la propria gemente anima umana; nonché del pianeta stesso: ennesimo off topic, che forse solo Carlo Rovelli potrebbe perdonarmi.
Non so perché, ma tanto ammiro la frase che colgo a pagina 20: “Non si diventa Einstein se non si ha il coraggio di pubblicare cose sbagliate.” – Rosalinda Borghi, la mia saggia mammina, diceva che sòul chi fa’ i lavòur e sbàja – e io posso dire che se un lavoro non è insaporito con qualche mezza cantonata (a volte basta anche solo un pizzico) non errerà (nel senso di tirar innanzi) nella miglior direzione. Inoltre, quell’inesattezza servirà da appiglio a chi seguirà ad operare nella medesima direzione. Questo vale, come suggerisce Jorge Borges, in ogni opera scritta, che se risulta carente di finzioni, poco attrarrà l’umana attenzione, e ostacolerà il cammino nel sentiero letterario. Questo di Carlo Rovelli, pare un docu-film, in cui la fiction è limitata a certi, pur essenziali, punti: tipo Hal? Io ho molta fiducia (e un certo grado di diffidenza) nei confronti di Carlo.
Egli scrive, a pagina 21: “A metà del cammino, dovremo abbandonare la guida rassicurante di queste equazioni e farci incantare da qualcosa di più dolce. Lo fa anche Dante, in fondo, a metà del suo viaggio: anche lui lascia Virgilio e si fa catturare da qualcosa di più dolce.” – la cerulea Beatrice. Che quell’Einstein sia un geniale collega di Publio Virgilio Marone?
Amo l’inquietante semplicità della prosa di Carlo, per esempio quando scrive: “Se la massa è estremamente concentrata, le si forma intorno un guscio, una superficie sferica, dove tutto diventa bizzarro…” – e dove “… Il tempo congela” – mentre “Lo spazio, dal canto suo, si estende nella direzione della massa, stirandosi come un imbuto…” – nel mentre, “i punti subito all’interno di essa sono già infinitamente lontani”.
E qui Carlo rischia grosso quando afferma che Albert talvolta sbagliava: non riesco a criticarlo per questo, semmai a elogiare il suo rispettoso dissenso. Lascio al lettore del suo lettore l’impegno di appropriarsi delle successive spiegazioni. Leggere questo è: far proprio, falsificandola in senso popperiano, la doxa altrui. Carlo falsifica Albert, e io non posso fare altrettanto con lui, poiché alcune sue considerazioni sono troppo complesse (e inaudite) per essere accolte o rigettate in toto così come son scritte, ma vanno meditate e rimeditate; anche se dubito che la mia esistenza e la mia intelligenza mi potranno mai bastare.
“Così la stella sprofonda fin dentro il suo orizzonte. Si è formato un buco nero.” – Auguri! E qui ci vorrebbe l’emoticon col faccino che suona la trombetta!
Durante la “terza revisione d queste pagine”, a Carlo capita di vedere pubblicata l’immagine di un “buco nero” e la cosa non può che emozionarlo. Anche a me, solo che è ora di pranzo, e vi saluto. Bene.
Chiarissima mi pare la spiegazione di quel che succede ancora/non succede più allorché un ente s’intrufola “dentro l’orizzonte del buco nero” – ma la mia non dev’essere una sinossi di tanta scienza che, lo garantisco, è abbastanza chiara in certi punti e (per me) esoterica in altri: non nel senso che è mistica, ma che l’ignoranza (per fortuna) non mi consente mai di cogliere il tutto.
Riporto solo un dato: “Il calcolo di Finkelstein mostra che se ci avviciniamo all’orizzonte e lo oltrepassiamo, i nostri orologi non rallentano e non succede nulla di strano allo spazio attorno a noi.” – e anche noi, ora, siamo strani (e straniti!). Per smorzare la tensione mi scappa detto che per i romanisti i tifosi della Lazio sono detti gli strani. Per continuare la burla dico che, per alcuni tifosi, i laziali “orologi effettivamente appaiono rallentare e fermarsi arrivando sull’orizzonte”. Mistero? Sì, antro segreto ma non inaccessibile. Per avere la chiave d’accesso occorre studiare per tanti anni la fisica, oppure fidarsi da chi l’ha fatto al posto tuo.
Cerco una mia ipotetica terza via: senza mai fidarmi, ascolto chi ne sa più di me. Poi, dentro di me, deciderò cosa pensare: Enten-Eller, diceva Søren Kierkegaard, traducibile con Aut-Aut, sì/no, acceso/spento, 0/1. Un segreto potrebbe essere il lasciare accesa una scintilla che favorisca il prosieguo dell’eventuale lettura.
Interessante affermazione a pagina 39: “Siamo sempre convinti che le nostre intuizioni naturali sono giuste: è questo che ci impedisce di imparare.” – forse di errato c’è quel participio passato, che, se è passato potrebbe non ripassare più, essendo errato chissà dove. Inoltre: “La difficoltà quindi non è imparare, è disimparare.” – il libero pensatore (una degli autori meno mistici che abbia mai letto) Jiddu Krishnamurti suggeriva di porsi Al di là del conosciuto – titolo di un suo saggio – il che non significa gettare nel pattume le proprie esperienze, quanto di non farsi condizionare da esse al punto di perdere una parte eccessiva dell’attenzione rivolta all’esterno.
Dopo di cui, a pagina 45, forse comprendo un fatto che m’era sconosciuto: “La geometria dello spazio all’interno del buco nero, giù nel cieco mondo, è veramente simile a quella dell’inferno dantesco. Pensate a un imbuto…” – e qui tronco il riporto, non per sadismo, ma perché il resto un po’ riesco a intuirlo e un po’ no. Ogni fatto è spiegato in modo più che chiaro, ma è la mia cervice che ha la scorza dura. Aggiungo solo che “Più il buco nero è anziano, più il suo interno è lungo.” – e assomiglia, come si diceva, a un “imbuto”. Ma qui: “La teoria di Einstein, la nostra guida sicura, ci lascia.”
Non vorrei ex-agerare, ma pare che: “La regione singolare, la regione quantistica, quindi sta nel futuro, dove il tubo si schiaccia su una linea e diventa infinitamente lungo.” – mentre “La singolarità non sta al centro: sta dopo…”.
Come Anassimandro – genio che, grazie a alcune spiegazione riportate, finalmente capisco quanto sia immenso – al fisico moderno non resta che “viaggiare con la mente” – essendo quella singolarità, per sua natura, niente affatto annichilente, anzi, è rigidamente conservante come se fosse una specie di Library of Congress di Washington, in un continuo e preciso passaggio di consegne e di informazioni, da questi straordinari grovigli di particelle fermioniche: Keplero, Copernico, Einstein, Maxwell, ognuno soggiacente e contrastante all’altro, e tutti i fisici moderni soprattutto da Einstein. – e questa deve essere la Scienza: una scala che reca all’infinito.
Da ciò deriva un’ulteriore suggestione da mantenere in ogni speculazione intellettuale: “È possibile trovare il nuovo anche a partire da cose che sappiamo già, facendo leva sui dettagli che non tornano” – poiché “La nostra struttura concettuale non è né definitiva, né l’unica possibile.” – e questo lo sottoscrive Popper quando insegna che la teoria scientifica, diversamente da quella religiosa, è sempre falsificabile, anche quando sia realizzata dalla mente di un genio come Isaac Newton, che fu altrettanto genialmente falsificato da Albert Einstein. Quel che pare essenziale è il rispetto dovuto a chi cerca di comprendere quel che ancora non è stato descritto o spiegato.
Come amo la scienza!, ma purtroppo sono indolente e preferisco scrivere. Per cui sono pronto a donare all’autore un detto materno: tōt i cajòun a gh’ân la só pasiòun: e ogni traduzione sarebbe assurda per tutti, tranne appunto per chi è… eccessivamente appassionato. A tutto c’è un limite.
Grazie a un lavoro svolto insieme a Lee, Carlo individua “la matematica delle spin networks, e lo spazio granulare che descrive, applicando tecniche di teoria quantistica alla relatività generale…” – e questo non può che affascinarmi.
Ricordo all’autore che il movimento dei Sikh nacque per conciliare alcuni elementi della fede induista e di quella islamica. Con la conseguenza che molti dei loro adepti furono perseguitati da fanatici di entrambe le schiere, tanto che (agli uomini solo credo) è concesso loro di recare indosso un pugnale per difendersi da chi non intende conciliarsi con alcuno. Questo è il rischio della gravità quantistica a loop, propugnata da Carlo e dai suoi colleghi che, da quanto m’è parso di comprendere, è più disprezzata a priori che verificata. Essendo di natura pettegola, mi permetto di segnalare che un fisico (operante oggi in Iran) amava chiamare tali fisici lupparoli, ma solo al fine di distinguerli dagli stringaroli (che sono di tutt’altra sembianza).
“Se lo spazio è granulare, l’interno di un buco nero non può schiacciarsi fino a diventare più piccolo dei singoli grani.” – la mia critica da ignorante bramoso di capire è: come si fa a dire che lo spazio è sempre e in ogni caso granulare? E, mi pare d’aver capito, looping, luppante?! Trattasi di teoria scientifica e non religiosa, immagino…?
“… le cose non hanno sempre proprietà definite. Una particella non ha sempre una posizione.” – e questo lo diceva anche Bohr, non uno qualsiasi – “Ha una posizione nel momento in cui urta un’altra particella e arriva su uno schermo.” – diversamente sarebbe un’onda, o sbaglio?
Il frequente alternare fra un discorso molto scientifico ed uno esistenziale, mi fa venir in mente una canzone di Mogol-Battisti: Pensieri e parole: “sto rileggendo queste righe per l’ennesima revisione. sono a verona, nella piazza che ha il nome del poeta. davanti a me la sua statua austera…” etc etc – e poi: “Divago. Torniamo al passaggio dal buco nero al buco bianco…”. Size doesn’t matter, almeno per quanto riguarda le maiuscole.
Carlo passa ora a confrontare il buco nero, che tutto attira dentro sé, e quello bianco, che tutto espelle da sé (ho banalizzato io, in questo caso).
L’ultima parte è la più ardua da capire, ma si può sempre leggere, rileggere e infine grattarsi la testa.
“… la chiave dell’idea suggerita da Hal era il tempo: un buco bianco è un buco nero con il tempo ribaltato.” – lo chiedo per l’amico più chiaro e luminoso che ho: intende dire nel decrepito non più luogo, ove l’entropia finisce per decrescere fino ad annullarsi?
Tu, Carlo, ora scrivi che “Passato e futuro sono diversi.” – e tralascio di trattare la questione di quanta informazione rimanga in un buco nero evaporato, a causa della radiazione di Hawking che a esso, per ragioni quantistiche, è riuscita a sfuggire. Chissà dove finirà? Forse in qualche altro buco nero? Oppure, paradossalmente, in uno più biancolino?
A pagina 101, distingui i tipi di lettori; semplifico: I troppo e i pochissimo sapidi. Avendo leggiucchiato, da ignorante, una trentina di libri di fisica appartengo forse alla “categoria intermedia”? – no!, vedo ora che a essa appartengono “gli studenti di fisica” – e “le peggiori recensioni che ricevo vengono da loro.” – il che senz’altro mi rinfranca.
“La radiazione di Hawking può ridurre l’orizzonte fino a farlo diventare piccolissimo. A quel punto la distorsione dello spaziotempo intorno all’orizzonte è molto grande” – per cui, quantisticamente, “la probabilità del salto da nero a bianco diventa molto grande: il salto avviene.” – non sono sicuro di aver capito, ma faccio finta di niente. L’importante è sperare di aver colto almeno una porzione del discorso. Per esempio non comprendo perché “Il buco bianco non ha energia per ricrescere. Resta piccolissimo…” – dopo di cui conviene dirgli Ciao, chissà a quando, Candido Ente! Non so però che fine abbia fatto quel che pensavo di aver capito leggendo i libri citati di Hawking e di Smolin.
Interessante è la metafora descritta a pagina 107, che confronta quanto accade nel rapporto “passato e futuro” e la vetta del Monte Bianco, che non è in assoluto a nord e a sud di alcunché, ma solo rispetto, per esempio, a un arrondissement di Parigi o a un quartiere di Roma: “Anche per una stella di Planck è così.” – che altro non è che “la stella che sprofonda nel buco nero.” – così spieghi a pagina 77.
Informo (sempre nell’essenziale spirito dell’off topic) che, per certi francofoni, tutto il Monte Bianco è francese, e che di italiano c’è solo le groupe de touristes, ma questa è tutt’un’altra, deprecabile, storia. Franchi vs Italici, come Relativisti vs Quantistici, come… beh, lasciamo perdere!
Capisco il concetto descritto nella pagina seguente: “… il passato è radicalmente diverso dal futuro: è determinato, mentre il futuro è indeterminato…” – ove s’ignora sempre dove vada a sbattere la particella?
Questo nel mio attuale presente (mirabile pleonasmo) mi sta sfuggendo (ma confido nel fatale e illusorio scorrere del tempo): “Il motivo per cui ricordiamo il passato, e non il futuro, sta interamente nel fatto che l’universo era più lontano dall’equilibrio in un momento del passato di quanto non lo sia ora.” – forse… ma (ed è una mezza piolata, anzi una piolata e mezzo), pensando al governo in Italia di un secolo fa e a quello odierno, faccio fatica ad accettare in toto il discorso.
Il futuro sarà più equilibrato e meno confuso allora di ora? A che ora esattamente? O non esistono orologi così perfettamente precisi? Ogni tanto penso alla gustosa scenetta sul filma tratta dal film 32 dicembre di Luciano De Crescenzo.
Ogni mia “decisione” – ogni mia scelta fra Enten-Eller, mia e di tutti gli altri enti, secondo il fisico statunitense Hugh Everett III, finisce per creare un altro cosmo, come afferma la sua teoria dei multiversi. Ma che fine ha fatto, ‘sta poverella?
Non mi turbo affatto a “scoprire che passato e futuro sono solo fenomeni prospettici…” – né ad accettare la tua metafora del sole che sembra tramontare (un bel giorno fatti portare a Pixuntum/Pisciotta verso settembre e vedrai che bello!), né che “in un universo in equilibrio, come nella vasca dopo che si è acquietata l’onda, nessun fenomeno ci permetterebbe di distinguere il passato dal futuro” – ma che questo possa interessare a chi, per sua fortūna (nel senso latino di sorte), se egli vivrà in un assoluto ordine, sia interiore che esteriore. Sarà anche una specie di Paradiso, ma al momento non ho alcuna voglia di incontrare Beatrice, condividendo più interessi col mantovano deceduto a Brindisi.
Carlo: ti chiedo a che sorte destini La fisica dell’immortalità di Frank J. Tipler: eppure sento che qualcosa di lui è rimasto nei tuoi pensieri (anche se non ho idea di quanto tu l’abbia letto o studiato). Anche lì si parla di informazioni che possono, anzi, che inesorabilmente dovranno essere mantenute per l’eternità, covate e poi resuscitate all’interno di un mistico luogo. Ma sono troppi gli anni che mi separano da quell’emozionante lettura, per cui è meglio per tutti che cambi argomento. E subito mi contraddico: in quell’opera, se non dico sciocchezze, c’era un interno e un esterno che finivano per comunicare e per scambiarsi le proprie informative esistenze.
La tua lettura mi ha lasciato i dubbi che avevo sul mondo. Alcuni esempi: cosa ne pensi delle z – questions di Roger Penrose? Esistono le particelle virtuali? Se sì, esse sono attratte, oltre l’orizzonte degli eventi, verso l’interno di quel coso nero? Cosa c’è e cosa de-cede al di sotto dello spazio di Planck? Lo spazio-tempo è continuo o discontinuo? Nell’atto di ricevere l’informazione del corpo che entra dove farebbe bene a non entrare, quel coso necessariamente la deforma?
Concludo con questa tua ipotesi (facente parte della sezione narrativa del tuo libro): “una parte della materia oscura potrebbe forse essere costituita proprio da miliardi e miliardi di questi piccoli, delicati buchi bianchi, che ribaltano il tempo dei buchi neri, ma non troppo, e fluttuano lievi nell’universo, come libellule…” – i puntini sono tuoi, l’immagine è ora entrata di me.
Non te l’ha mai detto nessuno che un lettore nulla è se non un infido white hole, che ha succhiato una parte (mai tutta) dell’informazione (ovviamente interpretandola, traducendola, deformandola), presente in un’oscura opera, che potrebbe invece, dal canto suo, rappresentare un assai attrattivo black hole?
Nel tuo io mi sono sentito riflesso e ho acquisito quanto più ho potuto e questo, per oggi, può bastare a entrambi. A buon rendere, non so quando. Facciamo ora?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Carlo Rovelli, Buchi bianchi, Adelphi, 2023
Un pensiero su ““Buchi bianchi” di Carlo Rovelli: la scienza è una scala che reca all’infinito?”