“L’essere e il nulla” di Jean-Paul Sartre: la fuga dall’angoscia è un modo per divenirne coscienti

Nel Menone di Platone si narra di Socrate che, amabilmente chiacchierando con uno schiavo abbastanza a digiuno di fatti culturali, ponendogli le sue argute domande, riesce a condurlo a partorire una specie di verità (maieutica).

L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre
L’essere e il nulla di Jean-Paul Sartre

Ho letto una ventina di pagine del saggio “L’essere e il nulla” di Jean-Paul Sartre e fino a ora non ho colto, ma forse non sono stato attento, alcuna domanda, ma solo delle rigide affermazioni, che m’hanno fatto sorgere numerosi interrogativi, a cui ancora non so e forse mai saprò rispondere. Sarà intrigante provarci. È il bello della lettura. Quel che non comprendi di essa te lo puoi inventare di sana pianta.

In ogni libro c’è una chiave da cercare (in genere è lo scrittore che l’ha smarrita), anche in questo, dopo di cui tutto appare più semplice e diretto. Di ciò ebbi l’intuizione leggendo Kant e l’ornitorinco di Umberto Eco. La prima parte mi parve quasi incomprensibile, ma a poco a poco mi abitui a quello strambo discorrere, come accade a un alpinista quando affronta una ripida erta. L’importante, nella vita, è stare costantemente all’erta.

In Breve storia del tempo, Stephen Hawking riporta una frase di Wittgenstein: “L’unico compito restante per la filosofia è l’analisi del linguaggio”. Come dire che Pitagora poteva solo discutere di triangoli, Cantor di infiniti e Gauss di numeri nonché di stelle del firmamento. Qual era l’argomento principale dello studio di Hawking? Era un ente a cui non si era mai avvicinato, e neanche potendo l’avrebbe mai fatto, perché sarebbe stato attirato inesorabilmente nel black hole (sito oltre l’orizzonte degli eventi). Lo stesso vale per ogni sorta di studioso. Per quanto abbia approfondito una materia non potrà mai dire di sé di essere entrato nell’imo di essa.

Jiddu Krishnamurti predicava nel suo Ashram che occorreva vedere la realtà rinunciando al proprio pregresso conosciuto. Era andando al di là di esso che era consentita una più esatta visione delle cose. Ho provato a capire questo messaggio e sono riuscito a produrre la mia interpretazione. Il che non significa che ogni studio e conato cognitivo sia foriero di confusione, ma che bisogna tenere a bada la propria conoscenza, facendo in modo che essa non renda fallace la visione della realtà. Chissà che ne pensa a proposito Raffaele Catà, autore di La terra senza sentieri, saggio dedicato al (del tutto affrancato? ma da che?) pensatore indiano.

Il primo interrogativo lo colgo nella dedica: “au Castor” – chissà se scioglierò prima o poi tale spinoso enigma?!

La prima parte del saggio è Introduzione – Alla ricerca dell’essere. Nel primo paragrafo Sartre parla de L’idea di fenomeno. Scrive: “Fino a che si è potuto credere alle realtà noumeniche, si è presentata l’apparenza come pure negatività.” – quel pure è un pleonasmo? L’apparenza può, appunto, apparire come un insieme di tanti significati. Serve ancora un chissà…!

“… noi possiamo ugualmente rifiutare il dualismo dell’apparenza e dell’essenza. L’apparenza non nasconde l’essenza, la rivela: è l’essenza.” – come dire che una foto è la cosa fotografata?

“Al nominalismo di Poincaré, che definiva una realtà fisica (la corrente elettrica, per esempio), come la somma delle sue diverse manifestazioni, Duhem aveva ragione di opporre la teoria che fa del concetto l’unità sintetica di queste manifestazioni.” et sic transit gloria observationis mundi: da una singolarità, dopo una specie di esplosione (il big bang è ancora in gran parte un mistero), si è sviluppato un Kósmos (termine che significa Ordine) sempre più capillarmente diffuso e inevitabilmente caotico. È come se questo fosse l’ordine-disordine: disperdetevi particelle!

Secondo la teoria scientifica dell’entanglement, quando due particelle hanno comunicato fra loro il loro stato, saranno per sempre correlate e le proprie informazioni saranno interscambiate non secondo le regole della quantità di moto, ma istantaneamente (più rapidamente della luce, che pare sia l’ente più veloce). È un mistero a cui nessuno, finora, ha dato una soluzione. Ergo tutto il Kósmos è Uno, anche se di fatto bipolare, caotico e irreversibilmente divisibile.

“L’esistente, in effetti, non può ridursi ad una serie finita di manifestazioni, perché ciascuna di esse è un rapporto con un oggetto in perpetuo cambiamento.”il Kósmos è non infinito ma illimitato, in quanto si spinge sempre oltre sé. Secondo le tesi del fisico britannico Julian Barbour, per cui il tempo e lo spazio non esistono, come lo intendiamo noi, si può immaginare che tutti gli stati del Kósmos, dalla primeva fuoriuscita e dalla successiva singolarità, siano ancora esistenti da qualche parte, e li immagina come appesi a un filo, come quasi infinite cannuccedde, per l’eternità. Di fatto ogni fenomeno appare, secondo la relatività einsteniana, diverso a seconda dell’osservatore. Bohr afferma che la particella esiste solo quando la si attesta. Rileggo il Capitolo XIV di Quantum di Manhit Kumar: secondo Bohr, “un atto di misurazione causa una perturbazione fisica, e, poche pagine più in là, leggo ancora: finché non viene compiuta una misurazione, né l’elettrone A né l’elettrone B hanno uno spin preesistente in nessuna direzione”: non girano? Girano senza esistere? Che significa esistere? Che ne pensa (immagino sempre tuttora esistente, nonché appeso a quel filo, l’autore che leggo) quel minuscolo ente chiamato Jean-Paul Sartre?

Frank J. Tipler, fisico americano, più o meno simile nella stazza, ipotizza in La fisica dell’immortalità, la possibilità di riprodurre (virtualmente?) tutti gli stati accaduti e memorizzati in un qualche modo dalla macchina cosmica. Sartre scrive: “… se la serie delle apparizioni fosse finita, significherebbe che le prime apparse non hanno più la possibilità di riapparire, il che è assurdo, o che potevano essere date tutte in una volta, il che è più assurdo ancora.”

Leggendo le opere di fisica e di cosmologia, mi sono spesso reso conto che l’assurdo è un dato scientifico al momento inesplicabile, ma necessario. Una particella emessa, anziché andare a completare la sua esistenza, va a sbattere lì, anziché là. Secondo il fisico Roger Penrose questa sua finale indeterminatezza è una z mistery, a cui al momento non v’è soluzione. La teoria di Hugh Everett III, fisico yankee, conduce alla possibilità di infiniti universi immaginari (IMM), dove ogni probabilità di tragitto conduce alla nascita di un nuovo Kósmos, ignaro degli altri.

Ognuno ha la supponenza che si merita, e questo vale sia per i fisici che per i filosofi. Ergo anche per lo schiavo che sonnecchia in me e che, talvolta, di notte, si sceta urlando.

“… l’apparizione che è finita indica se stessa nella sua finitezza, ma esige, nel medesimo tempo, per essere colta come apparizione-di-ciò-che-appare, dev’essere superata verso l’infinito.” – la quale assurdità collima stranamente con quelle indicate dai citati scienziati.

“… ‘il finito e l’infinito’, o meglio ‘l’infinito nel finito’, si sostituisce al dualismo dell’essere e dell’apparire: ciò che appare, infatti, è solamente un aspetto dell’oggetto e l’oggetto è tutto intiero in questo aspetto, e tutto fuori di esso. Tutto dentro in quanto si manifesta in questo aspetto: e si indica come la struttura dell’apparizione, che è nel medesimo tempo la ragione della serie” – il fisico quantistico aggiungerebbe: l’osservatore muta nell’osservazione l’evento osservato. Anche la particella muta, sempre quantisticamente, il suo osservatore.

“Tutto fuori perché la serie non apparirà mai, né può apparire…” – se non a se stessa?

“Il genio di Proust, pur ridotto alle opere prodotte, non equivale meno all’infinità dei punti di vista possibili che si potranno assumere attorno a quest’opera e che saranno chiamati “l’inesauribilità’…”o il groviglio interminabili di sentieri che si biforcano. Secondo Jorge Borges, ogni lettore continua, a modo esclusivamente suo ma se lo riporta, dico io, anche degli altri, la narrazione dell’evento già narrato dal primitivo autore. Anzi, non esiste un primitivo autore, o forse è il primo che scolpì un graffito sulla prima pietra? O colui che articolò la prima parola? O l’uccellino che, col suo canto, ha suggerito alle prime scimmie la possibilità di dialogare fra loro? O andiamo più indietro ancora di alcune decine di miliardi di anni?

“Se l’essenza dell’apparizione è un apparire che non si oppone ad alcun essere, sorge il problema legittimo dell’essere di questo apparire. È questo il problema che ci occuperà ora…”.in assenza di altri più urgenti?

“L’oggetto non possiede l’essere, la sua esistenza non è una partecipazione all’essere né qualche altro tipo di relazione. L’oggetto è, ecco l’unica maniera di definire il suo modo di essere.” è in relazione col tutto? Col Tutto? E col Nulla?

“… la coscienza è l’essere conoscente in quanto è, e non in quanto conosciuto…” – come detto poc’anzi, la sua esistenza è continuamente mutata da chi l’osserva, che ella muta a sua volta. La coscienza è un via via di sinapsi, di fenomeni elettrici e chimici… E null’altro?

Scrive ancora: “… la coscienza esiste da sé.” – correlato al resto del Kósmos, oppure no?

“La coscienza non ha nulla di sostanziale, è pura ‘apparenza’, esiste in quanto appare…” – e le sue sinapsi non possono essere svincolate da tutti i legami che le sono fuori. Perché non può esistere, penso, un fuori assoluto. Domanda da neofita: esiste nel Kósmos un assoluto? Un Dio esterno alla nostra indagine? Possibile che si ricada sempre ?

“Può sembrare che il termine della nostra ricerca sia stato raggiunto…” – in tal caso non lo è affatto, né lo può essere in alcun modo, sennò sarebbe una summa teologica, non una logica umana. – “Invece noi siamo pervenuti ad un essere che sfugge alla conoscenza…” – meno male, che ha ancora della birra in corpo!

“… c’è un essere della cosa percepita in quanto è percepita…”nell’attimo sfuggente o nella continuità?

“… in quanto il conosciuto non può essere assorbito dalla conoscenza, bisogna riconoscergli un essere. Riconosciamo subito che l’essere del percipi non può ridursi all’essere del percipiens…” – e questo mi dà da pensare. Se io percepisco la sua esistenza, se le mie particelle fanno ciò, anche le sue si comportano in modo analogo. La differenza è che io ho neuroni, sinapsi, e lui no. O è altro?

“La coscienza è coscienza di qualche cosa; ciò significa che la trascendenza è struttura costitutiva della coscienza, cioè la coscienza nasce rivolta a un essere che non è essa. È ciò che chiamiamo prova ontologica.” – e mi chiedo ora che ne pensi tu, Jean-Paul Sartre di Hilary Putnam, e lui di te. Putnam fatica a trovare la certezza di non essere un cervello immerso in una vasca, che crede di vivere nel mondo (una cosa tipo Matrix, capito?). Ah, te ne sei andato prima dell’uscita del film, scusa! Ho un profondo rispetto, nonché un legittimo sospetto circa la certezza con cui formuli le tue (posso chiamarle così?) gelide diagnosi: “la coscienza è un essere per cui nel suo essere si fa questione del suo essere in quanto questo essere ne implica un altro distinto da sé.” – è semplice, no? Quantomeno è logico, se è poi vero non so.

“Ma abbiamo anche dimostrato, mediante l’esame della spontaneità del cogito non riflessivo, che la coscienza non può uscire dalla sua soggettività…”e allora torno a pagina 18, quando scrivevi: “… è la coscienza non riflessiva che rende possibile la riflessione; c’è un cogito preriflessivo che è la condizione del cogito cartesiano.” – il che mi dà per pensare. Una teoria religiosa non necessita di falsificazioni. Una scientifica è tale solo se è concepibile una sua negazione/correzione. Una teoria religiosa necessita semplicemente (o complessamente) di una sua logica non contraddittoria. Non importa altro che sia logica per sé e che per lei vada bene così! Il dogma della Trinità e dell’infallibilità papale non vanno contro i Vangeli, in cui quegli argomenti non sono trattati.

“L’essere è. L’essere è in sé. L’essere è ciò che è.” – tutto ciò è da attribuire al tramite il “fenomeno di essere” per giungere “all’essere dei fenomeni”. Tutto questo riguarda il filosofo, l’uomo in genere, compreso quello che non sa quasi di esistere, oppure al Kósmos intero?

“Ciascuna domanda presuppone dunque un essere che interroga ed un essere che è interrogato.” – anche l’inquietante quesito: chi sono io?

“… la domanda implica l’esistenza di una verità.” – la fisica modellistica (difficile da spiegarti cosa sia: uno scienziato propone modelli logici, ma è disposto a mutarli nel tempo) Lisa Randall dice che ogni misura fisica deve essere giudicata per il suo grado di approssimazione, anziché per la sua certezza. La quale deve essere verificabile al 100%, diversamente è incerta. Nella fisica quantistica predomina l’idea dell’indeterminatezza. E non è consentita una frase del tipo di quella che tu indichi a pagina 39: “È così e non altrimenti.” Quando Bergson, Hegel e altri (fra cui tu) parlano di vuoto, lo sanno che esso in fisica esso non esiste? Se tu immagini il nucleo di un atomo come un pallone sito a centro del campo, i primi elettroni sono come i giornalisti della Gazzetta seduti in tribuna. Poi ci sono quelli più distanti, che sono magari in smart working nella città vicina. Il vuoto è percorso da queste ondate di energia bisonica. Il vuoto più vuoto brulica (continuamente?) di particelle virtuali, che non esistono, ma che taluni scienziati immaginano siano così energetiche che determinano la formazione di quelle reali. Bohr! Scusa il refuso, intendevo esclamare Boh!

Leggo con diffidenza la frase: “Ora l’essere è vuoto di ogni determinazione, tranne che dell’identità con se stesso; ma il non-essere è vuoto d’essere. – perché “l’essere è ed il nulla non è.” – ciò è? Cioè?

“… ed il reale diventerà, per così dire, la tensione risultante di queste forze antagoniste. È verso questa nuova concezione che si orienta Heidegger.” – il quale non poteva non sapere che il suo ex dirimpettaio Albert Einstein aveva riscontrato questo: E = mc2: l’energia è antagonista alla massa, e la massa all’energia, in quanto s’alternano fra loro. Più una particella è massiva, più energia è servita a crearla, meno durerà e prima restituirà il favore, ridiventando energia.

“Il nulla è all’origine del giudizio negativo, perché è esso stesso negazione. Fonda la negazione come atto, perché è la negazione come essere.” – abbiamo visto che il nulla è positivo, poiché grazie alla sua virtualità causa l’esistente.

Io non sono Jean-Paul Sartre, poiché egli non è me, essendo in tutt’altre faccende affaccendato. Noi due conteniamo tanti enti quante virtualità. Siamo pieni di vuoti che creano pieni forieri di vuoti.

“Il nulla non può essere nulla, se non annullandosi espressamente come nulla del mondo: cioé dirigendosi espressamente, nel suo annullamento, verso questo mondo, per costituirsi come rifiuto del mondo. Il nulla porta l’essere in grembo.” amo l’ultima frase, le altre meno, perché fatico a capirle. Il nulla non è, ma causerà l’essere. Ti va bene questa mia stramba affermazione?

“L’uomo è l’essere per cui il nulla viene al mondo.” – l’ameba no? Poi parli di “paura di aver paura…” – e di “angoscia” – che non sono sentimenti da ameba, semmai da gattino affamato o da cagnolino abbandonato in autostrada. Oh, quei disgraziati quadrupedi ci sono stati troppi vicini e li abbiamo infettati.

“La frase che scrivo per es. è il significato delle lettere che traccio, ma l’intera opera che voglio creare è il significato della frase.” – non esiste un’intera opera, diceva Borges (ma un po’ lo re-invento) finché esiste un umano; il libro complessivo non sarà mai completato, almeno finché esisterà un lettore e uno scrittore: come quell’energia che diventa materia e viceversa.

Prima d’occuparci del passaggio dell’“essere nel nulla”, o della “posteriorità del nulla”, “si metterà, al contrario, l’accento sulle forze reciproche di repulsione che essere e non-essere esercitano l’uno sull’altro, ed il reale diventerà, per così dire, la tensione risultante di queste forze antagoniste.”in modo analogo a quanto accade a energia e massa?

“Il nulla è all’origine del giudizio negativo, perché è esso stesso negazione. Fonda la negazione come atto, perché è la negazione come essere. Il nulla non può essere nulla, se non annullandosi espressamente come nulla del mondo: cioé dirigendosi espressamente, nel suo annullamento, verso questo mondo, per costituirsi come rifiuto del mondo.” – se si dirige significa che ha del carburante, dell’energia. Da dove l’ha ricavata? Chi è il Dommo Distributore? Dov’è allocato?

“… se il nulla non può essere concepito né al di fuori dell’essere, né a partire dall’essere, e se, d’altra parte, essendo non-essere, non può trarre da sé la forza necessaria per ‘annullarsi’, donde viene il nulla?” – io chiederei anche: viene oppure è già lì?

“E l’angoscia sono io, perché per il solo fatto di esistere come coscienza d’essere, mi faccio non essere questo passato di buone risoluzioni che sono.” – e questi non sono argomenti da quadrupedi!

“Nell’atto di tracciare le lettere che scrivo, la frase intera, ancora incompiuta, si rivela come esigenza passiva d’essere scritta.” – non so che dire, anch’io lo penso, ma mi manca la tua certezza.

“L’angoscia di fronte ai valori è riconoscere la loro idealità.” – che tanto supera nel valore la nostra anima?

“Paura”, “angoscia”, “menzogna”, “malafede”, “fuga” sono le tematiche che interessano il filosofo.

“Insomma io fuggo per ignorare, ma non posso ignorare che fuggo, e la fuga dall’angoscia è solo un modo di divenire coscienti dell’angoscia, così, a dire il vero, essa non può essere né nascosta né evitata.” – questioni psicologiche tipicamente umane, non da pets domestici, non particellari.

“Con la menzogna, la coscienza afferma di esistere per natura come nascosta ad altri, di utilizzare profitto proprio la dualità ontologica dell’io e dell’io in altri.” – essendo ognuno solo nel cuor della terra e bisognoso di occultare i propri moti psichici.

“Non può essere lo stesso per la malafede, se, come dicemmo, questa è propriamente menzogna a sé.” – non è facile né immediato mentire a se stessi. E “pare dunque che io debba essere in buona fede almeno in questo, che sono cosciente della mia malafede.”

Leggo, a pagina 93:Sapere, è sapere che si sa, diceva Alain.” – mentre, a pagina 52, avevo letto: “Socrate stesso con la sua famosa frase: ‘So di non sapere niente’, indica con questo niente proprio la totalità dell’essere considerata come Verità.” – da cui deduco, pur con forti dubbi, che ognuno conosce un pezzo della propria verità, ma non tutta la Verità di sé. Noi siamo l’argomento che meno disconosciamo, e forse nemmeno sempre. In genere sì. Forse.

Svilisci spesso il valore della psicanalisi, troppo variegata, duplice, triplice… e dici che quelli “hanno messo capo soltanto ad una terminologia verbale.” – tu non corri mai questo rischio?

Gli psicanalisti danno retta, matita e notes in mano, alle parole dell’uomo, in genere disteso su un lettino; tu chi ascolti, se non te stesso? Il che non significa che tu abbia torto…

“Se la malafede è possibile, è perché essa è la minaccia immediata e permanente di ogni progetto dell’essere umano…”homo homini vulpes“… e perché la coscienza nasconde nel suo essere un rischio permanente di malafede.” – e con questo problema da nulla termina La parte prima Il problema del nulla. E inizia la Parte seconda L’essere per sé. Queste congiunzioni che ci congiungono al mondo! L’essere in sé è quel che è (a prescindere da noi?, ma non è possibile; noi siamo parte di lui). L’essere per sé è quel che ci dona al sé, chissà quanto meritatamente, la possibilità di agire pro domo sua, in conflitto col per sé altrui.

“La negazione ci ha rimandato alla libertà, questa alla malafede, e la malafede all’essere della conoscenza come sua condizione di possibilità.” – da cui si deduce che sia solo la libertà di peccare.

Si parla di “Pietro”, il quale “è, esiste; è, in quanto appare in una condizione che non ha scelto”: è un dato che viene attestato. La particella bohriana esiste solo quando è attestata. Diversamente è un’onda di probabilità. Pietro “è, in quanto vi è in esso qualche cosa di cui non è il fondamento: la sua presenza al mondo.” – ma anche chi lo attesta è scelto, è rappresentato. Anche le singole particelle di Bohr sono determinate dalla particella attestata da Bohr.

“È proprio questa fattità che permette di dire che esso è, esiste, benché non la si possa mai realizzare e la si percepisca solo attraverso il sé.” – si tratta di una reciprocità che non dà privilegi.

“Il passato può abitare il presente, non può esserlo; è il presente che è il suo passato.” – dov’è questo presente? A due centimetri da me? Nell’alveo di una sinapsi? Staccato da me, chiunque sia quel me? Per la teoria della relatività, mentre lo vedo è già altrove. Non riesco mai ad attestarlo nel presente, ma sempre nel passato.

“Solo per la realtà umana l’esistenza di un passato è indiscutibile, perché è stato che deve essere ciò che è. È con il per-sé che il passato arriva nel mondo, perché il suo ‘Io sono’ è sotto forma di un ‘Io mi sono’.” – mi chiedo quanto tu ignori le teorie einsteiniane, chissà se volutamente.

“Ma al contenuto del passato in quanto tale non posso niente togliere né aggiungere.” – a meno che un tachione non superi la velocità della luce. Ma ancora questo non è stato riscontrato. Gian Carlo Ghirardi l’ha cercato invano per tutta la vita. Ora, purtroppo, s’è dato pace.

“Così tutto ciò che il per-sé è al di là dell’essere è il futuro.” – e quello che non accadrà, che fine farà? – “Il futuro non è, si possibilizza.” – finalmente un po’ d’indeterminazione: “Sono un’infinità di possibilità.” – chissà perché quel Sono è in corsivo?

“In ogni caso è sempre un intemporale (Dio o io penso) che è incaricato di fornire a degli intemporali (gli istanti) la loro temporalità.”: secondo Einstein il tempo è connesso alla fisicità delle tre dimensioni spaziali. Secondo Julian Barbour e secondo Carlo Rovelli esso non esiste.

“Eppure il passato è là, continuamente, è il senso dell’oggetto che guardo e che ho già visto…” – ed è “il mio legame contingente col mondo e con me stesso in quanto vivo continuamente come abbandono totale.” Per cui “la temporalità” non è un sacco e una sporta di cose, “ma è la struttura intima dell’essere che è il proprio annullamento, cioè il modo d’essere proprio dell’essere-per-sé. Il per-sé è l’essere che deve essere il suo essere nella forma diasporica della temporalità.” – l’entropia, il disordine del Kósmos, cresce col tempo, che forse non esiste, ma funziona in tal senso.“Al passato il mondo mi rinserra ed io mi perdo nel determinismo universale, ma trascendo radicalmente il mio passato verso l’avvenire, nella proporzione stessa in cui ‘Io ero’.” – mi auguro che sia chiaro a ognuno di voi. Voi chi? Un autore, più di ogni altro, più che giustamente, è citato da te: “Queste ‘intermittenze del cuore’ sono state descritte benissimo da Proust. Eppure è possibile percepire nella sua pienezza un amore e contemplarlo.” – non capisco, tra l’altro, quell’Eppure.

“Insomma, non vi è altro mezzo di rendere presenti le qualità, gli stati o gli atti, che quello di prenderli attraverso una coscienza riflessa di cui siano l’immagine e l’obiettivazione nell’in-sé.” – non colgo nemmeno il senso di quell’Insomma.

“La qualità non è altro che l’essere del questo considerato al di fuori di ogni relazione esterna con il mondo o con altri questi.” – e c’è chi, in fisica, li chiama gradi di libertà. “Ma il giallo del limone non è un modo soggettivo di conoscere il limone: è il limone.” – quel limone è giallo, altri sono verdi. Così diceva una vecchia pubblicità di uno shampoo. “… ed è proprio questa interpenetrazione totale che si chiama il questo” – quel che è in relazione a tutti gli altri questi.

“Ogni qualità dell’essere è tutto l’essere: è la presenza della sua assoluta contingenza, è la sua differenza irriducibile.” – è ciò che mi differenzia da te, Jean Paul: nulla v’è al mondo d’irriducibile.

“Si è posto sovente, come principio fondamentale, che la traslazione non deforma affatto la figura trasportata.” – per cui il corpo, muovendosi, non muta i suoi gradi di libertà, le sue dimensioni.

“Niente è più significativo, a proposito di questa concezione, della resistenza che ha incontrato una teoria di Fitzgerald sulla ‘contrazione’ o quella di Einstein sulle ‘variazioni di massa’, perché sembrano cogliere più intimamente l’essere del mobile.” – il Kósmos è mobile qual piuma al vento. Nella versione che ho io del saggio non esiste bibliografia né Indice dei nomi. Alludi immagino a George Francis Fitzgerald. Ma vale per l’essere in sé o solo per l’essere per sé?

Quel che è, è, si pensa che dicesse Parmenide a Elea. Non l’hai ancora citato, se non erro. Hai solo fatto allusione ai paradossi del suo distopico allievo.

Silenzio, che si gira ora la Parte terza Il per-Altri. Pare proprio un film in bianco e nero! Come mi pare finora ‘sto smilzo saggetto? Come una sceneggiatura magistrale, con degli scambi talora lunghetti, tanto che l’interlocutore, che è lo stesso Jean-Paul, talvolta va in bagno con Le Figaro, oppure esce a comprare le sigarette. È un romanzetto, insomma, in cui ogni battuta è così stringata che mai supera le tre pagine. Ideale per rilassarsi dopo cena. Tanto che ogni tanto chiudo il volume e appoggio la capa greve ‘ncoppa al cuscino che ho strategicamente piazzato sul sofà, nel lato opposto alla finestra, così pigghio megghio ‘o suonno.

Dice Martin Heidegger: “Dasein ist je meines”: l’esistenza è sempre mia, finché dura l’accomodato chissà quanto gratuito. Ma sì! Vivere è un acte gratuit! Lo dice André Gide! Quando scrissi del rapporto strano che c’era fra Henry Miller e Blaise Cendrars da una parte e fra Charles Bukowski e Louise-Ferdinand Céline dall’altro, mi venne da pensare che ognuno ha il francofono che si merita. Ora io ho te, Jean-Paul. È che sei un po’ troppo sempio e certo per la mia coriacea cervice. Ma mi sto adattando, tra!(nquillo). L’esistenza è sempre di chi la sta gestendo in quel momento. Egli vive il suo destino, che gli consente di de-stinarsi da qui a là, col tutto il Kósmos che l’aiuta a sbandare a destra e a sinistra, cucciandolo in avanti e trattenendolo per il coppino, per al cupèin diciamo a Rèş.

“Prima di tutto la teoria di Heidegger ci offre piuttosto l’indicazione della soluzione da trovare che la soluzione stessa.” – quella che tu farai cascare sulla mia testa a mo’ di manna a pagina 733.

“Quando anche ammettessimo senza riserve la sostituzione dell’‘essere-con” con l’‘essere-per’, essa rimarrebbe per noi una semplice affermazione senza fondamento.” – mentre le tue sono delle micidiali affermazioni, che non comprendo mai del tutto, lo ammetto. Sei molto avanti quando affermi, a pagina 327: “se altri è, essenzialmente, quello che mi guarda, dobbiamo poter spiegare il senso dello sguardo altrui.” – aspetta che ora m’adagio sul cuscino e poi ti dirò come la penso.

Ho pensato: Andiamo avanti! A pagina 328, per esempio: “Immaginiamo che, per gelosia, per interesse, per vizio, mi sia messo ad origliare a una porta, a guardare dal buco di una serratura. Sono solo e sul piano della coscienza non-tetica (di) me. Il che significa che non c’è un me stesso che abiti la mia coscienza. Niente, dunque, a cui possa riportare i miei atti, per qualificarli. Essi non sono affatto conosciuti, ma io sono essi, e per questo essi portano in sé la loro totale giustificazione.” – giocano in casa, intendi, forse in smart-working? Una cimice che hai sul dorso della giacca ti sta fissando la nuca e tu non lo sai, ma quella si fa i cavoli suoi e puoi star tranquillo.

A me non piacciono i tuoi frequenti niente, affatto, totale etc. sono parole troppo grandi per uno che non è dio, né gli somiglia, anche se è dotato di un enorme, seppur limitato, cervello come il tuo.

“… poco fa, abbiamo potuto chiamare emorragia interna il deflusso del mio mondo verso altri-oggetto…” – ricordati sempre che in quel tuo mondo sei in accomodato poco gratuito e che sei tenuto a versare le quote per le utenze condominiali, sennò scatta il recupero coatto con annesso pignoramento di beni. Dici “… lo sguardo altrui mi fa essere al di là del mio essere in questo mondo, in mezzo ad un mondo che è insieme questo qui ed al di là di questo mondo…” – una vera e propria battaglia di mondi, anzi, una guerra, anzi, un conflitto, anzi, una mutua necessità esistenziale. Secondo me, caro Jean-Paul, la tua non è incomunicabilità, ma imperfetta comunicabilità. Di certo non avevi previsto che un soggettino da nulla, chiamato Stefano Pioli, leggesse una settantina d’anni dopo il tuo saggetto. Mi domando per chi tu l’abbia scritto, oltre che per te? Mi sorprendi quando affermi: “Il mio legame con quella gente che parla e che io osservo si presenta fuori di me come un sostrato inconoscibile del legame che io stesso stabilisco.” – come se il termine empatia fosse inibito dal tuo software. Si tratta di due sistemi operativi inconciliabili? Bada che non intendo dire che hai torto su tutta la linea, oppure in taluni determinati aspetti delle tue traiettorie teoretiche, ma che i tuoi ragionamenti non sono del tutto conciliabili con i miei. Il che è normale!

“In quanto sono oggetto di valori che giungono a qualificarmi senza che possa agire su questa qualificazione, e neanche conoscerla, io sono schiavo.” – e non c’è una pur pallida chance di affrancamento? Lo schiavo è un privilegiato rispetto a un uomo libero perché, a differenza da quello, può diventare liberto. L’uomo libero può solo diventare schiavo. Su qualche scaffale ho il tuo L’esistenzialismo è un umanesimo, che forse sarà più comprensibile e che ha sicuramente il pregio di essere più corto e, m’auguro, digeribile.

“Attraverso lo sguardo altrui, io mi vivo come fissato in mezzo al mondo, come in pericolo, come irrimediabile…” – anche se è lo sguardo di Simone de Beauvoir, il cui cognome mi pare un bel vedere? – “… Ma non so né quale io sono, né quale è il mio posto nel mondo, né quale aspetto abbia questo mondo, nel quale mi volgo verso altri.” – vorrei tanto cercare insieme a te le risposte. Aspetto uno o due anni (per riprendermi) e poi leggo quel secondo tomino che ho citato. Promesso.

“… il polo concreto e fuori portata della mia fuga, dell’alienazione dei miei possibili, e del deflusso del mondo verso un altro mondo che è il medesimo e purtuttavia incomunicabile con questo.” – allegria! Mi sembri come quel tipo che ha una vita inguaiata, una famiglia allo sbando e una salute cagionevole, che cammina con delle scarpe più corte di un paio di numeri, così quando torna a casa e se le toglie può emettere un: Ahhhh! Finalmente!

Scrivere ti aiuta a esistere, mi sa. A me (e credo anche a te) mi è di ausilio leggere. “… l’altro è già dato. Ed è dato non come essere del mio universo, ma come soggetto puro. Così questo oggetto puro, che non posso, per definizione, conoscere…” – lo puoi definire ma non esattamente? – “cioè porre come oggetto, è sempre là, fuori portata, e senza distanza, quando tento di cogliermi senza oggetto.” – l’Everest è fuori della mia portata, ma per Sir Edmund Hilary il fatto che era lo spinse a scalarlo. Il presente saggio era là, in libreria. Non m’è costato molto staccarlo dallo scaffale, ma leggerlo mi sta pesando un po’ di più. Commentarlo è il meno. Sei tu a condurmi.

“Se mi si guarda, infatti, io ho coscienza di essere oggetto.” – una specie di telecomando (poi ti spiego cos’è) con cui lui gira i tuoi canali. Ma tu puoi intrufolarti nei suoi. Lo sapevi?

“… la morte non è un’assenza.” – è uno stato in cui, pare che si possa ancora parlare al mondo, ma che non si riesca più a sentire la propria voce. Hai dell’assenza una concezione tutta tua. I miei figli, quando sono a 800 metri, o a 65 chilometri, mi mancano un po’, ma li ho sempre presenti nel cuore. Questo intendi? Alla sera, mi metto a pensare a chi ho incontrato, con chi ho chattato (poi ti spiego), chi ho sentito al cellulare (poi ti spiego: non è quello della polizia). E mi chiedo ogni volta se sono stato positivo o negativo con loro, gentile o arrogante; insomma, mi giudico. E in genere m’assolvo. A volte mi sfugge il ricordo di quelli che ho appena intravisto e salutato al volo, o semplicemente veduto. Oppure sono anche loro, per sempre, presenti nella mia memoria di massa, nel mio disco rigido (poi ancora ti spiegherò). La tua scrittura è una giostra di parole, come poche ho letto. No! Come nessuna prima! E ora ti cerco di imitare: essa sarà sempre “côte de chez” Pioli. A thing of chaos is an enigma for ever.

A pagina 365 inizia un capoverso che dura 5 pagine. Ti capisco: sei in guerra con chi sai tu, con chi tanto ti dà da fare. In uno dei tanti khaos/baratri colgo: “Quest’altri-oggetto che mi appare all’improvviso…” – mamma! uno spettro! – “… non rimane affatto una pura astrazione oggettiva.” – pare che esista più o meno come tutti i suoi simili, che sono anche i tuoi. – “… cogliendomi come me-stesso, faccio in modo che l’altri-oggetto esista in mezzo al mondo.” – come se tu fossi il suo novello ri-creatore.

“… per cogliere la mia trascendenza, bisognerebbe che la trascendessi…” – la quale è un’impresa ardua, come lo è vedere il tempo fuori dal tempo; lo spazio fuori dallo spazio. E lo spazio-tempo fuori da entrambe le citate e mai assodate illusioni. Poi parli di “riflesso-riflettente” che è anche “riflessivo”. E deduci che “Riflesso e riflessivo tendono dunque, ciascuno per proprio conto, all’indipendenza, ed il niente che li separa tende a dividerli piú profondamente di quanto il nulla (che il per-sé deve essere) non separi effettivamente il riflesso del riflettente. E tuttavia, né il riflessivo né il riflesso possono produrre quel nulla separatore, altrimenti la riflessione sarebbe un per-sé autonomo che dirige lo sguardo sul riflesso, il che sarebbe presupporre una negazione di esteriorità come condizione preliminare di una negazione d’interiorità.” – forse c’entra come un cavoletto di Bruxelles a merenda, ma chissà se ogni tanto ti capita di pensare allo spazio di Planck, al di sotto del quale non sono consentite previsioni fisiche, né la verifica tramite leggi quantistiche o einsteniane, newtoniane o galileiane, o di chi vuoi tu? Non è detto che sia lo spazio più breve che ci sia, perché niente è dicibile, nel senso di teorizzabile, di esso. Quel tuo niente in corsivo mi ci fa pensare in modo compulsivo. Forse mi stai facendo uscire pazzo. Ma finché mi pongo il problema sono abbastanza tranquillo.

“Nella riflessione…”quest’altrimenti sconosciuta “… se io non giungo a cogliermi come oggetto, ma solamente come quasi-oggetto, è perché io sono l’oggetto che voglio cogliere; devo essere il nulla che mi separa da me…”anch’io sono un’infinita congerie di nulla!

“Ma il per-sé è per se stesso rapporto col mondo; negando di se stesso rapporto col mondo; negando di se stesso di essere l’essere, fa sí che vi sia un mondo e, superando questa negazione verso le sue possibilità, manifesta i ‘questi’ come cose-utensili.” – giustifico al lettore del tuo lettore quel sí: come Einaudi già in quegli anni (saggio tradotto e pubblicato da Il Saggiatore nel 1965; questa è l’edizione del 1980), gli accenti di i e u sono sempre chiusi: í-ú.

A pagina 383 citi “il principio di indeterminazione di Heisenberg” – e spari l’ennesima astrusità che non capisco: esso “non può essere considerato né come una invalidazione, né come una conferma del postulato determinista.” – d’una particella non si può determinare nel medesimo tempo la posizione e la quantità di moto, ma solo una alla volta per carità!

“L’oggettività scientifica consiste nel considerare le strutture a parte, isolandole dal tutto; allora, esse si manifestano con altre caratteristiche.”ovviamente falsificabili.

“Il soggettivo di altri-oggetto è puramente e semplicemente una cassetta chiusa. La sensazione è nella cassetta. Tale è la nozione di sensazione. È evidente la assurdità. Prima di tutto, è puramente inventata. Non corrisponde a niente di ciò che io provo in me stesso o su altri.” per te è una mera illazione.

“Ma se la sensazione non è che una parola, che cosa diventano i sensi?” – sensata domanda! Ormai mi distraggo ancora di più a notare tutti quegli accenti brevi! O Gesú!

“… il nostro corpo non è solamente ciò che da tanto tempo è stato chiamato ‘la sede dei cinque sensi’; è anche lo strumento ed il fine delle nostre azioni.”non so se Jiddu Krishnamurti sia d’accordo con te. Egli evita di pre-pensare alla realtà, dicendo che basta osservarla com’è. Egli non vuole che la sua coscienza sia deviata da un uso improprio della conoscenza. Così tento, fra mille dubbi, d’interpretare il suo messaggio.“Il mondo si manifesta come un ‘vuoto sempre futuro’, perché siamo sempre futuri a noi stessi.” – secondo Jiddu siamo sempre presenti e nuovi, qui e ora. Ora che entrambi potete trovarvi in quel ceruleo bistrot potete dialogarne fra voi. Pagherei una cifra per assistere al vostro incontro! Arriverei ad arrischiare fino a cinque centesimi di rupia.

“Ma se io sono nel mondo, è perché ho fatto che ci sia un mondo, trascendendo l’essere verso me stesso; e se io sono strumento del mondo, è perché…” – perché il tuo se non è mai ipotetico, ma lo puoi scambiare al mercato delle pulci con un dato che, sempre che tu trovi un acquirente.

“In un certo senso il corpo è ciò che io sono immediatamente; in un altro senso io ne sono separato dallo spessore infinito del mondo, esso mi è dato da un riflusso infinito del mondo verso la mia fattità e la condizione di questo riflusso continuo è un continuo superamento.” – sono entrambi fissati nella direzione della tua vita e di quella del cosmo? Finalmente una tua affermazione che riesco a condividere per un’enorme percentuale (intorno al 3,14%).

“… avere un corpo significa, significa avere il fondamento del proprio nulla e non essere il fondamento del proprio essere.” – avere o essere sono incomunicabili? E io che pensavo fossero due, seppur fraintesi, sinonimi! Hai sentito cosa ne pensa Erich Fromm a proposito? Non ne sono affatto certo, ma mi sembra che tu in genere abbia ragione e, per darle nutrimento, la condisci con una spruzzatina di torto. Non sei troppo diverso della moltitudine dei tuoi lettori, nemmeno di me.

“Il dolore è là, oggettivo e trascendente, ma gli manca l’esistenza concreta. Sarebbe meglio chiamare questi significati senza materia delle immagini affettive…” – stai parlando dei “pretesi ‘astratti emozionali’” – cioé “delle intenzioni vuote, dei puri progetti di emozioni” – ora ti do una pessima notizia (è la seconda o terza volta che lo faccio): non sono vuoti, ma carichi di energia sottesa (virtuale, se vuoi). Il vuoto, come già ti dissi, ma sento che stai facendo orecchie da mercante, non esiste. Come direbbe un certo Jean-Paul Sartre, esiste nel suo non esistere. Poi parli del “libro che leggo” – e delle tue interazioni con esso, dove “le parole possono staccarsi con maggior difficoltà dallo sfondo indifferenziato che costituiscono.” – anch’esse vive, palpitanti, gementi: “possono tremare, confondersi, può darsi che il loro senso si presenti malamente, e che la frase che ho appena letto si ripresenti due volte, tre volte, come ‘non capita’, come ‘da rileggere’…” tremo all’idea d’incontrarla in un vicolo oscuro, senza riconoscerla, e quella mi butta dell’acido in faccia.

“Questo dolore, però, non esiste in nessun punto tra gli oggetti attuali dell’universo. Non è né a sinistra né a destra del libro, né tra le verità che si manifestano attraverso il libro, né nel mio corpo-oggetto (quello che scorgono gli altri, quello che anch’io posso toccare e parzialmente vedere), né nel mio corpo-punto-di-vista in quanto è implicitamente indicato nel mondo.” – è energia che va dissipandosi, verso l’eterno e le morte stagioni, dopo aver salutato col fazzoletto la presente e viva e il suon di lei.

“… non è nello spazio. Ma non appartiene nemmeno al tempo oggettivo…” – non essendo un oggetto, bensì un’onda. – “si temporalizza, ed è proprio in questa temporalizzazione e per essa, che può apparire il tempo del mondo.” – magari nella forma di un nuovo testo che potrà essere attestato dal primo osservatore che passa. Chiamala, se vuoi, “la contingenza propria dell’atto della lettura.” – come amo la tua scrittura! Come talvolta le spezzerei le ossa! E la segherei in due!

“Tutto quello che vale per me, vale per gli altri. Mentre io tento di liberarmi dall’influenza d’altri, l’altro tenta di soggiogarmi…” – in quanto “le descrizioni che seguiranno devono quindi essere considerate come conflitti. Il conflitto è il senso originario dell’essere-per-altri.”

“… la libertà d’altri è il fondamento del mio essere…” – il problema è che rischio l’invasione. La “libertà altrui…”maledetta etèra“… impregna il mio essere e mi fa essere, mi dà e mi toglie dei valori, ed è il mio essere ne riceve una continua fuga passiva a sé.”nessuno nasce svincolato, anzi, sempre alla ricerca della sua gravitazione perduta.

“È con la sua coscienza che Albertine sfugge a Marcel, proprio quando gli è accanto, ed è per questo che egli non ha tregua se non quando la contempla nel sonno. È quindi certo che l’amore vuole imprigionare la ‘coscienza’…”di certo c’è la morte, dicono. Anche Tristano, che poco prima avevi citato insieme alla sua compagna, dormiva con una spada messa fra lui e lei. La bramava disperato quando lei era dal suo re, la rigettava quando gli stava appresso. Ecco che ho capito quel versaccio di Giuseppe Ungaretti: la morte si sconta vivendo. Anche la f…?!

“In un universo di puri oggetti, il linguaggio non potrebbe in nessun caso essere ‘inventato’ perché presuppone originariamente un rapporto con un altro soggetto…” – nascendo nell’alveo di un “riconoscimento dell’altro”? – mi domando se un soggetto autistico non abbia linguaggi, o se non possa ritenersi tale se dialoga con sé.

“È in questo senso – ed in esso solo – che Heidegger ha ragione di dichiarare che…” – etc etc. ogni tanto te li metti sempre sotto le ruote del carro questi soggetti che iniziano con le H, anche con la K però (non tutti, però!). E non so se loro vorranno risponderti. Cosa disse il boche Martin? Che “io sono ciò che dico” – un fraudolento, se assomiglia a certuni che vanno ora per la maggiore. Ergo, anche questa mercificazione della parola, “fa parte della condizione umana.” – che dio o chi per lui la benedica! “… nella seduzione, il linguaggio non tende a far conoscere, ma a far sentire.”ogni comunicazione è fondata sulla menzogna, sulla negazione, sull’adulterazione della propria verità?

“Ma il fatto stesso dell’espressione è un furto di pensiero, perché il pensiero ha bisogno del concorso di una libertà alienante per costituirsi come un oggetto.”in vino veritas, o nemmeno lì?

“Così, nella coppia di amanti, ciascuno vuole essere l’oggetto per il quale la libertà dell’altro si aliena in un’intuizione originaria…”cronache di poveri amanti… – “… cosí ciascuno è alienato solo in quanto esige l’alienazione dell’altro.”

Jean-Paul Sartre - citazioni
Jean-Paul Sartre – citazioni

Poi parli (con affetto, con rispetto?) del sadomasochismo: “Proprio a causa di questa inconsistenza del desiderio e della sua continua oscillazione tra quei due poli, si suole chiamare la sessualità ‘normale’ col nome di ‘sadico-masochista’” – e su questo chiudo il riporto, perché esso va letto e riletto nell’originale e complesso tuo pensiero.

“L’altro è per principio l’inafferrabile: mi sfugge quando lo cerco e mi possiede quando lo sfuggo.” – più che l’antagonista pare l’incompatibile.

“… qualunque siano i nostri atti, infatti, è in un mondo che noi li compiamo in cui vi è già l’altro ed in cui io sono di troppo in rapporto con l’altro.” – per cui non mi va d’aggiungere nulla.

“Nel ‘noi’ soggetto, nessuno è oggetto. Il noi implica una pluralità di soggettività che si riconoscono reciprocamente come soggettività.”tanti scogli che si fronteggiano, in un mare non nostrum.

“… il per sé non è solamente un essere che sorge come annullamento dell’in-sé che egli è e negazione interna dell’in-sé che non è; questa fuga annullatrice è del tutto ripresa dell’jn-sé che non è; questa fuga annullatrice è del tutto ripresa dall’in-sé e coagulata in in-sé non appena appare l’altro.” – mi chiedo quanti parenti avete in comune voi Sartre con gli imenotteri descritti da Edward O. Wilson in Le origini profonde delle società umane e di Storia del mondo delle formiche.

Concludi la Parte terza parte con delle domande che non vedo l’ora di sentirti auto-rispondere, a mo’ di decreto-legge, nella Parte quarta – Avere, fare e essere. In bocca all’in-sé, amigo!

“Noi diciamo che la libertà non è libera di non essere libera e che non è libera di non esistere.” – uno potrebbe tradurla così: Noi diciamo che alla disgrazia non è consentito di non essere se stessa e che è tenuta a esistere. Libertà = disgrazia? Ma la grazia dov’è? Io credo (no, non di saperlo ma) di ipotizzarlo. È lì, insieme al suo essere dis-grazia. Se riesco, ti dirò di più.

“Così nascere è, fra le altre caratteristiche, prendere il proprio posto o piuttosto, secondo quanto abbiamo detto, ricevere il proprio posto.”

Non amo l’idea del Fato assoluto deciso da Chissà Chi. Preferirò sempre il mio de-stino, con la d opportunamente minuscola. Non sarà facile. Non sarà impossibile. Sarà indeterminato. Sarà.

“… con tutto il mio essere-nel-mondo…” – che è di tutti quanti gli enti, compreso te.

“… il mio posto mi appariva come un aiuto o come un impedimento. Essere in un posto significa essere prima di tutto, lontano da… o vicino a…” – ciò vuol dire che il posto è munito di “un senso in rapporto ad un certo essere non ancora esistente che si vuole raggiungere.” – sì, il proprio de-stino.

“… è la libertà stessa, infatti, che si temporalizza seguendo le direzioni del prima e del dopo.” – prima quando era? Era dove? Era? Cos’era? Era la tua Libertà, che magari si chiamava Genoveffa?

Tu immagini il tuo kósmos (k ora minuscolo) zeppo di passati da abbandonare a se stessi: “ogni azione destinata a staccarmi dal passato deve essere dapprima concepita a partire da quel passato…” – e poi aggiungi: “… che vuol distruggere…” – vuole?… distruggere?

“… essere vuol dire essere stato…”essere vuol dire essere allorché e ovunque sia stato: ha tutti i tempi verbali, anche il fui stato e il sarò stato.

“È il fine che chiarisce ciò che è…” – a Reggio dicono che al pēş a n gh ē mai fîn, al peggio non c’è mai fine. Dov’è questo fine a cui alludi, in una fermata dell’autobus o in un attracco del traghetto che da Amalfi conduce a Palinuro? Quei mezzi poi hanno ogni volta un poi: tornano arretro. Il tempo è stato deformato dall’osservazione. Quello che osserviamo adesso continua a deformarlo: a Livorno direbbero che finalmente, nella galassia di Andromeda, oppure più in là, è nato un pisano intuitivo. In realtà il neonato è subito morto, dopo essersi presentato un numero imprecisato di volte alla porta di un livornese, che purtroppo era appena uscito. O fingeva d’essere fuori casa.

“… non posso fare a meno di aver un passato…” – e dove lo tieni stipato, nel presente? Ma ce l’hai quel presente? Poco fa scrivevi: “… perché il futuro sia realizzabile, bisogna che il passato sia irrimediabile…” – un giorno scopriranno che una volta il livornese ha risposto al campanello suonato dal pisano e ha risposto. Sono uscito!

“Chi decide se il tempo passato in…” – ognuno può esprimere il suo parere storico, che sempre penosa doxa rimarrà. Dici che “la presa della Bastiglia” avvenne “nel 1789” – c’è chi lo dice e può essere vero. C’era chi diceva che Gesù fosse nato nell’anno zero. Poi pare che sia nato intorno al 2, o al 3 dopo se stesso: gli storici stanno ancora discutendo animatamente.

“… la persona umana ha un passato monumentale e prorogato…” – hai ragione, è un monito continuamente rimandato a nuove determinazioni ma, aggiungo, indeterminato quantisticamente. “L’arco di Tito” – che tu citi – non è più eterno del Colosso di Rodi. Dopo di cui tornerà al suo stato d’incertezza. Se ne potrà parlare finché vuoi: saranno solo delle voci.

“… non sono mai libero che in situazione.” – in cui potrai vantare un tuo quantistico libero arbitrio. Ma non in quello assoluto! Non sia mai!

“… la struttura elementare della lingua è la frase…” – una delle tante. Cavolo! Si possono scrivere romanzi in sette volumi come quello del tuo adorato Marcel Proust. Oppure appunti sparsi come Guerra di Celine. O questo tuo opuscoletto filosofico con annessa la mia risibile reazione. Tutte queste sono strutture più o meno elementari. Mi illumino di immenso è una poesia di Giuseppe Ungaretti; pare che ce ne sia una variante: M’illumino di immenso; e poi un’altra ancora: Mi illumino d’immenso. Ma la sua forma più singolare è: M’illumino d’immenso.

“… solo la mia libertà poteva limitare la mia libertà…” – forse; ma solo qualcos’altro poteva limitare la tua libertà che stava limitando una sua figliola. Anche la libertà tene famiglia: ed è indeterminata, sebbene condizionata.

“Essere sé vuol dire venire a sé…” – quando?… dove?… quel sé è un bel fenomeno, davvero!

A pagina 638 fai una delle tue tante lunghissime sarfuiêdi, farfugliate, che a sentirti mia madre avrebbe tagliato corto, spiegandoti: forse intendi dire che a la môrt a s rîva vîv – alla morte si arriva vivi. Sono d’accordo con entrambi i miei anziani maestri!

Di te amo le continue citazioni di Proust, di Kafka (che paiono i tuoi sceneggiatori preferiti), di Gide, di Flaubert! È l’aspetto più fascinoso del tuo dire. Complimenti!

“… l’uomo, essendo condannato a essere libero…” – … con la condizionale. E ogni sera deve presentarsi alla caserma dei carabinieri.

Citi una frase di “J. Romains”:In guerra non ci sono vittime innocenti.” – è orribile, pur anche vera in modo quantistico. Gradirei però sentire l’opinione di quel bambino del Biafra che, a causa del ventre gonfio, non ce l’ha fatta a scappare ed è stato mitragliato senza pietà.

Il capitolo che inizia a pagina 669 è il più essoterico finora. Non l’ho capito tutto (con te anche Tantalo si demoralizzerebbe), però a qualcosa farò riferimento dopo aver posato il tomino.

Parli ora della “psicanalisi esistenzialista” – dopo aver massacrato innumerevole turbe di turbati psicologi. Per essa “l’uomo è una totalità e non una collezione.” – in cui tutto è sempre “rivelatore”. Sei ottimista. Non sei però, stranamente, limpido a riguardo. Prova a scriverci qualcosa di più tecnico.

Ripeti ancora il tuo mantra: “il conoscere è una delle forme che può prendere l’avere.” – capisco (da capio)!

“… le tre categorie ‘essere’ ‘fare’ e ‘avere’ si riducono qui come altrove a due: ‘il fare’ è puramente transitivo. Un desiderio non può essere, in fondo, che desiderio di essere o desiderio di avere.” – ecco! Erich Fromm la pensava proprio così (forse, ma non ne sono certo).

Dai, ancora un piccolo sforzo e te ne rimarrà solo una di direzioni, con più di un verso però. Con infiniti versi, temo.La vetta, sulla quale si è piantata la bandiera…” – nel mio caso è un lapis – “… è una vetta di cui ci si è impadroniti.” – poco fa ho finito a pagina 753 di leggere il tuo tom(b)ino, in cui sono sprofondato numerose volte, sbucciandomi talvolta il ginocchio.“L’arte, la scienza, il giuoco sono attività di appropriazione…” – io mi sono appropriato di te, caro il mio bel pesciolino. Un po’ ti getterò, un po’ ti manterrò. Prima o poi qualcuno ingoierà l’intero tuo corpus.

“Il desiderio di avere è in fondo riducibile al desiderio di essere, in rapporto a un certo oggetto, in una certa relazione d’essere.” – ormai posso dire che l’entità Jean-Paul Sartre “esiste per me, è stata fatta per me.”

Il denaro, che è lo sterco di Satana, è un utile concime per i nostri aridi campi: ed “è sinonimo di potenza”. – in quanto serve come la serva di Totò. Il tuo tomino m’è costato dei soldi. Con 40 euro mi sono accalappiato 5 libri, fra cui il tuo. – “… io trascino all’essere, con me stesso, la collezione di ciò che mi circonda. Se mi vengono sottratti, gli oggetti muoiono, come morirebbe il mio braccio se me lo strappassero…” che fine faranno i miei volumi? Che fine farà il tuo, ch’è ora mio?

Dici: “Si sa che per esempio il potlach…” – chi non lo conosce, corbezzoli! E che dire della “scissiparità riflessiva” – se non che un po’ mi mancherà… – “… le puree…” – dal canto suo – “… è come una isteresi costante nel fenomeno della trasmutazione in se stessa…” – poveretta, chissà come soffre!

“… il possesso afferma la preminenza del pre-sé nell’essere sintetico ‘in-sé-per-sé’…” – forse, non so. Secondo te il bebècerca la densità, la pienezza uniforme e sferica dell’essere parmenideo: e se succhia il suo dito, è precisamente per diluirlo, per trasformarlo in una pasta collosa che otturerà il buco della sua bocca.” – ogni giorno se ne impara una nuova! Anche due: “l’atto amoroso è castrazione dell’uomo – ma innanzitutto il sesso è foro – il forante e il forato.” – mi fai venire in mente quella coppia di amanti rodigini che lui gridava: a gl ò dentro! e lei: No! A gl ò dentro mi! E vissero (per due o tre decenni) felici e contenti.

Non so se ce la faccio a riportarla tutta, la tua finizione (finisiòun in arşân) del saggio (ma poi mi aspetterà la salvifica Conclusione): “Ogni realtà umana è una passione…” – perché “progetta di perdersi per fondare l’essere e per costituire contemporaneamente l’in-sé che sfugge alla contingenza essendo il proprio fondamento…” – mentre “l’idea di Dio è contraddittoria e ci perdiamo inutilmente: l’uomo è una passione inutile.” – che ci prende fin troppo.

Passiamo ora al siparietto finale, con tutti che ringraziano tutti (assassini, assassinati e detective). “… due modi di essere radicalmente distinti, quello del per-sé che deve essere ciò che è, cioè che è ciò che non è, e che non è ciò che è, e quello dell’in-sé che è ciò che è.” – a scriverlo mi sono confuso tre o quattro volte e ancora sento che devo ri-controllare il riporto. Ok, a posto. “Il per-sé effettivamente non è altro che il puro annullamento dell’in-sé: è come un vuoto d’essere nel seno dell’essere.” – a questo serve il per-sé: “essere l’annullamento dell’essere”. Niente paura: “La psicanalisi esistenzialista gli scoprirà lo scopo reale della sua ricerca che è l’essere come funzione sintetica dell’in-sé col per-sé: essa lo porterà dinanzi al fatto della sua passione.” – e se ci fosse invece una soluzione gratuita? …che poi ce ne andiamo a Palinuro al Club Med (che non c’è da più di trent’anni più, mannaggia!).

Gli enti entizzano, ognuno a inseguire i suoi guai. Tutti sono degli in-sé che in-seguono il loro per-sé. Il loro scopo. Il loro destino. Ognuno ci prova e tutti ci riescono, poco o tanto. Chiamalo, se vuoi, micro-libero arbitrio. Se l’insieme delle altre particelle mi gravitano addosso, anch’io gravito, secondo il mio grado di libertà, verso di loro. Anch’io sono libero. E sono recluso. E nessuno può scappare, a meno che non intenda piombare Colà, in un Buco Nero che poi lo sputerà all’esterno di sé attraverso (così prevedono i fisici e cosmologi) un Buco Bianco, che creerà il nuovo Kósmos. Stephen Hawking e Lee Smolin, che un po’ t’assomigliano nell’estrema fiducia di sé, ne sono quasi certi.

L’uomo non giunse sulla Terra, ma ci si trovò evolvendosi, miliardi di anni dopo che alcune spore giunsero da chissà dove. E ora potrà anche sbarcare su Marte. Anche se le spore di Marte sono già state qui. Non è fantascienza, questo accade puntualmente e universalmente. Dio! Che Infinito e Problematico Nulla è! Se ci aggiungi una O diventa Odio. Se a God innesti un’altra o diventa Good. Uno poi a questi giochetti rischia d’entusiasmarsi! L’entusiasmo è un invasamento che c’è chi crede sia ispirato da Dio. Basta togliere una D e l’io diventa IO, che occorre far brillare come un cero pasquale. Se non ci fosse ‘sto vano esibizionismo, verrebbe forse a mancare la poesia. Chiedi a un uomo di Chiesa (una Chiesa a caso) se c’è Dio. Lui risponderà Sì! Chiedilo a uno scienziato (una Scienza a caso) e lui borbotterà un: Non posso dimostrarlo, né falsificarlo! Chiedilo a un filosofo (una Filosofia a caso) e lui, a volte modesto, a volte no, dirà: Parliamone! Chiedilo ad Arthur Rimbaud e quel Veggente dirà: Je est un Autre! E poi se ne fuggirà in Africa a trafficare in armi. Chiedilo a Jiddu Krishnamurti e lui ti osserverà con attenzione, poi non so proprio che ti dirà.

A ognuno il suo silenzio o la sua vana risposta, che si evolve esistendo, tra amene certezze, nonché tragici dubbi. E che in quel suo vano e penoso esistere, in ogni suo fragile attimo, non cesserà mai di evolversi. Concordi con ciò, fratello Jean-Paul?

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, 1980

 

Un pensiero su ““L’essere e il nulla” di Jean-Paul Sartre: la fuga dall’angoscia è un modo per divenirne coscienti

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