“Il poema dei lunatici” di Ermanno Cavazzoni: il libro che ispirò l’ultimo film di Federico Fellini
Senza voler fare riferimento ad alcuno, oppure facendolo, ignorando per pudore gli antichi, ma pescando fra i moderni: per Achille Campanile, Gianni Celati, Daniele Benati, ed Ermanno Cavazzoni (questo è ovvio, direbbe Totò, esibendo l’ombrello!), ogni libro, ancorché tragico, è uno scherzare, verbo che deriva etimologicamente dal longobardo/tedesco medievale scherzen, che significa saltellare allegramente. Interessanti mi paiono le versioni campane di ho scherzato: aggio pazziato, oppure steva jucando.
Il gioco, lo scherzo, il saltellare, fors’anche puerile, sempre indica un estro poetico che tende ad allietare la vita, pungolando come fa un’oîstros, un’ammiccante fanciulla che reca in mano una fiaccola accesa e che guida un carro trainato da serpenti. Etimo stesso deriva, ma per gioco, per celia, da étymon, che vuol dire verità. Scrivere è scavare dentro al proprio intimo, jucando ma anche patendo.
Però Ernest Hemingway diceva che, per scribacchiare, basta sedersi e far uscire del sangue. Grande verità, ma si prega di non svelarla a nessun aspirante scrittore, ché quello cambia mestiere.
Leggo nell’Avvertimento de Il poema dei lunatici che “i casi che mi sono capitati, debbo ancora capirli, e non ho smesso di rifletterci sopra.” – al che mi viene da tranquillizzare l’autore: Non ti preoccupare, ci penserò io a fra-intenderli, andando dentro e oltre gli stessi, finendo per smarrire la diritta via, per cui quel mal comune diventerà un mezzo gaudio.
Il romanzo inizia in un modo strano e consueto (e io, per gioco, vigliaccamente amputo la prima parte del ragionamento): “… ma si trovano scritti in bottiglia nel fondo dei pozzi.” – ne sono quasi certo, ma non m’azzardo a scendere a controllare la veridicità dell’informazione. Mi fido dell’autore. Primo Levi, in Se questo è un uomo, narrava cose terribilmente vere, in cui non ho mai smesso di confidare, e che sono sempre stato lieto di assaporare, stando comodamente seduto sul divano di casa mia, coi due piedi posati su un’esausta seggiola.
“A Salvaterra ho trovato il manico di una carriola…” – essendo quella una cittadina che offre al visitatore un catartico profumo di gas che esala da riarse ceramiche.
L’io narrante incontra “due signorine, ma dicono tutti che a loro il pozzo fa da marito.” – un pozzo bigamo vale sempre più del doppio di uno single.
A pagina 12, don Solimano battezza l’io narrante chiamandolo “Roteglia” e assegnandogli il titolo di “esattore”. Potrebbe essere un primo, pur incerto, passo verso l’agnizione finale. A pagina 13 rischio di sbandare alla sesta riga: l’esattore Roteglia diventa “l’ispettore della bonifica: l’ispettore Savini” – salvato per un pelo dalla carenza di una l! Sette righe più giù, sto per blisgare (termine reggiano per scivolare) a sentire che l’io dice: “Ero l’ispettore Savini per loro, e erano tutti contenti.” – a me mi manca (chiedo venia per il pleonasmo) la d eufonetica.
Poi leggo di un sogno durato un anno, dopo che “uno di loro si era messo a letto un dopopranzo perché era stanchissimo” – la vita è “un sogno lunghissimo” che ogni tanto c’illude di donarci un salvifico risveglio.
Il bello, finora, del romanzo (perché quello è, cosa credevate?) è che ogni tanto la gente ride: “Gli altri lì presenti, per queste cose ridevano volentieri tra loro.” – nessuno avversava nessuno, che bel luogo in cui la gente ha capito la veridicità dell’antico adagio: chi dice ma cuor contento non ha.
“E loro tutti contenti: ‘La casa era umida però, questo sì’.” E si divertivano a dirlo. Prendiamola a sbellicarsi fregandosi l’epa, che va sempre meglio che frignare battendosi il petto, perché piânşer fa trî e réder fa trî: ergo, sghignazzando senza criterio alla faccia del rio destino.
“Quindi mi sono risolto, e ho preso la borsa di tela azzurra a tracolla, e anche purtroppo una canna lunga e sottile di cui ero affezionato. Purtroppo, perché mi avrebbe dato dei dispiaceri. E mi sono avviato.”
Ti faccio una domanda, caro, ma tu ce l’hai ‘na giarlèina in bòca? Lo sai che, quando attraversano lunghi e imprecisati deserti, anche gli Apache sogliono succhiare un sassolino colto nelle loro vastissime praterie? Certo che dire che gli apache sogliono richiede un certo coraggio!
Non per fare per forza lo spoiler, ma urge informare il lettore del tuo lettore che dici: “Credo poi di essermi messo a correre a più non posso, ma era come se fossi sballottato dai flutti che mi portavano dove volevano loro.” – e forse questo spiega perché non hai tanto tempo per l’eufonetica! La pagina dopo, verso il fondo, colgo un “… un’altra rete e ero…” – tre e in fila come tante papere. Tu, bestia, non ami le elisioni: “mi immaginavo”, “mi inoltro”, “mi hanno” anche se talvolta ti concedi un “com’era”, ma poi torni subito al solito “E era evidente…” – tra (= sta’ tranquillo), ormai mi sto abituando. Ma l’enigma rimane insoluto. Ora poni “al barista la seguente domanda: ‘C’è un maestro che è venuto in città per trovar moglie?’” – la risposta non c’è, forse sta soffiando nel vento (che manca tira un filo d’aria, al momento).
Ti diverti come uno scemo a dare pareri tecnici alla massa di utenti. Quello che dici a pagina 23 (e che non riporto per motivi di segreto professionale) mi lascia perplesso. Anche perché ‘o 23 per la Smorfia napoletana è, appunto, lo scemo. Occhio che ‘o 9 è lo stronzetto, di probabile origine canina, che attende sempre che ‘o 23 lo calpesti.
Sei una specie di Socrate, altro che uno stolto! Spesso dici: “Non so, veramente non so; mi piacerebbe trovarlo…” – cosa? Non lo dico. Forse perché l’ho già spoilerato poc’anzi.
“E per questi discorsi ridevano, ma in modo che ancora non potevo capire.” – forse non serve scoprirne la ragione, quanto averne una quieta consapevolezza. Occorrerà chiederlo all’oracolo.
Ora, mentre tu ti appresti a dormire, ché dici “mi veniva su dalle gambe e negli occhi un senso di sonno”, io vado a desinare. Tutto un mondo ci aspetta là fuori, ma non c’è fretta, anche perché, dici, “in quel tempo seguivo i fili dell’ispirazione, che mi dicevano di fare così.” – mentre ora, che scrivi, li stai tirando su, per poi intrecciarli, uno a uno, quei fili.
A pagina 34 ci sta un altro di quei grovigli vocali che mi danno da fare, anche se un po’ mi sto abituando, come a un principio di gotta che non sembra prevedere una sua fine: “E è incominciata…” ma sta peggio il tuo nuovo solidale, Nestorino: “Io ero come esaurito sempre, ma ero nelle sue mani e non ci vedevo bene per effetto dell’esaurimento, e sentivo solo il rumore delle rotaie e tutto il vapore che produceva e soffiava, e io ero un povero uomo esaurito che faceva il marito come poteva.” – accoppiato a una specie di dragona il cui appellativo è “vaporiera” – figuriamoci. Anche qui ci sono degli appellativi popolari che ben lo inquadrano: due di coppe in rifiuto quando briscola è bastoni; oppure, recandoci di nuovo nel napoletano: o ‘chiachiello (uno che se la fa addosso), ma anche ‘o mamozio, con tutt’un’altra, archeologica, storia, che ora non ho il tempo d’illustrare.
Continua quel tap(p)ino: “Allora sognavo del fracasso, tutta la notte sognavo del fracasso che mi passava di sopra; e la vaporiera era placida, e nella penombra era enorme, e respirava perché non era mai, credo, spenta.” – e ciò spaventa l’uomo, così instancabile nelle sue faccende domestiche.
Ma più che questa mesta storia d’incomprensione coniugale, m’inquieta, a pagina 38, quel fin troppo fluido “e è abbastanza” – e non so darmi ancora pace.
Poi, per non fare i fatti miei, quel: “Io credo che si sono moltiplicati e tutti addensati…” – non importa che. Io avrei scritto Io credo che si siano etc etc. Grazie a te, ora capisco che avrei sbagliato. Io credo significo io penso, io soppeso, io determino, e alla fine io sono certo, per quanto umanamente possibile. Nulla v’è di assolutamente veritiero, ma tutto è sub iudice sia del caso che della necessità. Ma ognuno di noi deve scegliere la sua traduzione del reale. Dopo di cui, se dice io credo, significa che egli intende che sa, sia pure a modo suo, quello su cui ha ragionato fino al punto di credere. Io ho fede che Dio è, non che sia. Sennò sono agnostico, scettico, ignorante.
E qui casca l’asino, oppure l’ispettore, oppure non so, chi vuoi tu, quando dici. “Ma a dire la verità in questa epoca io mi chiedevo se ci sono gli uomini al mondo, e ne ho parlato col macellaio, che diceva che per gli uomini ci sono, e non è neanche un problema.” – tu non sai nemmeno se sai, per cui dovresti dire: io mi chiedevo se magari ci fossero…, mentre quel beccaio sa per certo che ci sono. Non è un grande errore, anche perché tu scrivi come parli e, mentre uno lo fa, non sa bene dove lo condurrà il ragionamento. Per cui ti giustifico, tra… nquillo… Occhio però, per lui pare non sia un bel problema, ma per te no. Lo sarà ancora per un bel po’, temo.
“… e noi tutti ridevamo dalla cucina e non la finivamo più di ridere e ridere. Io ridevo da dietro le persiane.” – un tale, non so se lo conosci almeno di nome (Arthur Rimbaud, detto il Veggente ma anche Lo sposo infernale), parla del riso orrendo dell’idiota (l’affreux rire de l’idiot), ma non ci pensare, quel ragazzetto ha sofferto troppo, poverino, mentre tu… non ho ancora capito se talvolta patisci il male di vivere di montaliana memoria, oppure no.
Di questo romanzo ricorderò tante cose, specialmente le sciocchezzuole e le freddure minime (chissà in quanti apprezzeranno l’eufemismo), che abbondano. Del Cantar del mio Cid, per esempio, che lessi in classe alle medie, ancora ricordo che il suo cappello, nuovo e fresco, l’aveva portato da Valenza. Pensa te, che strabiliato lettore sono!
“E ridono in coro, come se fosse un concerto, e ride anche il barista, senza che però smetta di affaccendarsi.” – e va bene così. Male non fanno, ma del bene sì, almeno a se stessi.
Pagina 69: “e è andato” – ormai segno solo le triple, le doppie le lascio tranquille a padire, a fermentare – “e è inutile” – ma anche con le a non scherzi: “a ascoltarlo”, nella pagina che segue. E poi: “È è una rovina” e, tre pagine dopo: “e è incominciata”. A pagina 78 leggo: “E è inutile”.
Tu ancora fai il Socrate quando dici: “Io ho detto, perché non capivo: ‘Mah? In che senso?” – e il tuo nuovo conoscente, il “prefetto Gonnella”, una specie illusoria di “facente funzione”, ogni volta ti risponde, bene o male non si capisce. Tu ti presenti, al solito, come l’ispettore Savini.
All’inizio del capitolo 7 Nei confini della prefettura, tu citi spesso “la luna” – il nostro beneamato satellite, dieci volte, se ho ben contato, in due pagine. A pagina 95 m’imbatto in un “Ad esempio” – quindi anche per te quelle d vengono buone talvolta!
Il capitolo successivo, 8 Popolazioni nascoste, descrive il tuo dramma umano: “Le mie ricerche di terre e di popolazioni continuavano intanto; e avremmo voluto capito le questioni di geografie, per orientarci.” – e ognuno ha il suo, di drammi interni. Il mio è di non averne uno in particolare, ma di cercarne un po’ ovunque. Tót i cajòun a gh an la só pasiòun, anche se non è coglione, ma saggio, ce l’ha, una passione: per la propria professione, al limite. La tua qual è esattamente, che non l’ho capita. Cioè, l’hai scritto: ricerchi terre e popolazioni, ma che origine ha la passione che ti smuove?
“E per dire tutta la storia, son venuti dei funzionari a mettere a questa signora Cavizzi una rete nella finestra, perché non possa volare via e perché nessuno entri e la porti non si sa dove a far che…” – questo inquieta l’uomo: l’amministrazione sa più di noi quale dovrà essere il nostro destino!
Non volevo segnalarlo, ma non ce l’ho fatta. A pagina 107 denuncio la presenza di un “Ma però” – che però mi conduce a una serie di ragionamenti. L’io narrante, cioè tu, sa scrivere meglio di me (questo è poco ma sicuro), eppure talvolta le sue forme non s’inquadrano coi miei (vetusti?) canoni lessicali e grammaticali. Forse sto giungendo a una serie di considerazioni che potrebbero illuminarmi di una nuova consapevolezza. Ma poi il prefetto parla di Aztechi e questo mi distrae. E noto che quando quello parla è come se scrivesse, poiché educa, e sente il bisogno di rispettare dei crismi, per rendersi più comprensibile al discente, cioè a te. Quando penso agli Aztechi penso soprattutto a tutte quelle sillabe in tla, come Tlaloc, e come Atlantide!, oh che mistero questo!. Tlaloc è il dio della pioggia. E poi c’è quel dio, anche lui con un tl o un tla, non ricordo bene, che guardava in uno specchio, come se fosse un monitor, il destino di noi umani. E del suo dioscuro Quetzacoatl, il serpente piumato, che è stato da qualcuno assimilato a un missile con la coda rossoblu e fumante. E pensare che un branco d’incolti e cannoneggianti pseudo-cristiani ha devastato quell’impero meraviglioso e futurista! E a questo punto ho l’illuminazione: quando io parlo non uso la d eufonetica: e è bello così! Noi reggiani scriviamo a t ē sèimper n’ imbambî, sei sempre un rimbambito, ma quando parliamo diciamo a t ē sèinper n’inbanbî, perché i nostri avi non andavano a scuola e ignoravano che davanti alla p e alla b, ci vuole la m, non la n! Occorre avere piena coscienza delle proprie caratteristiche!
Quando vedevano “i fossili”, gli aztechi dicevano, anzi, poiché è come se fossero ancora tra noi, hic et nunc: “gli Aztechi dicono che è la terra che scrive così, e ormai è anche il loro alfabeto.” – è una questione di lingua e di poco altro. E ognuno ha l’idioma che si merita!
A pagina 112 cambi modo d’esporti, fai il saputo, e acquisisci una certa autorevolezza. Mi piacevi più prima, però. E parli di una razza detta “i ripetitori” – di cui non dico alcunché. È sempre là per chi vuol sapere di più. E poi dei mongoli, che nel mondo ce ne sono troppi, più che a Ulan Bator, e non originari di quelle asiatiche bande. Si legga a proposito pagina 116 e 117, di più non so!
I tuoi ragionamenti, caro, sono per lo più capziosi, cioé tesi a capere l’attenzione, ma oggi sono distratto e di cattivo umore. Mi dispiace. Capire è essere compreso, hai capito? Uno scambio di energia, non solo un asino che raglia e un somaro che controraglia. Lasciami perdere, per oggi.
“‘Non sono cose che invento’ ho detto ‘sono proprio così.’” – e io oggi sono cosà!
Poi dici qualcosa del deserto del Gobi che proprio non mi va giù. Vorrei vedere te a fare quello che il sessantenne Reinhold Messner fece tempo fa: per lui non valeva l’opzione che il deserto ogni tanto si può ritirare “pian piano, e così uno esce fuori senza muovere un passo.”
A pagina 136, comincio a segnare le pagine ché di te mi fido poco – “il prefetto” ti dà la definizione che tanto aspettavo: “Lei è un vero geografo.” – un attento analista del pianeta terra e dei parassiti che la infestano. E tu chiedi a quello che ormai si può definire il tuo maestro: “Chissà che rapporti ci sono tra questi popoli.” – e la sua risposa m’agghiaccia, nel senso che non te la dà. La tua personale risposta mi reca un bel teporino: “Ognuna di queste nazioni, io riflettevo, è chiusa in se stessa e non concepisce altre esistenze al di fuori di sé.” – ognuno sta solo sul cuor della terra eccetera eccetera. Bene. Anche oggi abbiamo imparato qualcosa di tonificante.
La notte il tuo prof è stato vittima di stalking e mobbing da parte di suoi vetusti coetanei e perciò ora dovete scappare, tanto, tu dici che tanti bagagli non ne avete.
Pagina 152: “Ma ad esempio…” – ora te lo dico ma poi vedi tu: a me non piace quella d eufonetica. Forse che tu dici che ad Ettore non piacque morire in duello? Ma aveva realmente perso quel pezzo di troiano o è stata quell’umbratile arbitra a falsare il risultato?
Il prefetto ora discetta com’è sua costumanza del sistema di difesa che imparò da un samurai giapponese, il quale non ebbe forse una vita tranquilla, dovendo essere sempre concentrato a combattere mille e un antagonista. Egli però “sapeva dormire e anche star sempre pronto”.
Non lo invidio. Né amo il suo insegnamento che, tradotto in tre parole è: homo homini hostis, diversamente è homo hominis victima. Quindi Gesù, Socrate, Confucio e Buddha hanno sparato solo sciocchezze? E pensare che Vito Mancuso ne ha tessuto le lodi ne I quattro Maestri.
Ma sta’ a sentire qua la stessa voce del tuo momentaneo solidale (ché tutt’ e cose so’ caduche ‘n coppa a ‘sta terra) che dice: “E anche il samurai del Giappone sarebbe scappato, perché in tanti diventano come la marmellata, che t’invischia, e sono inutili tutte le mosse.”: lo scoprì un certo Ceausescu e gentil consorte, quella notte n cui tentarono la fuga impossibile.
Il capitolo 12 La nuova piega imprevista nel bar pizzeria offri all’utenza un’espressione che mi fa perdonare anche i peccati che non hai ancora commesso: “E lui ha squassato la testa come per dire: ‘anche qui! e va beh!’” – squasêr, nel senso di far sussultare una parte del corpo con grande energia, come nell’espressione ma guêrda cme la squása al cûl cla bagâia lé, ma guarda come agita il posteriore quella tipa lì (nel senso di birba, non di bagaglio). Ieri mi avevi fatto andare in oca (e anche qui occorre spiegare agli eventuali orgosolani in ascolto che a Rèş il detto ha un significato opposto che nel resto d’Italia) ma mi sta passando. Ieri, per fatti miei, avevo la luna storta.
La storia che vai poi estraendo dalle viscere di ‘sto pianetino azzurro non è che non valga la pena di leggerla, è interessantissima, ma è e resterà sempre là, fino a pagina 181, e chi vive può leggerla!
E poi c’è l’incontro della tua vita, non della mia, che sono felicemente quasi del tutto single, per cui non dico granché, se non che ha lo stesso colore di capelli di Anna, no, non di mia figlia ma di quella di Lucy Maud Montrgomery. Mi fa solo ridere che tu, con la testa irrimediabilmente perduta, la paragoni a un “uccello del paradiso” – ma sei sicuro di non aver sbagliato volatile? Le hai dato un’opportuna occhiata sotto la coda?
Il capitolo 14 Di là dalle apparenze la storia di Garibaldi è tale che può sembrare inventata tanto pare vera, anche se un tantino assurda. Non la riporto perché è ormai depositata nel tuo scritto, e va affrontata de visu: “E finalmente lo studente tira fuori dei fogli che dice che sono autentici e che adesso li legge. Però un po’ la grammatica l’ha dovuto perfezionare.” – non essendo il lontano “cugino” che l’ha scritto del tutto scolarizzato – “e la vita poi l’ha passata in un ospizio, in una mezza galera cioè. E scriveva quindi da lì, con tutti i suoi limiti.”
In essa colgo un “seguìto” – con l’accento aperto, non essendo edito da Einaudi che ha gli accenti brevi e chiusi (í e ú), nelle finali, mentre nel mezzo della parola in verità non lo so. È una faccenda strana, un giorno forse avrò il coraggio di chiederlo a Raffaele Simone che di queste cose se ne intende, ma costui (o costúi?) ha sempre tanto da fare, e tengo scuorno a infastidirlo.
Morale della favola, il cugino, che parte coi Mille di Garibaldi, pensa: “Questo viaggio era una pazzia” – e forse non aveva tutti i torti, anche se la Storia che, interpolando un verso di una celebre canzone dei Litfiba, è un’astuta bugia, gli darà torto, consegnando alla leggenda il nizzardo, che come ricompensa vide la consegna della città che gli diede i natali all’imperatore francese.
Di quell’impavido dico solo che “per lui il tiranno era lo stesso, ovunque, che parlasse spagnolo o tedesco, e la sua guerra era una sola guerra” – e che a lui interessavano per lo più gli scioglilingua tipo questo che inizia così: “Or langue l’angue...” – mentre io questa filastrocca so: “Eschilo, Eschilo, che qui si Sofocle, ma attenzione alle scale, che sono Euripide, se no cadi e Tucidide!”
Dopo di cui un “secondo studente” (di storia, arguisco) parla del “viceré” borbonico. Mi domando se non confonda il secolo, ma poco me ne cale. La storia è interessantissima, ma la lascio a 15 Si ride di un’altra storia disgraziata. Se non la spostano in questi giorni, magari per edificare un qualche ignobile monumento lì è e lì rimarrà.
A pagina 236, ben più importante, dici di te: “e io mi sono squassato in mezzo alla paglia.” – non t’invidio tanto, solo un po’. Il tuo pensiero, poveruomo, è sempre lo stesso. Tanto per mutare un celebre detto, evitando i controlli algoritmici dei social, parola che a Bologna spezzettano in due: sòc-ial, dico: la solita è la solita! E ‘sto strabenedetto accidente ti fa fremere notte e dì.
Apprezzo tanto la frase “mi avrà anche torturato il coppino.” – al cupèin dicono a Rèş, dove a parlare in dialetto spesso si torna indietro di decenni, a volte di secoli, a volte di millenni. Nèsi, da nesciens, è lo stupidotto. Ciapêr, dal latino capio, è prendere senza volere, tipo il raffreddore (al ferdôr) mentre tór, prendere spontaneamente, deriva da tollere. Noi mica pranziamo, noi desiniamo (andòm a dişnêr), etc etc. Gente antica siamo (gallo-latino-unno-gota, una bella miscellanea!), ma anche moderna, così almeno ci reputiamo.
Poi si parla di quell’agricolo di Waterloo che vide devastato il suo orto, e che ebbe la ventura di incontrare un “generale supremo, piccolo e grasso”, che fece poi la sua brutta fine in un’isoletta sperduta dell’Atlantico. Non dico che ben gli sta ma a me ‘sti geni dell’arte bellica a me mi fanno girare i marroni, con una r sola.
Leggendo queste pagine mi vien proprio da dire che Il futuro ha un cuore antico, come disse Carlo Levi in un suo celebre reportage dall’URSS e che Le parole sono pietre, come ne riporta un altro che scrisse dopo un viaggio in Sicilia. Purtroppo, spesso accade che Tutto il miele è finito, titolo di un suo bel libro ambientato in Sardegna. Passato ↔ Futuro e solo un nesciens come l’homo sapiens può sperare che in quelle freccine si possa vivere serenamente. D’altronde, poco c’è da disperarsi, in quanto sempre vale quell’adagio che dice che il risultato non muta a seconda del tipo di lacrime.
Così finisce il terzultimo capitolo: “era come se andassi verso la guerra a zic zac.” – il che non è un così brutto segno, per un tot di motivi: si arriva più tardi, si evitano più facilmente i colpi dei nemici e non si hanno quelle sostanze cancerogene che sono le ideologie, che sono anche dette fedi in altissimi e improrogabili ideali, che poi destinano alla morte certa, o fisica o morale. Io non ce l’ho con le idee filosofiche, ma quando esse diventano totalizzanti le evito come il covid 19-20-21-22-23-24 (ad libitum, e ad nauseam!).
Come quel tipo che dice, con una sicumera che farebbe scom-pisciare dal ridere una iena atarassica: “Per le donne ci vuole il pi greco…” – ma cosa vuole dire? Le donne, poi, esistono in assoluto, o c’è Ada, Maria, Sofia, Elisabetta etc etc?
Ma è a pagina 264 che per me casca il ronzinante! Tornano infatti “le ragnatele dei vecchi, dei vecchi spioni…” – e la mia sciocca boutade mi fa pensare ai mulini a vento di donchisciottesca memoria. E quel tuo, fintamente sempiterno, compagno di ventura, il prefetto, o facente finzione o funzione a dir si voglia, è proprio come l’eroe del Cervantes, con un’unica grande differenza: non morirà nel suo letto.
“Intorno al prefetto c’è la massima ressa, di quelli che sono pro e quelli che sono contro, che si cercan di schiacciare a vicenda e buttarsi a terra, o spappolarsi come frittelle di riso.” – o anche come al gnôch frét, tipica impietosa e calorifera pietanza delle nostre umide bande.
Quando nacque il fascismo, molti reggiani diventarono esaltatori del duce. Poco dopo molti reggiani diventarono fieri avversari dello stesso. E poi andarono nelle montagne e si mutarono in partigiani (celebre nel mondo è il partigiano reggiano). Siamo sempre stati un popolo da piazza e perciò temo per il presente, per le nuove leve, ora che l’agorà è riservata ai concerti e alle sagre religiose. E mai al dibattito politico. Mio padre stava tornando a casa per via del Chionso un pomeriggio del ‘45, quando fu fermato da una pattuglia di partigiani. Uno di loro disse (in dialetto): Ammazziamolo, che questo io lo conosco, è uno che va sempre a messa! Per fortuna il capo, saggio individuo, non la pensava così e disse che al momento intendeva lasciar correre. E il mio amato consanguineo lo prese in parola, per cui affrettò il passo verso casa. Mio padre giocava a bocce, ed era bravino, vinse anche alcune coppe. Il suo nemico giurato, che preferiva dilettarsi con le carte, un certo Bègia (probabilmente era un Beggi), quando papà sbagliava un tiro, euforicamente gli gridava: Va’ a mèsa, cajòun! ‒ va’ a messa, coglione! Quando papà faceva un bel dritto, quello si alzava dalla seggiola urlando: A gh à sòul un grân cûl – non credo ci sia bisogno di traduzione. E, quando papà vinceva, Bègia se ne usciva dal bocciodromo dell’Enal e fino al giorno dopo non si faceva vedere. Noi reggiani siamo dei passionali. Così è il, o forse è meglio dire fu il, siccome svolazzante, prefetto Gonnella. Che non si sa bene che fine stia facendo lassù (Einaudi editerebbe lassú), forse nemmeno tu lo sai, caro il mio (d)ispettore. Ma so che ti mancherà. Anche a me, ma solo un po’.
“E io dicevo che in giro c’è solo menzogna e falsità, e che è tutto un imbroglio, da tutte le parti, a incominciare dal primo ministro…” – che è una frase davvero fugace, caduca e sempiterna.
Il tuo è un racconto iperrealista che è colmo di balle spazio-temporali.
Un tipo, “che era ricciolo scuro e gli brillavano i denti quando rideva”, disse “che al mondo, secondo lui, le balle vengono da sé. Cioé diceva che le balle ci son sempre state, e che a suo avviso continueranno per un bel po’. Ma che non bisogna sempre badarci.” – l’importante è non confidarci troppo e di non imporre il dato al prossimo.
La storia di “Giuda Iscariota” e di “Gesù” è così tragica che non me la sento di riportarne nemmeno un pezzetto. Solo dopo averla digerita, il lettore capirà se ha fatto bene o male a ingurgitare anche tale medicina, dopo tutte le altre che gli hanno consentito di arrivar fin lì, vivo ancorché sfinito. Mi piacerebbe però sentire il parere di Giuseppe Berto, autore de La gloria.
L’ennesimo saputo ti confessa il suo pensiero: “… se il tempo dura e dura all’infinito, e va sempre avanti avanti all’infinito, uno allora si dice: ma cosa parlo a fare?” – a dare aria ai denti, no?
Niels Bohr diceva che la particella esiste solo quando la si attesta. Una parola acquisisce un senso allorché è detta, è scritta ed è infine letta, in una neverending story, lungo un sentiero che, pur biforcandosi (borgesianamente!), non pare mai cessare. E poi passa il Pioli che reagisce, e so’ c…i!
In The end of time il fisico britannico ha inteso dimostrare che il tempo non esiste. Analogo pensiero è del suo allievo italiano, Carlo Rovelli, secondo cui lo stesso spazio è un quid che vortica su di sé (teoria dei loop).
Un dotto signore ti sta ora donando la sua opinione sul tempo: “… fa come un fischio; ma è un fischio che viene dappertutto…” – e poi: “E credo che vuol dire che il mondo va avanti; o anche solo che il mondo è lì, già avviato, che gira.” – gira il mondo, gira la terra e tutti giù per…?
Per cui: grazie, Savini senza l e grazie anche a te, Ermanno…
Nel risvolto di copertina è scritto che Federico Fellini disse, dopo aver letto con passione questo libro, “che pur provocando continuamente il riso per l’arbitrio che domina sovrano e toglie significato a ogni azione, gesto, pensiero, diventa a tratti straziante…” – e infatti così mi sono talvolta sentito, per merito, non certo per colpa, soprattutto dell’aeriforme prefetto Gonnella. Per cui anche a te, caro prefetto facente funzione, estendo i suddetti ringraziamenti. È anche e soprattutto a causa tua che ora mi vedo costretto a vedere l’ultimo film girato da quell’immenso Maestro dal titolo “La voce della Luna”.
Io odio vedere i film da solo. Cercasi volontario. Mo’ lo chiedo ai miei figli.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici, Guanda, 2008