“Le vie del sufismo verso l’Europa mediterranea” di Alessandra Marchi: la lotta contro le insidie dell’ego
In “Il Convito/Al Nādi” – una “rivista italo-araba” pubblicata agli inizi del XX secolo, “si sostiene, in più articoli, che l’Islam non deve essere confuso con i Musulmani”. – la qual cosa ha una certa rilevanza: un conto è una teoria e un’usanza religiosa e un altro è chi professa una fede, appartenendo a un gruppo sociale, piccolo o grande che sia, in cui essa è praticata.
Io appartengo a un tipo di società d’ispirazione cattolica, ma non sono tale, anche se un tempo lo sono stato e la mia educazione in gran parte deriva da essa. Un’ispirazione religiosa, per quanto complessa, è un fatto unitario, un corpo a sé, mentre i suoi fedeli sono tanti e variegati fra loro. E questo è già un primo messaggio che colgo nel saggio Le vie del sufismo verso l’Europa mediterranea di Alessandra Marchi, a cui mi sentirei di aggiungere che il ragionamento vale per ogni tipo di ideologia.
“Emergono inoltre dalla rivista parole che solo molto più tardi entreranno nel linguaggio comune, come anzitutto il termine islamofobia.” – tutti i termini che terminano con la desinenza “fobia” indicano un malessere che è dovuto ad accadimenti che possono essere stati fraintesi. Una soluzione potrebbe essere affrontare l’argomento con spirito indagatore. Ma il sentimento fobico è senz’altro più immediato e, come dire, liberatorio, almeno finché non si ripresenta nella sua prepotenza e ancora irrimediabilmente irrisolto. È un discorso semplice, quasi banale, ma non facile da accettare.
“Ancora oggi, il sufismo viene spesso descritto come ‘un altro’ islam, di cui vengono enfatizzati gli aspetti poetici, artistici, mistici a discapito delle sue manifestazioni storiche, delle tensioni interne e delle spinte conservatrici o anche radicali in epoche e luoghi diversi ma meno note oggi.” – esso non è né sunnita né sciita, ma il sufi può essere sia l’uno che l’altro; anzi, è meglio dire che un sunnita e uno sciita può essere sufi: aperto al dialogo e al rispetto per l’Altro.
Vi sono termini come Islam che tutti credono di conoscere e, più li si esamina, più si scopre la propria ignoranza. Ve ne sono altri, come sufismo, che si crede di conoscere all’incirca: qualcosa che ha a che fare con i musulmani… E poi si abbandona l’analisi.
Dopo aver letto il saggio Le vie del sufismo verso l’Europa mediterranea di Alessandra Marchi non posso certamente dire di possedere la maggior parte delle informazioni sul sufismo, però qualcosa m’è entrato. Si tratta di una dottrina e di una disciplina spirituale che può servire a capire il mondo e ad accettarlo.
Leggendo delle vicende umane e intellettuali di alcuni convertiti occidentali (Ivan Aguèli e Leda Rafanelli, per esempio), scopro “che in Egitto incontrarono islam e anarchismo, fede in Dio e nel destino, consapevoli anche delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali e della necessità di una trasformazione.” – e la cosa sorprende il lettore d’estrazione cattolica che sonnecchia in me, per cui la religione in genere, e l’islam in particolare, non dovrebbero consentire tali connubi. Quel che condiziona il mio pur incerto giudizio è l’attestazione che, nei secoli, sia nel mondo occidentale che in quello arabo, la religione e il potere politico hanno vissuto in un tremendo connubio. Quello che le più grandi religioni hanno combinato socialmente nel corso dei secoli (in Europa, per esempio, con la Santa Inquisizione) è stato talmente grave nei confronti della libertà d’espressione e del desiderio d’indipendenza, tanto che ormai il potere temporale e quello religioso paiono fatalmente affiancati. Non bisogna dimenticare che fu il governo fascista, nel 1929, a risolvere con i Patti Lateranensi l’annoso problema della discordia fra lo stato italiano e quello pontificio.
A prescindere dall’adesione all’anarchismo, da cui presto si distaccò, l’artista svedese Aguèli perseguiva una “lotta contro le insidie dell’ego…” – nel tentativo di perseguire il sogno “di una società egualitaria, rispettosa di ogni forma di vita, promotrice di valori universali, che nessuna nazione però poteva incarnare.”
Nell’opinione dell’occidentale medio esiste un naturale connubio fra islamismo e nazionalismo. Come se i governi cristiani fossero di norma esemplari nel rispetto per le altrui nazioni. E non fossero stati nazionalisti, tanto per fare un esempio eclatante, i cattolicissimi conquistadores che devastarono il Centro e il Sud America.
“Una complessa ricerca di sé e di un mondo diverso da quello in cui viveva, spinse la scrittrice elvetica Isabelle Eberhardt a viaggiare da sola in Nord Africa, vestirsi come un uomo, convertirsi all’Islam.” – e questo è un tratto comune alle varie figure di convertiti (altrove detti rinnegati) esaminati dall’autrice: un voler conoscere meglio se stessi. Il desiderio di Isabelle era di “stabilirsi in una terra più ospitale e congeniale per lei, che era appunto l’Africa, dove poter continuare a scrivere, a vivere nomade, libera dalle costruzioni sociali…” – finalmente libera! Come non poteva essere in Europa.
Si tratta di cicli storici che si susseguono beffardi. Quando vediamo un’araba col capo coperto da un hijab, che le cela i capelli e il collo, lasciando scoperto il viso, non ricordiamo che negli anni ‘70 le loro nonne giravano, anche in Iran, con abiti occidentali, pur anche succinti; e dimentichiamo che nel nostro passato vigevano simili regole (basti pensare alla Velata di Raffaello e all’Annunciata di Antonello da Messina). Giova anche rammentare che, almeno fino almeno agli anni ‘80, le nostre donne, anche nella civilissima Reggio Emilia, per entrare in chiesa, dovevano coprire il capo con un fazzoletto. Specie nel Sud, almeno in determinati paesini, la vedova doveva indossare un perenne abito nero, limitando al massimo la sua vita pubblica. A Palermo ho avuto il modo di scorgere le cosiddette Terrazze delle Cattive (da captivus, prigioniero): l’unico luogo in cui alle vedove era consentito un breve passeggio. Nella chiesa reggiana dei Cappuccini, una volta e chissà se anche tuttora, gli uomini erano destinati all’ala sinistra in fondo alla chiesa, strategicamente separati dalle donne. Tutta questa concione serve a dimostrare che il mondo occidentale non è nato femminista o, meglio, egualitario, ma lo è diventato nel tempo, e ancora molto c’è da risolvere.
In quel momento storico Isabelle sentiva il bisogno di espatriare, in cerca della propria libertà. E scelse l’Africa, e divenne musulmana.
Anche l’italiana Leda Rafanelli segue in quegli anni la propria volontà di autodeterminazione: “… in Egitto sembra scoprire le sue ‘fedi’, in apparenza inconciliabili; l’islam e l’anarchismo”, inoltre: “Ciò che in Occidente considerava un vizio, era per una virtù in Oriente, indizio di spiritualità, purezza, genuinità.”
Al convertito di siffatta natura non interessava conciliare le due fedi, né “doveva dimostrare la compatibilità tra due dimensioni ritenute generalmente antitetiche.” – si limitava a utilizzarle entrambe. Così come le individua l’autrice, esse mi danno l’impressione di due energie complementari, pur se differenti, ed entrambe necessarie per condurre a termine i propri fini umani.
La scrittrice e poetessa francese Valentina de Saint Point che si sentiva “prédestinée à l’islam” e d’essere “née avec la nostalgie de l’Orient”. Lei “guardava all’Oriente come luogo di un’alternativa sociale e politica, e non solo spirituale.” – una specie di terra dell’anima.
Nel “vocabolario sufi” si possono “cogliere degli elementi utili a leggere l’esperienza spirituale ed anche il portato politico della conversione…”: “il viaggio”, “l’Oriente”, “la scrittura” – tre forme di fuga verso la libertà. Poi ve n’è un quarto: “la percezione del ritorno alla propria patria del cuore, alle proprie origini, a Dio.” – qualunque Essere Egli sia.
Inoltre “il sufismo è spesso considerato come volto femminile dell’Islam” – il concetto viene ripetuto in due diversi punti del saggio e forse è da intendersi come un volto accogliente e materno: l’essere in sé e l’essere per sé, direbbe forse Jean-Paul Sartre: il proprio io e il suo esistere in mezzo agli altri.
“L’ordine divino ‘Kun!’ (Sii!) convoglia in chi si converte al sufismo, tutto il valore della propria esistenza.’” e, insieme, “tawba, pentimento, nel senso di ritorno a Dio.”: movimento dentro di sé e fuori di sé, verso il Kosmos.
Sento che, al momento, non corro il rischio (sempre che sia tale) di convertirmi a tale fede, in quanto qualcosa dentro di me non mi consente d’accettare che “solo Dio è il Tawbāb, il ‘convertitore’, solo Dio decide della tawba degli uomini e dell’incontro spirituale che determina una differenza tra il primo e il dopo.” – io ripudio l’idea del Fato deciso Altrove, da Chissà Chi, ma perseguo il mio de-stino da qui a lì, fors’anche fallace e con tutto il Kosmos contro, ma indipendente nel suo (anzi: nel totalmente mio) voler essere innanzi tutto in sé, sempre nel senso sartriano. Il mio per sé lo dovrò poi meditare e risolvere in ogni attimo della mia esistenza.
Nelle mie reazioni letterarie (che rigettano l’idea di essere recensioni critiche) sono solito mischiare molto della mia esistenza personale. Domando, eventualmente, venia all’autrice.
Ero un ateo, che per caso, si fa per dire, andava a sentire (proprio ai Cappuccini, ma non nel luogo destinato agli uomini, bensì strategicamente addossato a una parete) le omelie di Padre Aldo Bergamaschi. Egli era un docente universitario, prima all’Università Cattolica del Sacro Cuore, da cui fu allontanato (così m’hanno detto), e poi all’Ateneo di Verona. Nelle sue prediche, tanto ricche di pensieri filosofici, citava spesso, cara Alessandra, il tuo maestro Gramsci, senza essere per nulla comunista. Ricordo anche accenni a Schopenhauer, Marx e persino una fresca battuta di Totò. Casualmente, una settimana prima dell’arrivo di Papa Giovanni Paolo II a Reggio, egli fu allontanato dalla messa, e quell’esilio durò troppi anni. Poteva pregare e dir messa in sé e non nel suo per sé rivolto agli altri.
Ricordo alcune sue idee (ma una me la risparmio per dopo): quel che conta è il rispetto per l’Altro: dell’uomo per l’uomo, dell’uomo per la donna, del datore di lavoro per l’operaio (e ovviamente questo valeva anche nel senso contrario). Nella sua opinione il Cristianesimo era scaduto al rango di religione, essendo cessato d’essere un’esperienza d’amore. Durante una messa in cui si raccoglievano i fondi per la missione, disse: Non vi dico di dare o di non dare il vostro obolo, ma sappiate che esso servirà a trapiantare laggiù le nostre umane contraddizioni.
Padre Aldo era un maestro di dialettica socratica! Essendo egli deceduto da anni, temo che il suo insegnamento corra il rischio di essere dimenticato. Esiste un sito in rete: Amici di padre Aldo Bergamaschi, per chi è interessato.
Da alcune considerazioni che ho letto nel tuo saggio Le vie del sufismo verso l’Europa mediterranea, credo di poter azzardare un’ipotesi: Padre Aldo era (anche, ma non solo!) un sufi senza manco saperlo. Grazie a lui io divenni dapprima agnostico e in seguito (ma non fu affatto facile) mi convertii alla consapevolezza di essere un ignorante di Dio/dio (minuscolo o maiuscolo per me è lo stesso). Poiché non lo conoscevo di persona, volli incontrarlo poco prima che egli morisse. Parve dispiacersi quando gli confessai la mia mancanza di fede, ma non più di tanto. Per lui la divinità valeva in un senso platonico: Dio era la massima misura delle cose.
“… la sfera religiosa non è un campo chiuso, ma evolve continuamente e secondo modalità differenti che non corrispondono a specifiche definizioni…” – Padre Aldo non era un sincretista, ma con-fidava in una società umana in cui si poteva verificare la divisione delle etiche: nelle cose minori, come il tipo di cibo da mangiare o il vestito da indossare, fermo restando quel principio del rispetto per il prossimo che ho evidenziato poc’anzi.
In un sito internet gestito da fedeli del sufismo è scritto: “A noi è più congeniale l’approccio tramandato attraverso i secoli dai Maestri sufi, peraltro simile ad esempio a quello dei Maestri zen, buddisti e taoisti: per migliorare il mondo, bisogna partire col migliorare se stessi.” – non dalla propria tribù, sebbene anch’essa svolga un importante compito: gestire le regole sociali.
Leggo a pagina 150: “Dal 2018 è suo figlio Usein a guidare la tariqa.” – e mi domando se questo è un buon segno. Non che quel figlio non possa valere quanto il padre, ma mi viene da chiedermi se si tratti di una trasmissione ereditaria oppure di una comunanza di valori. Mi rendo conto che l’osservazione può parere provocatoria, ma è solo una richiesta di chiarimenti.
“Sembra infatti che il numero di persone occidentali aderenti alla mistica sufi abbia superato il numero di persone convertite all’islam Tout Court…” – non so dare una spiegazione al fenomeno, che però non mi sorprende: forse oggi il desiderio di spiritualità supera quello di religione. Religio deriva forse da ligare, legare, stringendo il proprio sé a dei valori; oppure da lègere, scegliere: devi decidere se vuoi essere libero o legato; quali nodi accettare, e quali no. L’uomo, nella sua disgraziata nudità, ha bisogno di catene, oltre che di possibilità di fuga.
“Quel che l’eredità storica sembra aver portato a sviluppare è proprio una maggior attenzione al sé, alla ricerca di realizzazione – anche spirituale – personale, soggettiva.”
Una ventina d’anni fa mi capitò di leggere la traduzione italiana del Corano, non l’originale al-Qur’ān, ignorando la lingua araba. Più o meno nello stesso periodo lessi il Libro di Mormon, scritto (ignoro in quale lingua originariamente: l’ebreo?) oppure inventato di sana pianta (chi può comprovarlo, ormai?) da Joseph Smith, che secondo la tradizione lo aveva tradotto in inglese, grazie all’ausilio di una creatura celeste.
Mi domando quanto la mia ignoranza delle lingue originali mi abbia consentito di comprenderne il significato.
Leggo, a pagina 186: “Ogni traduzione implica però uno scarto rispetto all’originale: nonostante il dogma del Corano increato, ovvero della sua corrispondenza alla parola divina, esistono delle possibilità interpretative e permangono sempre anche dei rischi nell’interpretazione.” – che sono connaturati alla parola stessa, a meno che essa non sia di natura divina. Ogni traduzione è un tradimento, oltre che un tramandare. Anche ogni esegesi probabilmente lo è. Anche ogni mia reazione letteraria!
Qualcosa che leggo a pagina 188 mi fa pensare a quelle vecchiette che, il 7 marzo del 1965, s’adirarono quando, da una domenica all’altra, fu abbandonata la messa in latino, lingua che esse pur ignoravano. Ma a loro piaceva così tanto pregare in quel mistico idioma.
Leggo ora: “… nella lingua sacra bisogna pregare” – anche senza “saperlo parlare”. Del resto la tradizione di tutte le religioni è ricca di esicasmi e di mantra a volte incomprensibili. Quel che conta è l’effetto spirituale a cui essi conducono.
Vivere la morte di Enzo Bianchi, che ho letto in contemporanea al tuo saggio, include la raccolta di morti sante di innumerevoli martyrēs (nel senso di testimoni) cristiani, ebrei, ortodossi e persino un luterano!… nonché di tre sufi (che sono, a quanto mi hai fatto capire, degli islamici trasversali): di Rābi’a, immensa mistica; di Hallag Ibn Manṣûr, la cui personalità è senz’altro esagerata, sebbene affascinante; nonché del più serafico Rumi.
Questa comunione letteraria è un dato significativo se il fine è giungere al dialogo non solo tra i fedeli delle varie religioni, ma anche con chi crede a modo suo o non è del tutto certo di non credere (com’è il caso del sottoscritto).
Gran parte del tuo bel libro, specialmente nell’ultima parte, è rivolta all’esame della diffusione della dottrina sufi al di fuori del mondo islamico. Non so giungere a una sintesi delle informazioni che tu fornisci con tanta dovizia di particolari. Forse non è umanamente possibile, se non riportando gran parte di quanto hai scritto nel saggio. Il che non mi pare opportuno.
M’è parso di capire che il fenomeno si stia diffondendo sempre di più in Europa e nel resto del mondo. Essenziale è che non conduca a fraintendimenti e a radicalizzazioni, seguendo l’infame destino di tante altre fedi.
Mi fa piacere attestare che esso sia ben presente anche nella mia Reggio Emilia, e mi auguro che questo diventi una chance in più di conoscere se stessi, seguendo il monito di quella massima iscritta in greco antico presso quel celebre tempio del Puro Apollo a Delfi: gnōthi sautón.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Alessandra Marchi, Le vie del sufismo verso l’Europa mediterranea, Meltemi, 2023
Info
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