“Le poesie” di Guido Gozzano: un libro incomprensibile agli intellettuali di oggi
Troneggia, di fronte a me, maledetta Torraccia di Babele, l’infinita serie di opere che devo leggere. Si colga l’articolo determinativo. Non è una, ma è la, l’unica e irripetibile Torraccia. Uno scrittore, piccolo e mediocre che sia, finge anche quando dorme, si falsifica anche dice davvero.
Troppe opere? O non sufficienti? Le leggerò tutte: poscia, alza la coscia e pis… Chissà se Guido Gozzano era a conoscenza di questa espressione infantile ma non troppo, quasi liceale direi. Oggi tocca a te, Guido. Alza quell’arto e vedi tu quel che devi fa’.
Ultima avvertenza prima di scioglierti la briglia e la lingua. Non sono un lettero-analista, ergo io non critico, ma assaggio, degusto, raramente sputo, anche quando è cibo per cani. E se il tuo lo è, è per abbaianti di razza. E io uggiolerò insieme a te, se me lo concedi, né puoi più esimerti, ormai. Anch’io sono come te un sempio, un semplice (im)paziente, non un sapiente cerusico, come quell’Eugenio Montale che, pur non laureato, sa cantare i limoni, più che i bossi, i ligustri e gli acanti. E ama te, come leggo nel suo incerto (nonché dottissimo) Saggio introduttivo del libro Le poesie. E la cosa non mi sorprende. Esco ora dalla turbolenta turba e t’ascolto, fissandoti dritto negli occhi. Stando insieme a te, quel diabolico ferrovecchio che segna il tempo pare sopirsi. Scrive il saggio Eugenio: “I suoi versi più belli (e sono molti)…” – il che ben poco significa: i più belli fra quelli di Guido – “… cantano ma non cantano liricamente come i versi migliori di D’Annunzio e del Pascoli…” – non pizzichi la lira, mio caro, forse che smanetti il banjo? – “… e più che cantare raccontano, descrivono, commentano.” – come farebbe un Claudio Lolli qualsiasi, svariate decine d’anni dopo.
“Se si ammette, come alcuni ammettono, che l’Ariosto epico, in confronto col Tasso della ‘Gerusalemme’, sia soprattutto un sommo prosatore e narratore in versi, si dovrebbe concedere che Gozzano sia stato, nel suo tempo e nei suoi limiti, l’Ariosto dei motivi decadentistici non suoi che in lui confluirono.” – Eugenio, prima di leggere in televisione la poesia di Michelangelo che termina col verso “però non mi destar, deh, parla basso”, dicesti che i suoi versi erano “polvere di genio”. È complicato per me capire il tuo ragionamento, anche se amo tantissimo il tuo ermetico polvuscolo.
“Gozzano è stato il più artista dei poeti del suo tempo…” – ma lasciamo a Montale quel che è di De Sanctis e a Guido quel che è di Guido. Orsù, leggiamo il Poeta.
No, prima devo riportare l’ultimo pensiero del genovese: “Un libro limitato e autentico, del tutto incomprensibile agli intellettuali d’oggi che si vergognano di Puccini…” – poveretti – “… perché egli intarsiò i suoi versi di citazioni classiche e amò il suo ‘mestiere’ di poeta, l’ultimo dei nostri classici, o se volete il penultimo, il terz’ultimo…” – caro Eugenio, tu sarai sempre, per me, la maglia nera più luminosa del ‘900: Spesso il male di vivere ho incontrato… (o era il mare?).
Ora tocca a te, Guido.
La via del rifugio: “Ma dunque esisto! O strano!/ vive tra il Tutto e il Niente/ questa cosa vivente/ detta guidogozzano” – sì, tu esisti ora che t’ho accertato, essendo stato prima come pavida onda.
“e vedo un quadrifoglio/ che non raccoglierò.” – fai bene, per terra esso dovrà vivere la melanconia.
“A che destino ignoto/ si soffre? Va dispersa/ la lacrima che versa/ l’Umanità nel vuoto?” – diventa aeriforme, come tutti noi, un bel dì.
“Verrà da sé la cosa/ vera chiamata Morte:/ che giova ansimar forte/ per l’erta faticosa?” – a quel problematico Nulla serve.
L’analfabeta: “‘Buona è la morte’ dici e t’avventuri/ serenamente al prossimo congedo.” – occorre però fare la fila col bigliettino infilato nel guanto.
Il responso: “Fanciullo, e verrai tu, compagno alato della/ seconda cosa bella – il non essere più –” – il non essere ancor quel Nulla.
I sonetti del ritorno: “Ohimè! Sul pianto nella via/ l’implacabilità dell’Universo/ ride d’un riso che mi fa paura.” – perché ancora non sai che è bello essere cucinato come la tua paperella, e ingoiato dai famelici posteri.
Il filo: “Il Vecchio tacque. M’additò la cenere.” – e il più bel tacere non fu mai scritto!
Ora di grazia: “Oggi il mio cuore è quello di un fanciullo, se pur la tempia già non s’impoverisce.” – biancheggiando, scarna, entropica.
“Nulla s’acquista e nulla va distrutto:/o eternità dei secoli futuri!”: E = mc2.
Speranza: “Non so perché mi faccia tanta pena/ quel moribondo che non vuol morire!” – perché tanto ti somiglia!
L’inganno: “Tutto muore con gioia (Impara! Impara!)” – mo’ m’o scrivo, direbbe Massimo Troisi.
Parabola: un bimbo morde la mela e pensa… “Non sentii quasi il gusto e giungo al torso!”
Ignorabimus: “Certo un mistero altissimo e più forte/ dei nostri umani sogni gemebondi/ governa il ritmo d’infiniti mondi,/ gli enimmi della Vita e della Morte.” – non tanto alto, un metro e venti, o ancora più microscopicamente lillipuziano.
La morte del cardellino: “Chi pur ieri cantava, tutto spocchia,/ e saltellava, caro a Tita, è morto.” – ed è capitato a te, guidogozzano, a quell’eugenio e capiterà a stefanpioletto, presto o tardi.
L’intruso: “‘Il vento in casa!’ Il vento cresce, cozza/ sibila, mugge, come cento buoi.” – cozza con le cozze, mugge a Muggio (e dintorni).
La forza: “‘Uccidi – griderei – Uccidi! Uccidi!” – che finché c’è morte c’è speranza!
La medicina: le bellezze umane, le più caduche e meno sobrie, “mi farebbero ancora sano e forte!” – ancora per poco tempo, forza!
Il sogno cattivo: “E poi un mare… e poi cado in un gorgo/ tutto di bande di color di rame.” – il Khaos ingloba anche me, non dirgli mai di smettere di farmi precipitar…
Miecio Horszovski: più giovane di te di nov’anni e che tenne duro fino al ‘93, convolando in-fine a giusta morte: “E tu non sai! Il suono t’è un trastullo:/ tu suoni e ridi sotto il cielo grigio/ nostro piccolo consolatore!” – che ora non sa consolare manco se stesso.
In morte di Giulio Verne: “Pace al tuo grande spirito disperso,/ tu che illudesti molti giorni grigi/ della nostra pensosa adolescenza.” – tu che bucasti la terra e ci promettesti la luna, oibò!
La bella del re: “occhi neri ed i più bei/ denti, sana, bionda, snella/ (ora già non son più quella;/ parlo del cinquantasei!)” – di quale secolo, cocca?
Il giuramento: “Solleva lo sguardo,/ mi dice: ‘bugiardo!” – e chi non lo è getti il primo, intrecciato, dito.
Nemesi: “e vano dire sempre/ e vano dire mai” – e vano è dire. “Certo. Ma che bisogno/ c’è mai che il mondo esista?” – è la necessità che non esista, che è illusoria.
Un rimorso: quattro volte leggo, con alcune varianti: “O Guido! Che cosa t’ho fatto/ di male per farmi così? – bimba, m’hai alitato addosso!
L’ultima rinunzia: “Ma lasciatemi sognare/ ma lasciatemi sognare!” – stavo dormendo, tu m’hai scetato – “Ma lasciatemi sognare!” – anche me, grazie!
I colloqui: “Non vivo. Solo, gelido, in disparte/ sorrido e guardo vivere me stesso.” – non frangere lo specchio, ti scongiuro!
L’ultima infedeltà: “un riso che mi torce senza tregua/ la bocca… Ah! veramente non so cosa/ più triste che non più essere triste! – aver un defunto sorriso in bocca?
Le due strade: “‘Signora!… Arrivederla!…’ gridò da lungi, ai venti.” – non ti preoccupare, ormai voi due miserelli siete entangled, correlati in quel (chissà se atroce) buio eterno.
Elogio degli antichi ancillari: “Lodo l’amore delle cameriste!” – e dei cameristi, per non far i sessisti.
Il gioco del silenzio: “Non so se veramente fu vissuto/ quel giorno della prima primavera.” – io ci andai, ma giunsi tardi, e non m’aprì alcuno.
Il buon compagno: “Amor non lega troppo eguali sempre.” – in amor vince chi è diverso.
Invernale: “Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, più tetro…/ dall’orlo il giaccio fece cricch, più sordo…” – se non mi sorge alcun commento, forse anch’esso sta in du suonnu.
L’assenza: “L’azzurro infinito del giorno/ è come una seta ben tesa; ma sulla serena distesa/ la luna già pensa al ritorno.” – che anch’io conosco, lunatica come poche.
Convito: “Amore non mi tanse e non mi tange;” – a me tangette, e poi mi spalmai la cremina.
Alle soglie: “Ti svegli dagl’incubi innocui, diverso ti senti, lontano;/ nè più ti ricordi i colloqui tenuti con guidogozzano.” – né con stefaninpiolin, nè e né. Nèné!
Il più atto: “Ed egli sia quell’uno felice ch’io non fui!” – che mai intesi essere, ché egli mai fui, io!
Salvezza: “Benedetto il sopore/ che m’addormenterà…” – perché gli occorre una buona parola perché non ti sceti. – “meglio dormire, meglio/ prima della mia sera.”: a pagare, morire e svegliarsi c’è sempre tempo.
Paolo e Virginia: “Ah! Se potessi amare! Ah! Se potessi/ amare, canterei sì novamente!” – con l’ugola starnazzante di neonato.
La signora Felicita ovvero la Felicità: che è colei che più amai, in giovinezza: “Sei quasi brutta, priva di lusinga.” – e con quel certo non so che un po’ raffredda i miei infocati dardi…
“mi lusingò quel tuo voler piacermi!” – quel timidissimo ammiccamento… Ma sii accorta, cara che “L’Eguagliatrice numera le fosse” – anche la tua, ma la mia senz’altro prima.
“Per sempre? Accetterebbe?…” – ‘Accetterei!’” – e la promessa assurda sarà mantenuta!
“Già tutta luminosa nel sorriso/ti sollevasti vinta d’improvviso,/ trillando un trillo gaio di fringuello” – che solo per noi pennuti il mondo dal nulla s’alza ogni mattina!
“ma vivere la vita! Io mi vergogno,/ sì, mi vergogno d’essere un poeta!” – e io di leggerti sono sempre più fiero e impaurito.
“Ed io non voglio più essere io!” – occhio che ci stanno infinite anime on line in offerta!
“ed io fui l’uomo d’altri tempi, un buono/ sentimentale giovine romantico…/ Quello che fingo d’essere e non sono!” – quando sei quel che non sei, batti allora un colpo!
L’amica di nonna Speranza: “Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! Ove sei/ o sola che, forse, potrei amare, amare d’amore?” – certo, qualcosa occorre pur fare, esistendo.
Cocotte: “Vieni. Che importa se non sei più quella/ che mi baciò quattrenne? Oggi t’agogno,” – e in quella gogna c’ingogneremo così ben stretti…
Totò Merumeni: “vive Totò merumeni con una madre inferma,/ una prozia canuta ed uno zio demente” – una tribù scalcagnata di apache mescaleros!
“Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette/ ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.” – il silenzio è aureo!
“E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.” – obladì, obladà!
Una risorta: “La mia vita è soave/ oggi, senza perché/ levata s’è da me/non so qual cosa grave…” – la mancanza è così lieve, talvolta!
Un’altra risorta: “Che bel Novembre! È come una menzogna/ primaverile! E Lei, compagno inerte, se ne va solo per le vie deserte” – meglio solo e infelice che male d’altrui allietato!
“Vivo in campagna, con una prozia,/ la madre inferma ed uno zio demente!” – Totò, quanto tempo è passato dall’ultima volta che…!
L’onesto rifiuto: “Non posso mare, illusa! Non ho amato/ mai! Questa è la sciagura che nascondo.” – in realtà non so se cchiù me sceterò, famme dormi’…
Torino: “Tu m’hai veduto nascere, indulgesti/ ai sogni del fanciullo trasognato.” – e mi cullerai fino ad agosto, temo.
In casa del sopravissuto: “Amore non lo volle in sua coorte/ Morte l’illuse fino alle sue porte/ ma ne respinse l’anima ribelle.” – e io sopravivo lo stesso, senza di lui e con una sola v, pensa te che cinico…
Pioggia d’agosto: tutto quel ch’ondeggia e striscia, tutti quegli infami, “sono per me come personæ,/ hanno tutti per me qualche parola…”.
I colloqui: “Ma la mia Musa non sarà l’attrice/ annosa che si trucca e pargoleggia,/ e la folla deride l’infelice.” – e che non sarà null’altro che se stessa, l’infelice.
Storia di cinquecento Vanesse: “offro al vostro tormento il mio tormento.” – e non accuso ricevuta.
Le farfalle: “Consapevoli quasi del mistero/ imminente s’ammusano l’un l’altro,/ lenti volgendo ad ora ad or la testa.” – o quel che quei bruchi attestano qual testa.
Parnassus Apollo: “La natura, l’esteta insuperabile,” – che nulla più fa se non oltrepassare sé – “la mima senza pari, volle esprimere/ la montagna in un essere dell’aria;” – e svolazzo, e sbattette, e si risollevò, in un gioco che parve eterno.
Pieris brissicae: “la Natura, che i retori vantarono/ perfetta e infallibile, si svela/ stretta parente col pensiero umano.” – quel suo fratello, insano e supponente come pochi altri.
Anthocaris cardamines: “Primavera è per me questa farfalla/ fatta di grazia e di fragilità!” – da chi ha preso, dalla bisavola della trisnonna?
“La Primavera non è giunta ancora,/ ma l’Antòcari vola e il cuore esulta!” – evviva! almeno lei!
“Aprile! Marzo andò: tu puoi venire”…” – o adorato mio mese agostino!
Ornithoptera Pronomus: “dove la luce tremola e scintilla/ tra il fasto delle felici arborescenti.” – che emozione da nulla! E in cui si dovrà per sempre confidare!
Acherontia Atropos: “Farfalla strana, figlia della Notte, sorella della nottola e del gufo,” – alla fine simmu tutti parenti!
Macroglossa stellatarum: “Ma il fiore – che sa tutto – non ignora/ che vano è al mondo attendere conforto/ se non da noi, che la farfalla esiste/ pel suo bene e la sua specie.” – e l’umano che crede di non averla, la specie, d’esser lui speciale!
“Un enimma più forte ci tormenta:/ penetrare lo spirito immanente,/ l’anima sparsa, il genio della Terra,/ la virtù somma (poco importa il nome!), leggere la sua meta ed il suo primo/ perché nel suo visibile parlare.” – guidogozzano mio, sì che t’accetto il testamento!
“giusto è pensare che tra questi l’uomo/ è lo stromento dove più rivibra/ la grande volontà dell’Universo.” – no! Questo lo rigetto! Amici lo stesso?
“ribelli alla materia, eguali, a fronte/ non di numi tremendi inaccessibili/ ma di fraterne volontà velate.” – da quella zoppa e lieta Maya-lina che ci grugnisce in faccia e che c’abbaglia!
Lo sai, guidogozzano, che m’hai ispirata una poesiola ma, ti prego, non mostrarla all’ingenuo Eugenio, per favore!
Eccola (ma è solo l’incipit, perché seguiranno, prima del fatidico dì, ben altri versi): So la mia vita tanto bella/ perch’è colma di mortadella!
Sarà un carme tanto mio quanto tuo, ma sol se tu vorrai!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Guido Gozzano, Le poesie, Garzanti, 1971