“Fujire è vergogna” di Gianni Romano: Gela, l’essenza dell’essere isolani
Esigue radici nel loro irrobustirsi scavano, si propagano, si moltiplicano mentre assorbono dalla terra ogni sostanza indispensabile per lo sviluppo del proprio tronco, sostanza che diverrà eterna poiché ne caratterizzerà il midollo, rendendolo unico in ogni luogo nel quale esso deciderà di fissare la propria dimora.
Il luogo natio è una culla calda, confortevole e amorevole, nella quale chiunque vi faccia ritorno si ritrova ad essere il bambino che è stato, anche in età avanzata.
Essa è il ventre che genera e trattiene legati a se per sempre, i suoi figli, qualsiasi cosa accada.
“I tuoi figli non sono figli tuoi”, recitano i bellissimi versi di Khalil Gibran eppure, apparteniamo alla terra che ci ha generati nel corpo, nell’animo e nell’intelletto, più di quanto crediamo.
L’attaccamento alla terra natia esula da ogni decisione futura che l’individuo adotterà per la sua sopravvivenza.
Ci sono decisioni dolorose che lacerano e spesso, la necessità di “fujire” per disegnare il proprio futuro, posiziona gli individui sul filo del rasoio, per cui i loro cuori sanguinano.
Il 29 maggio 2023 esce per Catartica Edizioni “Fujire è vergogna” di Gianni Romano, una brillante e avvincente raccolta di otto racconti incentrati sull’armonica fusione tra leggende e fatti reali evolutesi nella città natale dell’autore: Gela.
Ad aprire il libro non c’è una prefazione, ma la “Vergogna tracklist”, una lista di ben otto tracce musicali, una per ogni racconto, scritte appositamente per questa raccolta da artisti dell’etichetta UR suoni, le tracce si possono apprezzare in ascolto attraverso il QR code stampato di seguito alla lista.
La raccolta, a mio avviso, è frutto di un viaggio introspettivo dell’autore che vuole condividere con i lettori i suoi scatti. Eh sì, proprio scatti!
Gianni Romano è infatti un osservatore attento, un fotografo di istanti che arrivano, che possono essere percepiti e vissuti durante la lettura, anche se il lettore non è mai stato il protagonista di quelle storie.
“Tra la battigia e le prime acque comparve il branco al gran completo, l’esercito martoriato dalle zecche con i loro nasi feroci che scandagliavano la sabbia in cerca di carcasse depositate sulla riva.”
I racconti sono fotografie di situazioni reali, che non sono però osservate dall’autore nella loro complessità.
La società è da sempre stata una palla colma, nella quale gli aspetti negativi, purtroppo, prevaricano su quelli positivi.
Osservare questa sfera nella sua globalità è da superficiali, essa crea talmente tanta confusione che lo spettatore, perplesso, si arrende, non si sforza, non riflette, non analizza, non si esprime e non combatte affinché la propria visuale e quella altrui possa migliorare allargando l’orizzonte.
Gianni Romano non teme, si ferma e con coraggio viviseziona ogni particolare lercio e corrotto, affinché sia visibile anche a colui che si rifiuta di vedere.
Egli riesce a sminuzzare e sviscerare la complessità dei meccanismi sociali, quelli che sono diventati indegnamente abitudini e verso i quali ormai più nessuno fa caso, quelli verso i quali nessuno può osare puntare il dito.
Nel libro, la sfera complessa è rappresentata dalla città di Gela, Gianni Romano fotografa e viviseziona gli spaccati di vita dei quartieri cogliendo e denunciando senza timore, il marcio che ha logorato la sua città.
In ciascun racconto, l’autore si focalizza su un particolare aspetto e fa emergere le emozioni evocate dai ricordi custoditi nella sua mente e nel suo cuore. Per cui, servendosi dei suoi impulsi interiori, racconta la società nella sua marginalità e nell’indifferenza totale nella quale vive a causa di se stessa.
Il deturpamento del territorio e l’alterazione dell’equilibrio biologico avvenuti a partire dal 1963, in seguito alla costruzione di un complesso industriale di raffinazione, sono stati la scintilla che ha acceso le fiamme del degrado generale della città.
L’industria si ingigantisce svenando i territori, illudendo le popolazioni e dona in cambio inquinamento, desolazione e morte.
Morendo il territorio, i quartieri vengono invasi dai fantasmi, la disperazione predomina, la criminalità si accomoda sul trono.
Il disagio sociale diventa caratteristica delle città affollate, nelle quali si può gustare un cocktail mordace mescolando degrado, ignoranza e miseria. In questo modo, lo sfruttamento e l’ingordigia, tipici di coloro che sanno di poter prevaricare sui loro simili incatenati alla fame, diventa consuetudine.
“Per puro svago, o piuttosto per un’ingordigia che non poteva essere sfamata, le sue ricerche continuarono in tarda età, l’età della ricchezza goduta.”
Il degrado va a braccetto con le deviazioni mentali che silenti sottomettono, assoggettano e imprigionano corpi e menti in meccanismi luridi e deplorevoli.
“Sulla bimba correvano voci di un presunto ritardo mentale, un’incoscienza lasciva che la sottoponeva ad angherie corporee da parte degli altri figli della strada, e a volte anche dei loro padri.”
Ovviamente, non può mancare l’attenta osservazione oggettiva e obiettiva sul credo, sul sacro, sulle usanze locali ad essi collegate, che sono radicate ma che per i più divengono inconsciamente abitudini, appuntamenti dai quali non ci si può esentare.
“Le scale di Santa Maria Assunta riescono a sopportare a malapena il peso dell’onda nera creata dalle donne in prima fila ammassate nei loro scialli e ansiose nell’attesa che compaia il grande Cristo con la sua croce in spalla.”
Infine l’ultimo racconto, quello che dà il titolo al libro “Fujire”. Come detto nell’introduzione, siamo legati alla nostra Terra natia da un cordone invisibile, che ci identifica, ci trattiene e ci riconduce nonostante ci lasci andare.
Restare o partire è da sempre il dilemma degli isolani, delle persone del sud che amano profondamente la propria casa ma che spesso in essa, non intravedono un futuro degno. Questo dilemma rappresenta un dolore che prova sia colui che resta, sia colui che parte, esso è un filo sottile e doloroso, tanto doloroso.
Ci vuole coraggio a restare o a partire?
Restare significa combattere spesso contro i mulini a vento per cercare di salvarsi, di sopravvivere, di emergere rischiando di vivere in miseria, disperazione, degrado…
Partire vuol dire inseguire i propri sogni, trovare un lavoro e avere la possibilità di costruirsi un futuro migliore lontani da casa, dal luogo in cui le proprie radici si sono nutrite d’amore per far sì che si divenisse l’essere che si è ma, agli occhi di coloro che restano, si può apparire come sempliciotti come codardi che si arrendono dinnanzi alle difficoltà e scappano. Per questo, in coloro che partono, resterà sempre un senso di colpa e vergogna assieme alla speranza di essere capiti e perdonati da coloro che invece decidono di restare.
Essere isolano significa avere il privilegio di respirare profumo d’amore in ogni luogo, in ogni cosa, in ogni movenza e palpito.
Essere isolano significa rinascere ogni volta che si torna e sentire gli strappi al cuore ogni volta che, partendo, pian piano si muore.
Essere isolano significa avere una visuale dischiusa, aguzza e pertinente che va oltre i confini delineati dalla terra, egli sa, che oltre i confini, c’è l’immensità del mare che tutto ammansisce nel suo eterno reiterare.
Il libro di Gianni Romano merita, per cui vi esorto a leggerlo e nel frattempo gli rendo grazie, per aver rispolverato in me l’essenza preziosa dell’essere isolana.
Written by Manuela Orrù