“La coppa d’oro” di Henry James: quando l’ipocrisia borghese diventa salvifica

Ahhh! Recentemente m’è capitato di cadere in quelle simpatiche botole informatiche in cui l’onnipotente zio Google, nella sua infinità bontà, ti fa precipitare, te e il tuo telefonino, quando, per caso e per necessità, e per rinfrescare la tua idea sul termine chiasmo, vai a cercare sostegno presso quei suoi spigolosi meandri.

La coppa d’oro di Henry James
La coppa d’oro di Henry James

E subito, dal Nulla, appare il link, che è sempre bene ricordarsi che significa in primo luogo anello, attinenti i 15 libri più difficili da leggere. Con mia grande soddisfazione ho letto da anni i primi 13. Ma con altrettanto grande scorno non ho letto Infinite Jest di David Forster Wallace e L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon. È ovvio che subito mi prodigo a guardare nella chiarissima selva googoliana di che argomento trattino. È altrettanto ovvio che cercherò i due titoli presso la mia pusher di libri preferita, una certa Beatrice, nonché sulle bancherelle dei mercatini.

Sto meditando, ma solo per celia, di scrivere a Zio Google per quale arcano motivo non ha inserito nella suddetta lista La coppa d’oro di Henry James.

Riuscirò mai a leggere quei due titoli che mi mancano (insieme a svariati milioni di altri?). È come chiedere a uno scalatore che, come Reinhold Messner, ha scalato tutti i 12 ottomila, se gli sfugge il dato che campeggiano da svariati milioni di anni (sempre in Asia) altri 200 settemila. Si tenga altresì presente che Sir Edmund Percival Hillary, al giornalista che gli chiedeva come avesse concepito si scalare l’Everest, primo uomo della storia, rispose semplicemente: perché era là. La similitudine fra leggere un libro e scalare una montagna è così azzeccata che mi viene da dubitare di essere stato il primo a formularla.

Ai piedi del ghiacciaio, al campo base principale c’è l’Introduzione di Viola Papetti, che è così interessante (è lei che parla di chiasmo) che non mi sento di dovermi innalzare a citare le sue acutissime considerazioni (sono , da pagina 5 a pagina 21). Colà, invece, facente parte del romanzo, da pagina 49 a pagina 68, c’è la Prefazione scritta dal medesimo Henry James. Un solo commento: entrambi gli scritti propedeutici meriterebbero di essere imparati a memoria e recitati tutte le sere di maggio. È pura letteratura: assurdamente oziosa.

Sto ora ri-leggendo, sempre per caso e per necessità, l’originale in francese de Le Chants de Maldoror di Lautréamont. Quando un morbo infetta, a Reggio si dice che attacca (m à tachê al ferdôr!, il raffreddore!), mentre ad Amalfi si dice che mischia (m’ha mischiato ‘o virus!). Quando lessi, solo nella traduzione italiana, quei Canti ero più o meno dell’età che aveva Isidore Lucien Ducasse quando li andava scrivendo. Ancora patisco alcune patologie derivate da quella lettura. Ebbene, per una sorta di chiasmo, ebbene sì!, leggendo i due autori ho provato la sensazione che fossero fra loro entangled, correlati, specie per quando riguarda la suddetta Prefazione, in cui pare che Henry James (uno yankee che scelse di britannizarsi) vada rovesciando i detriti, come quel Maldoror, al fine di rinvenire la ragione della propria scrittura, nonché della propria esistenza. Non dico altro, per un’ipocrita forma di rispetto. Invito i lettori di questo mediocre lettore di svolgere l’ingrato compito (burden direbbe Rudyard Kipling) di leggere o rileggere entrambe le opere, al fine di chiasmare insieme ai due incliti autori, nonché a me.

Ci sono tre coppie che interagiscono nel romanzo: Amerigo il principe, nobile squattrinato, ma questo prima del matrimonio, sua moglie Maggie, Adam Verner, padre di Maggie, Charlotte Stant, seconda moglie di Adam Verver, per cui diventa la matrigna di Maggie, Fanny sposata a un colonnello di cui non cito il nome perché non lo rammento. Dei rimanenti personaggi ricordo poco. In quel poco c’è il “principino” di pochi anni, figlio di Amerigo e di Maggie.

Charlotte è stata (fino a quando?) amante di Amerigo. Fanny ama il principe da lontana, essendo al contempo cara amica delle due rivali. Amerigo “riconosceva perfettamente – sempre nella sua umiltà – che il materiale della costruzione dovevano essere i milioni del signor Verner.” – i soldi, come la serva per Totò, hanno il brutto vizio di servire, senza dare la felicità, ma nemmeno togliendola: “… le vetrine lucenti, tutto intorno a lui, erano denaro, erano potere, il potere dei ricchi.” – che di buono ha il fatto che ti liberano dall’obbligo di sgobbare quale dipendente alienato.

A pagina 129 rintraccio finalmente il nome del colonnello: Bob Assingham. Il quale dice alla moglie (donna fin troppo speculativa): “Non c’è cosa al mondo, mia cara, che io possa dimostrare.” – per cui Henry James (il primo e al contempo il settimo fra cotanto senno) non può che affermare: “Ebbene, non c’era cosa al mondo, evidentemente, che in caso di vera necessità ella non potesse non dimostrare.” – qualora non fosse chiaro il discorso, il presente è un romanzo di narrativa-logica, dove il compito degli attori è di comprendere l’esistenza altrui, ancor prima che la propria, senza darlo a vedere, borghesemente.

Fanny: “Sì, era precisamente come se avesse dimostrato una cosa che avesse bisogno di dimostrazione, come se l’esito della sua operazione fosse stato, quasi inopinatamente, un successo.”

Bob, che potrebbe essere il nome del cagnone a cui sei tanto affezionato, dice alla mogliettina, che tanto va cogitando su Amerigo e su quella tribù, che il “fatto è”: “che tu stessa ti accendesti per il principe di un violento amore e, visto che non potevi sbarazzarti di me, ti toccò prendere vie traverse.” – chissà se quell’ex militare fu a suo tempo altrettanto accondiscendente con i sottoposti. Il dialogo quasi assurdo fra questi diversamente maturi coniugi è interessante. Ogni tanto mi diletterò a rileggerlo. Forse, non ne sono sicuro. A Samuel Beckett di certo non sarebbe spiaciuto.

Il vero protagonista è però lui, il principe, anche se con la p minuscola, ineffabile ed economo nelle parole più di quanto ci si possa attendere da un tale, pure italico, nobiluomo.

Quando parla con lui, Charlotte usa spesso il verbo volere soprattutto nella forma passata: “volevo”, anche per giustificare alcune sue pregresse azioni: “Ella si fermò come se avesse portato a termine la sua dimostrazione, ma, per il momento, senza muoversi”. – non occorrendo alla logica verbale.

“Per lui, in tutto e per tutto, le classi inferiori erano sempre cosa già risolta; la notte della loro inferiorità, o comunque la si volesse chiamare, rendeva per lui tutti i gatti grigi.” – egli – ma questa è una mia illazione, come è per me un vezzo ormai porre questi pensieri racchiusi fra due trattini – come spesso capita all’autore – egli, dicevo, dava per scontato ogni suo privilegio, questo suo essere svincolato dalle leggi comuni, che valgono per chi è comune, non per i nobili – quel che era lui –  diretto discendete di Amerigo Vespucci –  anche se a me ‘sto principe non è né simpatico, né antipatico – essendo quasi del tutto privo di empatia – e null’altro.

Andando a spasso, i due piccioncini – principe e Charlotte, lo dico per non confondere le idee al mio eventuale e ormai sfiancato lettore – entrano in un negozio dove ammirano una coppa d’oro, che tanto delizia lei, ma non lui, che si rifiuta di spendere soldi della di lei famiglia, ora suoi, in quanto mirabilmente ha scorto un’incrinatura nella stessa, che ne svilisce assai il valore.

Intanto, sto godendo di alcune graziose descrizioni dell’ambiente di Fawns (che in inglese vale per cerbiatti), il piccolo eden in cui vivono questi raffinati animaletti a due zampe.

“Di fatto non c’era stato niente, nemmeno la più piccola cosa, che potesse essere chiamata scena…” – e questo limite/qualità vale per l’intero romanzo. Ed è il motivo per cui vorrei vedere la versione cinematografica del romanzo, The golden bowl del 2000, diretta da James Ivory. Sto per ora rammentando Scene da un matrimonio (in questo caso si tratta di due connubi, anzi tre) di Ingmar Bergman.

Forse la più perspicace delle tre donne è proprio lei, la matura Fanny, che necessita della presenza apparentemente neutra del marito, poiché, quando quello “era presente, si rivolgeva a se stessa come non avrebbe mai saputo fare quando egli non c’era” – lei era il protone dotato di carica positiva, lui il neutrone, privo di alcuna carica, entrambi composti di quark e come avvinti da una sorta di energia nucleare fortissima, senza di cui non avrebbero potuto portare avanti i loro discorsi.

Charlotte: “È proprio per via del tempo – spiegò lei – È una ideuzza che mi è venuta. Mi fa sentire come un tempo… quando potevo fare quello che mi pareva.” – la sua, ma il discorso vale per tutti e sei gli attori, un po’ meno per Bob, e non è tanto una ricerca del tempo perduto, quanto un inseguimento, dedotto dalle esperienze pregresse, di quello che ancora non s’intravede.

Fra lei e il Principe accade questo: “Le labbra cercarono le labbra, le braccia una risposta alla loro stretta, e la risposta un’altra stretta ancora, con una violenza che un attimo dopo era già esalata nel più lungo e profondo dei silenzi, essi suggellarono appassionatamente il loro patto.” – che avrebbe attestato il suo profondo valore anche in un’eventuale e forse perenne lontananza, come le due particelle che, una volta venute a contatto, al di là delle leggi dello spazio-tempo, saranno per sempre avvinghiate dall’entanglement quantistico, immediatamente, hic et nunc, pur distanti in misura indicibile.

Si parla ora del principe: “Che ingenue teorie potessero affermarsi e si affermassero di fatto era una realtà che egli, sotto l’abbondare delle prove, aveva finito per accettare come precisa e definitiva…”.

Tutto accade in quell’attimo, in riferimento all’ormai fissato passato e all’inquieto futuro.

Sempre dal punto di vista di quel nobile: “… egli aveva cordialmente escogitato lì per lì un motivo ad uso di lei, porgendolo con una espressione non più significativa che se avesse raccolto, per renderglielo, un fiore che ella avesse lasciato cadere” – una delle innumerevoli similitudini che non scarseggiano mai nella tua prosa, caro il mio Henry.

Tutto era detto e taciuto “come conseguenza dell’inespresso e sempre più profondo bisogno che avevano l’uno dell’altra e senza che nemmeno una parola passasse tra loro” – non glaciale incomunicabilità, ma sottaciuta sinergia.

“… ci voleva un paio di grosse, candide, stagnanti, lucenti lacrime per accentuare la cosa.” – io avrei anche aggiunto: emozionalmente aulenti.

Più emozionata è la moglie del colonnello, quando dice di sé: “sono un essere orribile davvero…” – e quando confessa: “perpetro delitti, col pensiero.” – ed è così newtoniana quando afferma: “Be’, quando c’è qualcosa per aria dovrà pur sempre scendere a terra, no?” Dice il sempre a rapporto colonnello:C’è qualcosa, amor mio, che tu non abbia detto un giorno?”.

La signora Assingham dice di aver “dirazzato” – un po’ come te, Henry, che hai scelto l’ormai sperduta e vecchia Europa piuttosto che rimanere nell’opima e futuribile America.

Finito il Libro Primo, Il principe, è ora giunto il momento del Secondo, La principessa.

Maintenant, cependant, it’s time for dinner. See you later – nel testo, Henry, ti scappano delle espressioni francesi e ancor più, in ossequio al principe, italiane.

Nel suddetto Secondo, il tuo horcrux principale è Maggie, the princess. Fermo restando che, a parer mio, tu ti identifichi di più ancora nella signora Fanny e un po’ (abbastanza) nel di lei marito. Quando hai scritto il libro (1904) eri già quasi in andropausa (mia illazione), similmente a quell’ex graduato, e non si sa quanto eroico, milite. Ma non ignoto, grazie a te.

Maggie: “Va tutto per il meglio, e mi rendo perfettamente conto di come tutto sia splendido, in generale; ma viene un giorno in cui qualcosa si spezza all’improvviso, in cui la coppia piena, ricolma fino all’orlo, comincia a traboccare.” Tra i due principeschi coniugi non esiste coesione, in ossequio a quanto dettato dall’interazione elettro-magnetica: due corpi non giungono mai a contatto, se non attraverso i loro impulsi: un bacio, oppure un pugno, sono drammatiche seppur dolorose illusioni, prive di alcun contatto reale.

“Il placarsi della paura, per Maggie, portava sempre con sé, dapprima, il sicuro emergere d’uno stato di dolcezza; e da molto tempo niente le era parso dolce come la qualità tutta speciale che a u tratto la sua emozione presente conferiva al suo senso del possesso.” – un contatto irreale, ma non privo di interazioni e benefici.

“… le sembrava di essere un’attrice che avesse studiato e ristudiato la sua parte, ma che d’un tratto, sulla scena, alle luci della ribalta, avesse cominciato ad improvvisare, a declamare versi inesistenti nel testo.” – come la particella che, emessa da un marchingegno, muta all’improvviso la traiettoria finale: chiamala, se vuoi, indeterminatezza corpuscolare. In realtà tutto era prevedibile, pur al limite dell’assurdità. E, solo in fondo, reale, come il resto del microscopico cosmo.

“Ella aveva tenuto sempre meglio in piedi il suo discorso, gonfiandolo, affollandolo di cose; e in verità non le era rimasto difficile, perché in ogni sua parola, grazie ad un lungo travaglio di sentimenti, esso esprimeva ciò di cui ella era carica fino all’orlo.” – esso si formava grazie a quell’eccesso di energia che in qualche modo doveva produrre un mondo sempre rinnovato.

“Da questo preciso istante ella capì, capì in anticipo, e meglio di quanto glielo avrebbe appreso l’avvenire, che non avrebbe dovuto mai, nemmeno per un solo secondo, tralasciare quel suo audace proposito di dimostrare che per lei tutto andava come doveva.” – la previsione determina con precisione matematica quel che potrebbe accadere, determinandone, assurdamente l’indeterminatezza, poi la particella andrà dove andrà, e lo si saprà solo allorché la si osserverà, quando essa muterà, poco prima di estinguersi, i suoi gradi di libertà. Questo secondo Niels Bohr, per cui non si può dire che Dio giochi a dadi col cosmo, essendo solo Fatti Suoi, o se ogni volta vada barando, come invece presume John Stewart Bell.

Lei pensava “… alla strana rassomiglianza che le apparenze e i sentimenti dell’attimo presente avevano con le apparenze e i sentimenti degli attimi ormai abbastanza lontani…” – una cosiddetta media ponderata degli stessi: questo s’ipotizza.

“… la signora Assingham” si chiedeva perché certe cose si finiva per sopportarle – “per amore – le replica la principessa” – ma la signora insiste a chiedere per chi e lei, esaminata le due opzioni più ovvie, per due volte ribadisce: “Per amore” – che meravigliosa coppia di logiche, sia pure farneticanti!

“In Amerigo, la paura di restar lontano, come preciso sintomo, si era rivelata per lo meno più convincente della sua paura di entrare; egli era entrato, anche a rischio di portarsela dietro, la sua paura…” – anche se, giova ricordarlo, un principe non è mai pauroso, semmai saggio e prudente.

Qualcuno, mi verrebbe da dire che sei stato tu, Henry, invece pare sia stata la moglie del colonnello, però su tua indicazione, saputo del valore di prova di tradimento di quella tazza, e della sua incrinatura, “quel recipiente prezioso”, con gesto volutamente catartico, “lo scagliò fieramente a terra”, rompendolo in vari pezzi, mi pare tre (o quattro?). Dopo di cui il principe decise di entrare e di affrontare, con la consueta nonchalance, col suo né dire né negare, la requisitoria della consorte, scoprendo poi che lei sa tutto, ma lui, nobilmente, si limita ad acquisire il dato, senza falsificarlo. Non intende affatto entrare in un discorso scientifico, essendo per lui bastevole quello religioso, collegato a Questo folle sentimento che è l’amore. Mentre, però, nella canzone di Mogol-Battisti, l’innamorato si dichiara apertamente, qui ciò non accade, perché ogni dichiarazione è aleatoria, instabile, provvisoria. Al principe quel che interessa è il costante mantenimento dello statu quo.

“Fanny, ella era tanto costellata di virtù che qualcuna di esse, per la sua benevola disposizione a dividerle con gli altri, poteva servire a quelli che, momentaneamente incerti, fra gli ospiti, o vagamente turbati, avessero perduto la chiave delle proprie.” – e un bel dì si scoprirà, caro Henry, che ‘sto libro l’avete scritto a quattro mani, te e lei.

L’amore, per Maggie e anche per me, per tutti immagino è una “coppa d’oro con tutta la felicità dentro. La coppa senza incrinatura.” – eppure anche le mosche non ignorano che, senza incrinature, senza rotture di equilibri il mondo fisico collasserebbe non in un nuovo mondo, ma nel Nulla.

“… Amerigo, in una certa maniera tanto simile alla mistificazione, non aveva risposto a niente, non aveva negato niente, spiegato niente, chiesto scusa di niente…” – ritenendo il caso “indegno” di ogni, pur spicciola, dimostrazione o falsificazione. Egli crede nella religione dell’Amore di cui lui è il sommo pontefice.

Per Maggie, Charlotte è di volta in volta, immotivatamente, “matrigna”, “amica”, “compagna”: grazie alla presenza di tanto principe entrambe possono essere nominate sacerdotesse.

Henry, a pagina 623, tu definisci Maggiela nostra giovane amica” – ma come definiresti la moglie del militare? Collaboratrice d’analisi? Maggie e Fanny sono le due abili tessitrici di teorie psicologiche ed esistenziali, nonché le principali responsabili di quell’acuta e profonda virtualità che conduce, quantisticamente, alla realtà, prefigurandola, grazie all’energia a essa elargita. La medesima cosa accade nel vuoto cosmico, che tale non è mai, essendo un brulichio di quasi enti che esistenti non saranno mai, eccitazioni di tipo virtuale, miracolosi foraggi energetici grazie a cui si formeranno le nuove particelle, quelle sì reali.

Dice papà Verver alla problematica figlioletta: “Naturalmente tu, mia cara, vai avanti a mie spese: non ho mai avuto l’idea – e sorrise – e di farti lavorare per vivere…” – e ce ne fossero di papà così!

Il loro è un amore assoluto, non soggetto a incrinature, né ad alienazioni. Maggie però non era ancora guarita dal vizio di voler “interrogare l’avvenire e il destino” – di ognuno, soprattutto del proprio. Ma anche di quello delle persone a lei correlate. A pagina 666, la identifichi ancora, Henry mio, come “la nostra giovane amica”.

Amerigosi trovava nella sua stanza ‘personale’, dove ora si tratteneva spesso da solo; una mezza dozzina di giornali, tra i quali si notava il ‘Figaro’ e anche il ‘Times’, erano sparsi intorno a lui…”come le offerte votive al nume di casa.

Dopo di cui ogni eventuale e futuro conflitto è neutralizzato dalla decisione (presa da chissà chi, forse da tutti; senz’altro da tutte le virtualità prodotte nel vuoto di cui si diceva poc’anzi) che metà dei componenti di quella magica Coppa Familiare ha assunto, inevitabilmente, la decisione di partire in direzione Yankeeland, a tempo indeterminato, il che non vuol dire per sempre.

Resistere, come restare, etimologicamente significa stare dietro, avvinti alla propria realtà, a quel che si è, a quella roccia a cui ci si suole aggrappare, attimo dopo attimo. A questo si contrappone l’esistere che vuol dire stare in un atto stabile ma dinamico, che pur prevede un esodo, un uscire dall’argine, un ex-agerare. Viaggiare è tentare di ricostruire altrove la propria esistenza. È un ri-conoscere se stessi. La stessa scrittura, come insegna Gianni Celati, è una forma di ex-agerazione. È però ovvio che la distinzione fra essenza ed esistenza è dovuta alla nostra umana ignoranza.

Tutti quanti, finalmente, “potevano far finta di essere sinceri”: la finzione, e ogni romanzo lo insegna, è il modo più acuto di simulare un’eternità che non esiste, nemmeno se la si addobba con le vesti più sgargianti, e la si illumina col bagliore di una coppa se non d’oro, almeno dorata. E dotata di quella necessaria incrinatura, affinché valga il detto che tutto scorre: Panta Rhei.

Ulteriore considerazione: diversi protagonisti di questa storia sono i liquidi venali, con cui si garantisce il flusso vitale: “se non si fosse trattato che della certezza di essere ‘pagata’, già sembrava ch’egli le tendesse, perché venisse a prenderla, una borsa piena di denaro. Ma tra l’atto e l’accettazione di esso sorse improvvisamente in lei la sensazione di dargli l’impressione d’attendersi una confessione da lui. Ciò le ispirò a sua volta un nuovo orrore: se la sua paga doveva essere quella, se ne sarebbe andata senza denaro.” l’amore è una ricchezza che occorre non dilapidare tutto in una volta, ma spendere con raziocinio a ogni sorgere del sole.

Henry James
Henry James

Il munifico principe non può che dire all’amata, a cinque righe dalla fine: “… io non vedo che te.” – principale risorsa della mia altrimenti disgraziata esistenza.

Mi sento ora in obbligo di rivolgere un sentito grazie a Pina Sergi, traduttrice del romanzo, che, per gioco, vorrei contraddire per una sua nota, in cui ella afferma che “lo scrittore, per quanto amasse e conoscesse l’Italia, non arrivò mai ad impadronirsi della sua lingua fino al punto di saperne cogliere le sfumature ‘parlate’” – e questo si riferisce all’espressione “Che!” – la quale, a parere di Pina, equivarrebbe a “macché!”. Ad Amalfi essa è pronunciata ogni giorno, con le dite della mano destra tenute a mo’ di pigna: Chée!!

Consiglio il romanzo a chi ama soffrire leggendo, anche perché, come dice Arnold Schwarzenegger: no pain no gain!

Io però non ho patito eccessivi tormenti in questi nove giorni. Anzi, me le sono godute, una a una, ‘ste energetiche, probabilistiche e, pertanto, certe perturbazioni mentali, grazie a cui ho com-partecipato alla realizzazione di ogni singolo evento!

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Henry James, La coppa d’oro, BUR Rizzoli, 2000

 

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