Dorothea Lange: lo sguardo partecipe sui migranti dell’America
Dorothea Lange fa parte del gruppo di fotografi selezionati dal programma governativo degli Stati Uniti F.S.A. (Farm Security Administration), con il compito di documentare la vita delle popolazioni americane colpite da calamità atmosferiche e costrette per sopravvivere ad abbandonare le proprie case e a migrare in altri territori; Dorothea Lange sarà coinvolta dal 1935 fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale.
La fotografa sarà chiamata successivamente nel 1941 da un altro programma governativo, il W.R.A. (War Relocation Autority), per seguire la deportazione forzata in campi di detenzione di più di centomila cittadini americani di discendenza giapponese, ritenuti dalle autorità una possibile minaccia dopo l’attacco a Pearl Harbor.
La fotografa americana nasce in New Jersey nel 1895, figlia di immigrati di origini tedesche. Benché menomata alle gambe da una forma di poliomielite, riesce a farsi notare già giovanissima nel mondo della fotografia e, nel 1918 apre uno studio di ritrattistica a San Francisco.
Nel 1920 sposa il pittore Maynard Dixon, di vent’anni più anziano, e da lui ha due figli; divorzia nel 1935 e si risposa con Paul Taylor, che l’accompagnerà nella sua attività, supportandola e condividendone pensieri e iniziative. Nel mondo della fotografia, Dorothea mantiene però il cognome di suo madre, Lange.
Nel 1947 collabora con la nascente agenzia Magnum; nel 1952 è tra i fondatori della rivista Aperture, ancora oggi pubblicata e non solo negli Stati Uniti. Dopo una lunga malattia, Dorothea muore a San Francisco nel 1965.
Camera, Centro Italiano per la Fotografia, ha organizzato la mostra “Dorothea Lange – Racconti di vita e di lavoro”, ospitandola nei propri spazi espositivi in Via delle Rosine a Torino, dal 19 luglio all’8 ottobre 2023. La mostra comprende circa 200 fotografie dalle esaurienti didascalie, arricchite di pannelli e documenti. Sono immagini che vanno molto oltre la lucida e oggettiva testimonianza, perché sanno esprimere una profonda vicinanza ed empatia con le persone che hanno perso le proprie case, il proprio lavoro, le proprie sicurezze, e sono costrette a cercare, spostandosi altrove, una possibilità di vita e riscatto.
Il fenomeno delle migrazioni è antico quanto la storia dell’umanità ed è spesso causa di problemi come di opportunità.
Nel nostro immaginario di italiani, l’America è stata la Terra promessa che ha spinto molti dei nostri avi a imbarcarsi alla ricerca di un futuro migliore, e ancora lo è, soprattutto per molti sudamericani provenienti da paesi che sono sprofondati in profonde crisi politiche ed economiche. Per troppi, la disillusione è stata ed è grande, ma altri hanno raggiunto una vita dignitosa, qualcuno ha avuto fortuna e oggi quasi tutti fanno parte a pieno di diritto di una nazione, che è ancora la più potente e ricca del mondo.
Da anni l’Italia è, a sua volta, una piccola America per migranti che fuggono dalla povertà, dalle violenze e dalle troppe guerre, ma questo è un altro discorso.
Restando alla mostra, disorienta pensare ad americani che migrano essi stessi all’interno del loro paese, che è nazione di grandi opportunità, ma anche di sfruttamento feroce.
La Lange sa mostrare, senza enfatizzare, rispettandone sempre la dignità, individui che, pur nel dolore, nella fatica, nello scoramento, non si umiliano o arrendono.
Dove la fotografa dà il meglio di sé, è nei ritratti, nei volti dei ragazzi vestiti di stracci, smagriti, che pure trovano un sorriso timido davanti alla novità di essere inquadrati da un obiettivo fotografico; delle madri affrante, stremate, circondate da bambini che non sanno come nutrire o come curare; degli uomini che cercano di mantenere decoro pur attendendo in coda un sussidio governativo o svolgendo duri lavori nei campi come braccianti.
Prima per una lunga, interminabile siccità, che trasformò in deserto milioni di chilometri quadrati di campi coltivati, e dopo per le devastanti alluvioni, sono centinaia di migliaia coloro costretti a spostarsi con le loro famiglie dagli Stati aridi come il Kansas, verso terre ricche come la California, ma non per questo ospitali. Molte foto documentano con crudezza il divario enorme tra i ricchi proprietari e i migranti, ridotti a vivere dentro baracche ammucchiate in accampamenti cadenti, umidi, malsani e senza servizi. Allora come oggi.
I più sfruttati, soprattutto negli stati meridionali e nonostante gli sforzi del governo di combattere la discriminazione razziale, sono i lavoratori neri.
Negli scritti della fotografa, si legge non la tristezza per le situazioni di cui è testimone, quanto la sicurezza di potere aiutare queste persone, documentando e facendo conoscere senza retorica la loro condizione. Il lavoro svolto per conto del governo americano, diventa per lei una missione rivolta ad aprire gli occhi e a raggiungere le coscienze di chi, vedendo la realtà stampata su carta, dovrà fare le proprie scelte, sia egli un burocrate, un politico oppure un semplice cittadino.
Ancora più complesso, spesso sgradevole e sgradito, è il lavoro che Dorothea Lange deve svolgere, quando è incaricata di documentare le condizioni dei cittadini di origine giapponese, anche se di cittadinanza americana, deportati in isolati campi di detenzione.
La fotografa dimostra la sua grande tenacia e onestà, lottando contro una burocrazia militare che vuole impedirle di svolgere liberamente il suo lavoro, le impone cosa può e cosa non può fotografare, la boicotta sistematicamente una volta preso atto dei suoi giudizi personali. Le è proibito conservare negativi o copie delle proprie fotografie e dovranno passare molti decenni prima che il suo lavoro, chiuso e sigillato negli archivi governativi, possa diventare di dominio pubblico.
Più che segreti militari, sono sensi profondi di colpa e vergogna, quelli che si è cercato di nascondere e si sarebbe voluto dimenticare.
La Lange mostra ragazzi dagli occhi mandorla che vestono e si comportano come tutti i ragazzi americani: giocano a baseball, leggono fumetti americani, si mettono la mano sul cuore davanti alla bandiera a stelle e strisce. Si sentono americani. Sono americani. Gli anziani, invece, hanno negli occhi la triste rassegnazione orientale, un’eleganza passiva ma non ostile; non giudicano, non si ribellano, non cercano di protestare o capire le assurdità e le ingiustizie che ogni guerra, sempre, porta con sé.
Aspettano che il tempo faccia giustizia del passato, che la nazione che prima li ha accolti e poi emarginati, li accolga nuovamente.
Written by Marco Salvario