Philip K. Dick: “Se pensate che questo mondo sia brutto, dovreste vedere gli altri”

Metz, Francia, 24 settembre 1977

Philip K. Dick - Metz - 1977
Philip K. Dick – Metz – 1977

Seduto sul palco della sala congressi dell’Hotel Sofitel, Phil fece vagare lo sguardo fra le file ormai gremite dell’uditorio con pacata accondiscendenza. Riconobbe i colleghi, John Brunner, Harry Harrison, Roger Zelazny, Fritz Leiber. E poi i giornalisti, i critici, gli editori. E il pubblico, anonimo ma adorante, accorso per ascoltare i vaticini del moderno profeta dell’umanità.

Quelli del comitato organizzativo avevano insistito per mesi, e ora lui, l’acclamato ospite d’onore del Festival Internazionale di Scienza Fiction, era pronto.

Il discorso che si era preparato lo aveva scritto di getto, nella sua residenza californiana di Sonoma, aiutato dalle amorevoli cure di Tess, la sua quinta moglie, incontrata anni prima a Los Angeles, e il titolo scelto lo soddisfaceva appieno: “If you find this world bad, you should see some of the others.”

Metz è una ridente cittadina di origine gallo-romana capoluogo della Lorena, con una delle più famose cattedrali gotiche del mondo. Il comitato organizzatore aveva scelto la location con cura e aveva predisposto un programma che spaziava dal cinema al fumetto, ma l’attrazione vera era lui, Philip K. Dick, da sempre orbitante intorno all’affascinate pianeta della fantascienza.

Phil diede un colpetto al microfono e il suo sguardo intercettò quello di Harlan. Harlan, che dopo la scomparsa di James era rimasto l’unico vero amico.

Harlan Ellison, l’eccentrico scrittore in perenne lotta col “sistema”, colui che anni prima aveva sconvolto tutti, a Berkeley, in quel periodo culla della contestazione politica più radicale.

Se li ricordava quei tempi, Phil. E si ricordava di “Visioni Pericolose”, l’ambiziosa raccolta di racconti sci-fi pensata da Harlan per rivitalizzare e dare un nuovo impulso al genere e lanciare scrittori emergenti. Proprio come lui. Che tempi… Timothy Leary e i Grateful Dead. Musica e acidi. Era il periodo di “Ubik”, quello.

A Phil però l’Lsd non interessava. Solo qualche pasticca, ogni tanto, perché la sua passione era tutta concentrata sui farmaci, che assumeva in quantità smodata per tenere a bada la sua ipocondria. Era capace di ingurgitare decine di compresse di metredina ogni giorno, convinto dell’effetto benefico prodotto sulla sua psiche.

Come il nebulizzatore di “Ubik” vinceva l’entropia, così gli antidepressivi triciclici rigeneravano il suo pensiero.

Con un gesto lento, Phil si portò il bicchiere alle labbra e bevve un paio di sorsi d’acqua.

Ancora pochi secondi, e l’annunciatore l’avrebbe presentato al pubblico. Aveva attraversato l’Atlantico convinto che le sue parole sarebbero state accolte come una rivelazione. Si immaginava interviste, copertine di “Time Magazine”. Si vedeva già nelle vesti di uomo dell’anno, Phil.

Ma era pronto l’uditorio? Era pronto il mondo ad accogliere verità così sconvolgenti?

Phil se lo chiedeva in continuazione, e rivolgendo gli occhi dentro di sé, lo domandava anche all’amata sorella gemella Jane, morta poche settimane dopo il parto, e ancor di più a James, suo fratello in spirito.

«C’è qualcosa che non va in questa esistenza, vero Phil?»

«È così, Jim, l’apparenza ingannatrice, il Deus Absconditus, il Demiurgo, l’entità negativa che ci tiene prigionieri in questa vita…».

Già, James Pike. Il controverso Vescovo della Chiesa Episcopale di San Francisco. Un Vescovo sui generis, un po’ eresiarca un po’ dissidente, una mente eterodossa che si plasmava alla perfezione con l’atmosfera psichedelica che aleggiava in quegli anni sulla baia. Nessuno dei numerosi seguaci del monsignore si era meravigliato quando aveva commissionato per la Grace Cathedral una vetrata gotica per effigiare John Glenn, Martin Luther King e Albert Einstein. E neppure quando aveva invitato alcuni gruppi rock emergenti a suonare durante le funzioni domenicali. Una cosa che sarebbe piaciuta un sacco a Thomas Pynchon.

James Pike. Phil pensò alle loro discussioni infinite. Discutevano per ore de “I Ching” e di quel controverso esagramma 60, del “Bardo Thodol”, e di “Le tre stimmate” di Palmer Eldritch. E di Dostoevskij e Meister Eckhart. Ma soprattutto di Valentino e Basilide, gli eresiarchi per eccellenza dei primi secoli dopo Cristo, secondo i Padri della Chiesa.

Sì perché erano stati loro, insieme a Simon Mago e a Marcione, a intuire che qualcosa non andava nel mondo così com’era. Illusione e prigione. Un dannatissimo errore, insomma. Lo scherzo beffardo di un Dio malvagio, un Demiurgo poco inspirato o forse no, felice di tenerci tutti nelle tenebre. Solo pochi, gli illuminati, coloro che prendono coscienza di questo stato illusorio, possono percorrere il cammino per risalire alla luce del “Pleroma”, alla pienezza dell’eterno principio divino.

E Philip K. Dick si sentiva uno di loro. Un illuminato.

Furono messi a tacere, gli gnostici. Nei primi due secoli rappresentarono l’ala estrema all’interno del dissenso cristiano. Erano come dei proto punk sobillatori, anarchici individualisti antisistema. Poi, di loro non si seppe più nulla.

Molte volte Phil si chiese cosa sarebbe successo se avessero vinto loro e non “gli altri”.

Fu una rivelazione lo gnosticismo, per Phil, che si convinse che fosse Cristo il percorso per risalire alla luce del vero Dio. E la conversione cattolica fu per lo scrittore un percorso di fede vissuto come un grande racconto di fantascienza, un percorso in cui la più importante delle virtù teologali, quella che san Paolo chiamava carità, ovvero l’empatia, era la frontiera. Il discrimine per distinguere l’umano dal replicante, come nel suo “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”.

Le parole di San Paolo lo avrebbero ispirato a lungo. Perché poi chi è uno scrittore di fantascienza se non colui che già in questa vita vede e racconta

Il discorso, devo concentrarmi sul discorso, si disse Phil traendo un profondo respiro. Poteva percepire le vibrazioni del proprio nervosismo e questo non gli piaceva. Voleva ritrovare quella calma che proveniva da un punto di completa insensibilità che aveva scoperto dentro di sé.

Per un momento chiuse gli occhi, e gli sembrò di levitare, impalpabile, come una nuvola bianca sopra il cielo della propria piccola esistenza.

E probabilmente fu quello il momento in cui la sensazione di irrealtà si fece più forte, e fu allora che capitò, qualsiasi cosa sia quella che capitò nella sala congressi dell’hotel Sofitel.

Perché ora, seduto su quel palco, non c’era Phil ma Tommaso, “Didimo”, gemello spirituale di Gesù, colui che trascrisse le sue parole nel quinto Vangelo.

E Tommaso vedeva intorno a lui i cittadini romani che assiepavano il Foro, e il prefetto pretorio che parlava e lo indicava con la mano, in atto di accusa.

Come in un tempo sospeso, ora l’universo parallelo di Tommaso si era sovrapposto a quello di Phil, proprio come era accaduto la prima volta, nel marzo di tre anni prima, quando bussò alla sua porta il fattorino della farmacia, una giovane ragazza dai capelli scuri che indossava una collana d’oro da cui pendeva un luccicante pesciolino. Quel luccichio lo ipnotizzò, e in quel momento Phil dimenticò il dolore, le medicine e la ragione per cui quella ragazza si trovava lì. Lei gli spiegò che si trattava di un simbolo indossato dai cristiani delle origini, e fu quando gli porse il pacchetto delle medicine che Phil fece improvvisamente un’esperienza di debriefing, di anamnesi, ritrovandosi nel ‘70 dopo Cristo, nell’antica Roma. Quella ragazza era una cristiana clandestina e anche lui, Tommaso/Phil Dick, era uno dei cristiani perseguitati che si stavano segretamente preparando al ritorno di Gesù. Visioni di una vita parallela, una vita che lui stava vivendo proprio lì, in quel momento.

Dopo che la ragazza se ne fu andata, Phil pensò che gli era accaduto quanto era capitato al signor Tagomi, il personaggio di “L’uomo nell’alto castello”, un giapponese che credeva di vivere in un mondo in cui il suo popolo aveva vinto la guerra.

Il velo dell’apparenza era caduto.

Pensiamo di vivere nel 1974, si disse, ma è falso, e ora lui ne era sicuro. E allora quest’altra, di vita, quella di Phil, era solo inganno. Un dannato ologramma impostoci dal Demiurgo, il Signore dell’Impero che ci teneva prigionieri.

Basilide e Valentino lo avevano intuito tanti secoli prima. Li avevano messi a tacere. E ora toccava a lui, Philip K. Dick, farsi apostolo di verità. Rivelare di “Valis” e degli universi paralleli e della mente trascendente, della partita a scacchi far il Grande Programmatore e l’Avversario e di tutto il resto.

L’uditorio cominciava a rumoreggiare. Le parole piene di nulla dell’annunciatore stavano producendo un effetto soporifero, e gli organizzatori seduti in prima fila fremevano impazienti.

Phil si schiarì la gola, sfiorò con le dita la grande croce che riposava sul petto villoso sotto la camicia sbottonata, e con quel gesto si convinse di accomiatarsi da Tommaso. Almeno per il momento. Si portò la mano alla fronte e la ritrasse madida di sudore. Si sentiva nervoso, eppure di discorsi a congressi di fantascienza, davanti a un pubblico di fan, ne aveva già pronunciati alcuni e ascoltati parecchi.

Vangelo di Tommaso - rivelazione
Vangelo di Tommaso – rivelazione

La sala crepitava dei flash dei fotografi. Personaggi eccentrici ed ex figli dei fiori che ammiravano in lui il teologo iconoclasta antisistema l’avevano riempita per ascoltare lo scrittore che ai loro occhi combatteva l’oppressione e la violenza, e che nei suoi romanzi utilizzava misteriose “entità superiori” per sconfiggere l’ottusità della tirannia in una società dominata dalla tecnologia e dalla manipolazione sociale. Il profeta underground che considerava la follia come una delle alternative per arrivare a comprendere l’illusione del reale.

Poi, finalmente, il momento tanto atteso arrivò. L’annunciatore aveva concluso la presentazione, aveva ringraziato le autorità di Metz per la perfetta organizzazione, e ora stava dando la parola al prestigioso ospite d’onore.

Dal pubblico si levò un’ovazione liberatoria.

Phil si alzò, stinse la mano al presentatore e si sedette al suo posto, davanti al microfono. Poi sollevò lo sguardo sull’uditorio e, vedendo tutte quelle persone che pendevano dalle sue labbra, per l’ultima volta si chiese se avrebbero capito.

Se avrebbero veramente compreso di appartenere a un universo olografico, niente più che l’artificio di una mente artificiale che ci tiene imprigionati in una serie di matrici matematiche che creano il nostro mondo.

«Sono sicuro che voi non mi credete, e non credete nemmeno che credo a ciò che dico. Eppure è vero. Siete liberi di credermi o di non credermi, ma credete almeno questo: non sto scherzando. È una cosa molto seria, molto importante. Dovete capire che, anche a me, il fatto di dichiarare una cosa simile è stupefacente. Un sacco di gente sostiene di ricordarsi una vita passata, ma io sostengo di ricordare un’altra, diversissima, vita presente. Che io sappia nessuno ha mai affermato una cosa del genere, ma ho il sospetto di non essere il solo ad aver fatto questa esperienza. Ciò che è unico, forse, è il desiderio di parlarne…». ‒ dal discorso pronunciato da Philip K. Dick a Metz, il 24 settembre 1977

 

Written by Maurizio Fierro

 

Bibliografia

Emmanuel Carrère, Io sono vivo, voi siete morti, un viaggio nella mente di P. K. Dick, Adelphi Editore

 

 

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